Brassens, chansonnier degli ultimi
George Brassens

Brassens aiuta le persone a essere più fraterne, più tolleranti, ad affrontare la vita con più humor e quindi con più coraggio. Ogni volta che esco da Bobino, trovo la vita più bella, più pazza, desidero essere più amichevole. André Sève

 

La graziosa cittadina di Sète, con il suo porto e i traffici marittimi, gli scambi commerciali tra navi che solcano il Mar Mediterraneo: dalla Spagna, dall’Italia, dal Marocco, dalla Tunisia. Sète, villaggio occitano, a metà strada tra Marsiglia e il confine con la Spagna, nella Linguadoca-Roussillon, luogo di nascita del grande poeta Paul Valéry. Sète è anche il natio borgo del genio della canzone francese il “più anarchico degli anarchici”, l’anticonformista, l’“orso” Georges Brassens. Colui che ha trasformato una poesia in canzone, la realtà in una fotografia d’arte. E che ha generato la stirpe dei cantautori, in Francia, in Italia (Fabrizio De André, Fausto Amodei, solo per citarne alcuni), in quel passaggio d’anni tra i Cinquanta e i Sessanta.

Viene alla luce il 22 ottobre 1921, in una modesta abitazione di Rue de l’Hospice. Elvira Dagrosa, figlia di un bracciante napoletano arrivato in Francia in cerca di lavoro, lo ha avuto con il marito Louis Brassens, figlio di muratori. Si è innamorato subito della giovane, da poco trasferita nell’alloggio al numero 52, davanti al suo. È ospite presso alcuni parenti con la figlia, la piccola Simone. Da poco ha perso il marito, ucciso in guerra.

Elvira e Louis si sposano il 4 novembre 1919. Georges, nato poco dopo, trascorre un’infanzia serena, la famiglia gli trasmette sicurezza, rispetto per il prossimo, tanto affetto. Ma anche passione per la musica. Elvira canta spesso insieme alla figlia, talvolta i canti tradizionali della sua terra. E Georges, che ha una gran memoria, non vede l’ora di impararne di nuovi. L’acquisto di un grammofono riempie ancora di più le giornate di musica.

Non solo i dischi, non solo le canzoni, non solo i canti materni. Al liceo di Sète insegna il professore di letteratura Alphonse Bonnafé. Dischiuderà a un alunno disinteressato agli studi le porte di un mondo meraviglioso in cui le poesie sono versi che risuonano nel profondo dell’animo. E scavano, scavano. Diventano il sottofondo di un’adolescenza che si alimenta a metafore, rime, similitudini, significati nascosti, trame sotterranee, simboli occulti. Con le poesie ci sono anche i poeti immortali. Come François Villon, Victor Hugo, Alphonse de Lamartine e le loro vite inquiete o rocambolesche. Quella di Villon lo attrae più di tutte: avventurosa, dissoluta e ribelle.

François Villon
François Villon

Perché anche lui è ribelle. È per aver partecipato a qualche piccolo furto, più per noia che per reale necessità, che viene arrestato, insieme a una banda di coetanei. Portato in un posto di polizia, interrogato, rinchiuso in una stanza in attesa di giudizio. E di incontrare i genitori, verso i quali prova vergogna, teme di averli delusi. Non è un delinquente, ma quell’umiliazione, la confessione di una colpa e la sofferenza che ne è derivata, lasceranno in lui un segno indelebile. Da qui probabilmente la sua avversione verso le guardie, i gendarmi, gli uomini di una giustizia che si accanisce verso i ladruncoli e si dimentica dei veri criminali. E quel senso di smarrimento, la paura di aver perso la fiducia del padre. L’incontro tra i due, invece, è una grande prova d’affetto e di comprensione. Verso quest’uomo Georges proverà sempre una enorme stima.

Al processo presso il tribunale di Montpellier nel 1939 gli viene comminata la pena di un anno con la condizionale. Fuori dalle aule la gente gli grida una diversa condanna: a morte. Mai dimenticherà quelle parole lanciate da una folla inferocita. Tempo dopo dedicherà loro la canzone Le pluriel: Se si è più di quattro si è una banda di stronzi./ Bande a parte, accidenti, è la mia regola e ci tengo/Tra le grida dei lupi non sentirete le mie [Lotronto, Georges Brassens attraverso le sue canzoni, p. 67].

Così, a diciotto anni, insieme alla sua cattiva reputazione, Georges preferisce andarsene, salire su un treno e addio Séte. È Parigi, la grande città, ad attrarlo. E poi lì vive zia Antonietta, pronta a ospitarlo. Sorella di sua madre, origini italiane anche lei, gestisce una piccola pensione familiare nel quartiere di Montparnasse. E in casa tiene un pianoforte.

A Georges, che in breve tempo trova lavoro come operaio specializzato alla Renault, e la sera può mettere in musica qualche suo scritto, a Georges sembra che la vita vada per il verso giusto.

Ma sono gli anni terribili della guerra. I tedeschi occupano Parigi, conviene filarsela e fare ritorno alla solita Sète. Qui, però, si muore di noia, e tanto vale rischiare e tornare a Parigi, di nuovo da zia Antonietta. Niente lavoro, questa volta. Solo tanto studio, immersione nelle letture dei grandi poeti. Tra il 1940 e il 1943 nella vita di Georges ci sono solo libri, e parole, e suggestioni, e suoni, e immagini. Un mare profondo in cui lasciarsi andare. Diventerà poeta, questa la sua strada. Ma subito, nuove incombenze della vita ordinaria lo distolgono dal suo progetto.

Nel 1943 il servizio di lavoro obbligatorio lo convoca: è necessario rifornire la Germania di forza lavoro e lui è stato assegnato a un contingente a Basdorf, cittadina industriale vicino a Berlino. Operaio alla BMW, settore: motori per aeroplani. Vita grama, Georges in breve tempo è sfiancato nel corpo e nell’animo. Unico sfogo la scrittura che non lo abbandona mai. Accompagnandosi al pianoforte di una locanda a pochi metri dal campo butta giù qualche parola che diventa una canzone, e poi l’inno del campo. C’est nous les pafs è provocatoria e di contenuto pacifista: pace ai francesi.

La malinconia di casa diventa insopportabile e appena ottenuto un permesso per qualche settimana, salito sul treno per Parigi, sa che in Germania non vi farà più ritorno. È il 1944 e lui è ufficialmente un disertore. Un’amica della zia, Jeanne La Bonniec, che abita col marito all’Impasse Florimont, sempre a Montparnasse non si fa scrupolo di ospitarlo, nonostante i rischi nel nascondere un clandestino. È un’abitazione umile al punto da non avere acqua corrente, con stanze alla rinfusa: ognuna è camera da letto o bagno o cucina insieme. Ma Jeanne ha così tanta fiducia nel talento di Georges che non ha dubbi ad aprirgli quella misera casa e offrirgli tutto ciò che possiede, soprattutto la possibilità di poter scrivere, studiare e dedicarsi solo alla musica.

Jeanne e il marito sono fondamentali per la crescita di Georges: lo nutrono, lo mantengono, amano ciò che lui produce, e Georges dedicherà loro diverse canzoni. Diventeranno l’emblema di quella tipologia di persone verso le quali provare stima, ammirazione e rispetto: Da Jeanne, la Jeanne /Si è chiunque, si viene in qualsiasi momento /E come per miracolo, per incantesimo/ Si fa parte della famiglia/Nel suo cuore stringendosi un poco /Resta ancora un posticino [La Jeanne, in Lotronto, p. 27].

Ma anche Chanson pour l’avergnat è molto probabilmente ispirata a Jeanne e al marito: È per te questa canzone/Per te la locandiera che alla buona/Mi hai dato quattro tozzi di pane/Quando nella mia vita faceva fame/Per te che mi apristi la madia quando/Le zotiche e gli zotici/Tutta la gente ben intenzionata/Si divertiva nel vedermi digiunare [Lotronto, p. 94].

Come anche La femme d’Hector in cui si parla della moglie di un amico, così altruista e filantropa: La sorellina di noi poveracci/Nella scalogna sempre presente/Chi è questa fata benefattrice? [Lotronto, p.28].

È il mondo degli umili che prende forma nel pantheon degli eroi del quotidiano che affollano le canzoni di Georges. Loro, gli ultimi della terra, hanno il posto di favore. Quelli che pur avendo solo un tozzo di pane non temono di dividerlo con chi ha bisogno. Poveri disgraziati costretti dalla sventura a vivere fuori legge. Sono giganti agli occhi di Georges, “uniti dalla solidarietà umana che più si rafforza quanto più aggressive si fanno le avversità” [Lotronto, p. 92].

Anno 1946, fine della guerra e una constatazione: al livello di perfezione e grazia dei grandi poeti Georges non arriverà mai. Ma per la testa gli gira un’idea diversa: che sia la canzone la sua strada, è lì ciò che lui va cercando? Infatti: “È nel momento in cui comprende che musica e poesia non devono necessariamente rimanere due campi separati che nasce Georges Brassens, il cantautore” [Lotronto, p. 34].

Nel 1950 Georges ha pronte una ventina di canzoni ed è tempo di presentarle a un pubblico. Diversi locali a Parigi fanno esibire giovani: il Caveau de la Rèpublique, il Lapin à Gill. Ma ci vorrà Patachou, cantante di successo, a favorire la sua popolarità nei cabaret di Montmartre, presentandolo come un grande artista. A convincerla, la canzone portata da lui in audizione, con cui aprirà il suo primo concerto la sera successiva, La mauvaise rèputation. Scritta nel periodo della clandestinità, quando uscire di casa voleva dire guardarsi le spalle, suscitare sospetti negli altri, essere malvisto. Ma in fondo fregarsene, sentirsi orgoglioso di quella vita ai margini, a suo modo franca. Distante da quella vissuta dalla gente per bene, fatta di convenzioni e rapporti sociali fasulli. È una presa di coscienza della propria natura e una rivincita verso chi opprime le libertà esistenziali: In paese, modestamente,/Ho cattiva reputazione/Che io mi dimeni o resti cheto/Passo per un non-so-che! […] Eppure non faccio torto a nessuno/Seguendo tranquillamente la mia strada/ Ma alla brava gente non piace /Che si segua una strada diversa dalla loro/ Tutti sparlano di me /Tranne i muti, va da sé [Lotronto, p. 60].

“Stavamo mangiando – racconterà in seguito Pierre Nicolas, futuro inseparabile contrabbassista di Brassens presente in quella memorabile serata –. Eravamo circa quindici persone, quasi tutta l’orchestra, quando sentimmo quello strano tipo cantare. Interrompemmo i nostri discorsi e ci voltammo […]. Eravamo tutti colpiti: non avevamo mai sentito qualcosa del genere e alla fine della canzone mai applausi furono più sinceri” [Radio Suisse Romande, intervista riportata in Lotronto, p. 35-36].

È poi la volta di Le Gorille, canzone contro la pena di morte, che mette alla gogna giudici borghesi e corrotti. Canzone in cui “il giudice è l’incarnazione della giustizia borghese, e il Gorilla il desiderio di ribellione della povera gente contro l’ordine costituito” [Lotronto, p.69]. Protagonista è il Gorilla che fugge dalla cella in cui è rinchiuso. Le donne che guardavano con falso pudore alle sue parti intime ora scappano terrorizzate, il Gorilla vuole accoppiarsi. Sulla sua strada incontra una vecchia, che non disdegnerebbe le attenzioni di tale creatura, e un giudice, colpevole di aver condannato alla pena di morte un pover’uomo. È su quest’ultimo che il Gorilla si accanisce, infliggendogli la violenza della sodomizzazione.

Sconcerto e incredulità serpeggiano nel pubblico, qualcuno se ne va scandalizzato, altri si divertono e richiedono altri pezzi. Così, serata dopo serata, la popolarità di questo giovane irriverente aumenta. La gente vuole ascoltare quelle strane canzoni, e vederlo suonare la chitarra alla bell’e meglio, sentirlo cantare con una voce pressappoco, senza dire mai niente, ombroso e schivo. Ma straordinariamente comunicativo. Infatti, arrivano i contratti. Per esibirsi ai Trois Baudets, tanto per cominciare. Poi, nel 1952, il nome di Georges Brassens risuona in ogni dove, il mondo della canzone d’autore ha ufficialmente il suo protagonista. Da quel momento fino agli anni Ottanta è in cartellone nel più blasonato locale della scena francese, il Bobino, che diventerà suo palcoscenico prediletto. Vincerà il Gran Premio del Disco per il suo primo 33 giri; comparirà nel film Porte des Lilas, a recitare la parte di se stesso.

L’Académie Française gli conferirà il Premio di Poesia (1967) che tante polemiche scatenerà, per aver valorizzato uno chansonnier più che un poeta vero e proprio. Registrerà album, otterrà premi per i dischi venduti in tutto il mondo, con canzoni sue o brani della tradizione francese. Un maestro, un mostro sacro della canzone, era nato dai canti napoletani ascoltati in casa, dalle poesie lette al liceo, da una restituzione del mondo con parole che mai nessuno aveva osato prima. Cantando gli umili, i diversi, le prostitute, la povera gente, i ladruncoli che, come lui, per sbaglio, per gioco, per uno scherzo del destino, si erano fatti una cattiva reputazione.

Con parole diverse e musiche nuove, soprattutto. Addio al romanticismo della canzone di allora, addio ai modi sdolcinati di fare musica, niente note mielose che riempiono le orecchie e non lasciano ascoltare i suoni veri. C’è la freschezza improvvisata del jazz, nella musica di Georges Brassens. C’è il “ritmo del verso” attorno al quale la melodia gira intorno; c’è qualche traccia blues e il folk del repertorio popolare francese. Le atmosfere mediterranee che vengono dai canti ascoltati nell’infanzia. E poi la musica trovadorica, un medioevo reinventato che risuona nelle parole antiche e ricercate. Una mescolanza di generi prodotta da quel poco o niente che fa il tutto: una amalgama di chitarra, contrabbasso, voce. Nessuna orchestra a disturbare un’atmosfera raccolta e densa. È questa asciuttezza di linguaggio, diretta e senza fronzoli, che fa nuovo lo stile di Georges. Che poi rispecchia l’autore: a favore dei rapporti autentici tra persone, della solidarietà verso i più disperati, di un sincero sentimento di amicizia. Di una solidità di carattere che gli rende facile decidere da che parte stare.

Brassens, chansonnier degli ultimiNon apprezza le regole che governano il mondo della gente per bene. Sono gli ultimi, con le loro debolezze, i vessati dalle ingiustizie e dalle diseguaglianze, una schiera di perdenti, verso i quali condivide un senso di sincera fratellanza. “Per Brassens il milieu in cui si muovono questi emarginati è poetico: ed è per questo che canta gli ubriachi, le prostitute, i girovaghi, i poveri, così come lo stesso Villon li aveva descritti, senza pietismi o stupidi moralismi, restituendoceli nella maniera più autentica possibile” [Lotronto, p. 53].

Sono loro a dissacrare la morale borghese, ignorando le norme dei benpensanti, fatte di ipocrisia, ambizione economica e sociale, falsa moralità. Meglio un vivere trasparente e privo di sotterfugi.

Questo mondo si cesella grazie a un vocabolario di parole che pesca nel linguaggio colto delle espressioni latine insieme a quello turpe dei bassifondi parigini, l’argot; il linguaggio mitologico della favola con quello colorito della parolaccia. Come scelta anticonformista, di libertà espressiva, che possa escludere, tra gli ascoltatori, i bigotti e i moralisti incapaci di comprendere l’ironia di Georges.

Tra le innumerevoli canzoni si delineano tematiche ricorrenti che fanno dei testi una grande opera di poetica nella quale immediatamente si riconosce la visione dell’autore.

La sfida ai benpensanti, come l’innata vicinanza al mondo degli umili sono temi che si ripropongono in tutto l’arco della produzione. Balzano fuori, oltre che nei testi già citati, anche in Les croquants. Canzone dedicata agli zotici, i finti perbenisti che nascondono dietro ai soldi pensieri turpi: Gli zotici vanno in città a cavallo dei loro soldi/ Per comprare vergini dalla santa buona gente [Lotronto, p. 61].

Dall’altra parte ci sono i malcapitati, i poveri diavoli che il destino prende a schiaffi e costringe ai margini della legalità. Ma per loro c’è redenzione. Anche per chi esce di galera e teme di essere di nuovo emarginato: Allora ho visto che restava ancora/Della gente e della bella gente sulla terra/Ed ho pianto col culo a terra /Tutte le lacrime del mio corpo. [Celui qui a mal tourné, in Lotronto, p. 100].

L’individualismo è un altro elemento connotante che spesso si manifesta in una sorta di autoironico compiacimento della propria diversa scelta di vita. Scelta di autonomia di pensiero, che si esprime anche come dichiarazione di renitenza alle armi: Quando il giorno della gloria è arrivato/Siccome tutti gli altri erano crepati/ Io solo conobbi il disonore/ Di non esser morto sul campo d’onore [La mauvaise herbe, in Lotronto, p. 62].

L’antimilitarismo si rivela nelle forma del ripudio della violenza e nell’adesione ai valori del pacifismo. In La guerre de ’4-’18 due vecchi militari discutono amabilmente di guerre: qual è la più bella? Certamente la Grande guerra. Quella in cui masse contadine e poveri diavoli sono stati massacrati. Mandati a combattere in un inferno a mani nude. Invece i grandi uomini dell’esercito, che hanno condannato a morte dei disperati, possono ancora godersi i piaceri della vita. La guerra è solo morte e distruzione, nulla di cui andare fieri.

Georges rifiuta in toto ogni forma di fanatismo, inteso come imposizione delle proprie idee. Incapacità di comprendere i punti di vista altrui e sostenere un sereno confronto. Gli ideali sacrosanti per i quali si è disposti a morire o a uccidere sono semplicemente forme di violenza che non aiutano la società a crescere e migliorare: Morire per delle idee, l’idea è eccellente/Per poco non morivo per non averla mai avuta [Mourir pour des idées, in Lotronto, p. 125].

Nessuna canzone come Les deux oncles sa esprimere meglio questo concetto: due vecchi zii morti a difesa delle loro posizioni, l’uno a favore dei tedeschi, l’altro degli inglesi, nella seconda guerra mondiale. Tra di loro e verso i loro ideali Brassens non fa nessuna preferenza, sono entrambi fanatici e intolleranti. A loro è preclusa qualsiasi riabilitazione: Cantereste brindando insieme alla vostra salute/Che è folle perder la vita per delle idee/Delle idee come queste che vengono e che fanno/Tre giravolte, tre morticini e poi se ne vanno [Les deux oncles, in Lotronto, p. 123].

Il sentimento dell’amore viene scandagliato in una miriade di sfaccettature: dall’adulterio, alla passione tra emarginati in cerca di un’àncora che salvi dalla disperazione; alla trasgressione della morale comune, che ripudia gli amori carnali. Questa morale prescrive la resistenza agli istinti, soprattutto alle giovani donne, a cui è proibito cedere al desiderio. Come ben racconta La chasse aux papillons: Sulla sua bocca in fuoco che gridava: “Fai il bravo!”/Lui posò la sua bocca come un bavaglio [Lotronto, p.75].

C’è anche un po’ di biografia nelle canzoni d’amore di Georges. La non demande en mariage, per esempio, è ispirata alla vicenda personale della sua lunga storia sentimentale con la compagna di una vita che mai sposerà: Come a una eterna fidanzata/Alla donna dei miei pensieri/ Sempre perso. /Ho l’onore di non chiederti la mano/Non incidiamo i nostri nomi sotto una pergamena. [Lotronto, p.80].

Perché il matrimonio è un contratto che nulla ha a che vedere con la manifestazione sincera di un amore. Versione dal vivo:

Le donne, nelle canzoni di Georges, quando sono mal giudicate, è perché sono raccontate dal punto di vista del benpensante moralista. Ma nella visione poetica dell’autore le prostitute, le donne che si concedono, sono simboli di vitalità, di trasgressione al vivere comune che le vorrebbe morigerate, pudiche, represse nei loro desideri. Invece le donne sono ribelli e anticonformiste e vivono la vita che vogliono. E poi, prima di tutto, sono persone, a cui riconoscere rispetto e diritti: ai sogni, ai desideri, a un’anima, a un’esistenza libera. Come Lisetta de Les croquants: Ma il cuore di Lisa, il gran cuore di Lisetta/ Ama cambiar pelle ad ogni stagione/ Mai due volte lo stesso colore/Mai due volte lo stesso fiore [Lotronto, p.85].

O come la Margot di Brave Margot, giovane e bella contadina che trova un gattino abbandonato e lo raccoglie nel suo corsetto. L’ innocente Margot pensa che gli sguardi morbosi degli uomini siano rivolti al piccolo animale. Ma la situazione disturba così tanto le donne che, per riconquistare l’attenzione dei maschi, decideranno di eliminare la bestiola.

A dare un senso alla vita di Georges ci sono poi gli amici, con cui condividere merende innaffiate dal vino, a suggello dei momenti trascorsi in allegria. Gli amici veri sono come fiori, gentili, ingenui, puri.

Nel bosco del Clamart ci son dei piccoli fiori/Ci sono dei piccoli fiori/Ci sono dei compagni nel bosco del mio cuore/Nel bosco del mio cuore [Au bois de mon coeur, in Lotronto, p. 108].

E fedeli. Come fratelli, come complici, come mani tese e braccia pronte ad accogliere: Alla più piccola delle disgrazie/Era l’amicizia che faceva il turno di guardia/Era lei che indicava loro il nord/E quando erano in difficoltà/E le loro braccia lanciavano degli S.O.S./Sembravano dei fari/Gli amici innanzitutto [Les copains d’abord, in Lotronto, p. 115]. Versione dal vivo:

Ma c’è anche la morte che incombe, nelle giovanili come nelle ultime produzioni. Si passa dalla sfida beffarda a una sorta di consapevolezza che poi diventa rifiuto amaro e ribellione all’avvicinarsi del momento finale. Così, i racconti macabri e cimiteriali si trasformano nella più angosciosa contemplazione della condizione umana con l’accettazione di un destino comune. Non c’è resurrezione, non c’è vita oltre la morte. Che arriva, coglie di sorpresa e poi trascina via a braccetto: E mio zio seguì le orme/ Della bella che non sembrava/ Così feroce/ Ed eccoli a braccetto/Eccoli partiti per non so dove/ per celebrare le loro nozze [Oncle Archibald, in Lotronto, p. 158].

Quel che resta è il foscoliano pianto sulla tomba, di coloro che in vita sono stati amici: Sul mio piccolo terreno/Piantate ve ne prego una specie di pino,/Pino ad ombrello preferibilmente/Che saprà premunire contro l’insolazione/I buoni amici venuti a fare sulla mia concessione/Delle affettuose riverenze [Supplique, in Lotronto, p. 165].

Il 1º novembre 1981 Georges Brassens muore a Sète, dopo una lunga serie di interventi e terapie per una patologia ai calcoli renali. Seppellito nel Cimitero dei Poveri, alla presenza dei pochi amici come da sue volontà, non si può non immaginarlo in questo viaggio, in compagnia della sua chitarra. Amica fedele con la quale ha smascherato vizi e soprusi di bigotti, moralisti, potenti della terra, stando dalla parte degli ultimi. Di quelli che come lui hanno amato, della vita, gli affetti veri, l’onestà verso se stessi, sempre.

Diversi documentari raccontano la vita e l’arte di Georges Brassens: Georges Brassens les images de sa vie

e Le regard de Georges Brassens

 Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli