Un artista deve essere un autentico creatore e quindi nel suo profondo un rivoluzionario. Un uomo pericoloso quanto un guerrigliero a causa del suo grande potere di comunicazione. Víctor Jara

victor-jara-discoQuesto è Víctor Jara: cantante, musicista, cantautore, regista, poeta. Artista e rivoluzionario. Perché qualcosa cambia in chi ascolta le sue canzoni: orizzonti, desideri, punti di vista. Oggi come ieri, e questa non è una rivoluzione da poco. Per quella sua capacità di fare della canzone un’arma con la quale condannare le ipocrisie del suo Paese, denunciare ingiustizie e abusi. Quel Cile che, anche grazie a lui, al Movimento della Nuova Canzone Cilena, a un’idea di cultura come espressione dell’identità di un popolo, negli anni del suo Sessantotto ha assistito al trionfo elettorale di Salvator Allende e all’avvio di una “rivoluzione pacifica”, come dirà Luis Sepúlveda. Una vita straordinaria, spesa per la musica, ispirazione per musicisti e cantanti. E per la gente comune, che a lui ha guardato costantemente come l’ideale più alto a cui un’esistenza possa ambire. Una vita dedicata alla causa della libertà. Vissuta per l’indipendenza dalla dittatura, da ogni fascismo o golpe militare, come quello con cui Augusto Pinochet mandò in frantumi un governo democratico. Chiusa da una tragica morte. Ucciso nel settembre del 1973, “il suo atroce assassinio, ordinato di persona da Pinochet, è una ferita aperta nel cuore di tutto il popolo cileno, una ferita che si rimarginerà solo quando tutti i crimini saranno stati giudicati e condannati” (L. Sepúlveda). Dopo quarant’anni a Orlando, in Florida, solo da poco si è aperto il processo per il suo omicidio. Un ex ufficiale dell’esercito cileno, Pedro Pablo Barrientos Núñez, è accusato da un tribunale statunitense in una battaglia legale e politica che vede testimone la vedova di Jara, Joan Turner.

Vìctor con la moglie Joan Turner
Vìctor con la moglie Joan Turner

È anche grazie a lei che oggi si conosce Víctor Jara. Tra le pagine della sua biografia Víctor Jara. Una canzone infinita, emerge una storia grandiosa, di talento e coraggio, che toglie il fiato.

Víctor nasce nel 1932 a San Ignacio da genitori contadini. Cresce appena fuori dal piccolo villaggio di Lonquen, un luogo in cui folklore e tradizione sono parte integrante della vita quotidiana: quando il granturco è maturo tutte le famiglie lavorano assieme fino a notte fonda per raccogliere le messi, tra musica di chitarra e canti della tradizione. Anche il lavoro più duro diventa una festa nella comunità. Sua madre Amanda, suona la chitarra davanti ai fuochi accesi per la notte: Víctor, bambino, scivola nel sonno, ma intanto si innamora della musica. All’età di sei anni deve aiutare la famiglia nel lavoro dei campi. Il padre Manuel coltiva l’appezzamento di terra che ha in affitto. Vita grama, poco da guadagnarci. Comincerà a bere, e a picchiare moglie e figli. Queste violenze saranno tra i temi delle prime canzoni di Víctor, come anche il ricordo struggente della madre, la condivisione della musica e del canto; la accompagnerà a tutte le ricorrenze cui è invitata: matrimoni, battesimi, veglie funebri, fino all’età di quindici anni, quado Amanda verrà a mancare. Allora, da studente dotato, su consiglio di padre Rodríguez entrerà nel seminario dell’Ordine dei Redentoristi a San Bernardo. Non sarà quella la sua vocazione. È il teatro ciò che ama. Nel 1956 è iscritto alla scuola di arte drammatica dell’Università del Cile. 

Santiago, 11settembre 1973: è in corso il colpo di stato contro il Presidente Salvador Allende, nella foto. Sono le sue ultime ore, circondato dai ragazzi dei GAP (Gruppo Amici del Presidente) che furono nella quasi totalità a loro volta assassinati dai golpisti
Santiago, 11 settembre 1973: è in corso il colpo di stato contro il Presidente Salvador Allende, nella foto. Sono le sue ultime ore, circondato dai ragazzi dei GAP (Gruppo Amici del Presidente) che furono nella quasi totalità a loro volta assassinati dai golpisti

Qui frequenta il Café São Paulo, luogo d’incontro di artisti e intellettuali, dove conosce persone appassionate e talentuose, come Violeta Parra, o come un gruppo folk, Cuncumén, il primo ad assumere un nome indigeno, che lavora alla riscoperta di canti e danze folcloriche. Con loro si esibirà nei giorni della Fiestas Patrias, nei parchi di Santiago, nei quartieri periferici. Ma anche in lungo e in largo per l’Europa: Praga, Leningrado, Odessa, Francia, Paesi Bassi. Sono gli anni in cui anche in Italia comincia il lavoro di ricerca sulla canzone popolare e di protesta, l’interesse verso il mondo folklorico di un’Italia contadina che a causa del boom sta scomparendo. Sono gli anni di Roberto Leydi, Gianni Bosio e del Nuovo Canzoniere Italiano, delle scorribande per l’Italia con il nastro magnetico in mano a registrare il patrimonio orale dei canti e delle tradizioni locali. E prima ancora di Alan Lomax in America e poi in Italia. Sono gli anni dei viaggi di Cantacronache nella Spagna franchista per registrare canti di protesta che la gente intona contro la dittatura. Sono gli anni di una presa di coscienza, dell’esistenza di una classe popolare, che presto dovrà emergere, con la consapevolezza del valore della propria cultura. Anni che preparano alle rivolte del Sessantotto. Un fermento che passa dalla volontà di riscoperta di radici e di identità.

Víctor scrive dal principio canzoni autobiografiche, intimistiche, personali: ricordi della madre, i sentimenti, l’infanzia, pensieri e riflessioni sulla famiglia. Poi nel 1962 dirige la registrazione di un album di canzoni popolari con i Cuncumén, Una geografia musical de Chile, una raccolta di arie di tutte le regioni del Paese. L’album contiene anche due sue canzoni: Paloma, quiero contrarte e Cancion del minero sulla fatica del lavoro in miniera.

Non sa scrivere le partiture musicali, conosce la musica a orecchio, ma niente lo ferma quando un’idea lo coglie: “Sembrava sempre – scrive Joan – che dentro di lui albergassero due o tre canzoni […]. Aveva le tasche sempre piene di pezzi di carta tutti scarabocchiati di note e di versi”.

Come in Italia la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta è segnata dalla nascita dell’industria discografica, la sede della Rca a Roma, le hit parade che cominciano a portare in cima titoli di brani americani, anche in Cile per sfondare i cantanti locali hanno bisogno di americanizzare i loro nomi, pop star statunitensi vengono proposte al pubblico cileno, le case discografiche appartengono a società commerciali, solo poche sono più indipendenti e aperte ad altri interessi musicali. Nelle vicina Argentina, però, il presidente Perón emana una legge che rende obbligatorio per le stazioni radio dedicare almeno la metà delle trasmissioni musicali alle composizioni tradizionali del folklore argentino. Di qui la nascita di gruppi di musica e danze tradizionali o anche pop, ma di sicuro carattere argentino. Per imitazione anche in Cile sorgono diversi gruppi. Il folk è cultura, è anima popolare, va preservato, diffuso, promosso. In Cile l’interesse per il folk diventa elemento integrante all’interno delle manifestazioni della sinistra, ci sono esibizioni ai comizi della campagna elettorale di Allende. Angel Parra aprirà la Pana de los Parra, una sorta di cooperativa di artisti, in cui mangiare qualcosa in un ambiente informale, cantare folk, scambiarsi idee sulla canzone senza censure o preoccupazioni commerciali, dove ascoltare musica popolare e latinoamericana. Si esibisce anche Violeta Parra. A lei si deve un’importante opera di recupero e diffusione della tradizione popolare del Cile; nelle sue canzoni sono sempre presenti la denuncia e la protesta per le ingiustizie sociali. Nel 1966 canta il suo Gracias a la vida. Pochi mesi dopo, il 5 febbraio 1967, si suiciderà senza aver mai ricevuto il riconoscimento meritato.

Una sera viene annunciato anche Víctor: per la prima volta canta le sue composizioni o le canzoni popolari da lui stesso raccolte. Un grande successo e per cinque anni l’appuntamento di Víctor alla Pena è costante. Registrerà i suoi singoli come La cocinerita  e El cigarrito.

O canzoni che guardano alla realtà sociale del Cile, la situazione di povertà, di emarginazione. La storia dei bambini che dormono sotto i ponti nei pressi del Mercado Central in Canción de cuna para un niño vago.

Per qualche tempo sarà anche direttore artistico del gruppo musicale Quilapayún, famoso per la sperimentazione di nuove sonorità nell’ambito della musica popolare cilena e latinoamericana.

Nei suoi viaggi, tra le campagne, i piccoli paesi di contadini, un giorno incontra Angelina Huenumán: “Una donnina dritta come un fuso, con lunghi capelli neri […]. Indossava una tunica blu scuro, chiusa da un’elaborata spilla di metallo, e aveva un’aria calma e piena di dignità. Il viso dagli zigomi alti sembrava non avere età”. D’inverno, quando il raccolto è stato messo a riparo, fila la lana, la tinge e la tesse a farne coperte. A piedi si mette in viaggio per la successiva città e la vende al miglior offerente. Una figura potente, arcaica, “solitaria nello spazio della quiete della campagna deserta”. Ispirerà una canzone diventata celebre: Angelita Huenumán, icona del popolo cileno.

Angelita, nella sua trama

versa tempo, lacrime e sudore,

scopre le anonime mani

del mio popolo creativo.

La metà degli anni Sessanta, intanto, rappresenta un momento difficile per il Cile, il Democratico Cristiano Eduardo Frei Montalva sostenuto dalla Destra, eletto nel 1964, con lo slogan “Rivoluzione in libertà” ha promesso molte riforme popolari come la “cilenizzazione” delle miniere di rame, la riforma economica e agraria. Ma nulla di tutto ciò va in porto. Víctor osserva la situazione del suo Paese e le sue canzoni cominciano a farsi meno personali e autobiografiche: parlano di ingiustizie sociali, la volontà di denuncia, una vocazione più politica: “Sono sempre più toccato da ciò che vedo attorno a me – dirà – la povertà del mio Paese […]. Ma ho anche visto che cosa può fare la vera libertà, che cosa può realizzare la forza di un uomo quando è felice. A causa di tutto ciò, e soprattutto perché io desidero la pace, ho bisogno del legno e delle corde della mia chitarra per dare voce alla tristezza o alla felicità, qualche verso che apra la terra come una ferita, qualche riga che ci aiuti tutti a distogliere lo sguardo da noi stessi e a guardarci attorno, vedendo il mondo con occhi nuovi”.

Poco dopo scriverà: Te recuerdo Amanda, a seguito della notizia della malattia della figlia Amanda, colpita dal diabete. Ma è una canzone che parla della violenza di una barbarie, di un’ingiustizia, la guerra che in un attimo cancella ogni futuro:

E lui si avviò ai monti per lottare.

Non aveva mai fatto male a una mosca

e in cinque minuti

fu tutto spazzato via.

Suona la sirena,

tempo di tornare al lavoro.

Molti non lo faranno…

E tra di loro Manuel

Verso la fine degli anni Sessanta le canzoni guardano ancora di più alle vicissitudini della popolazioni dell’America latina: una di queste è El aparecido, del 1967 sulla vicenda di Che Guevara, personaggio mitologico in grado di sfuggire a chi gli dà la caccia. Solo pochi mesi dopo, arriverà la notizia della sua morte. La canzone non è tanto un invito a prendere le armi, ma un’espressione di ammirazione per l’eroismo del personaggio, la cui fuga ardimentosa è resa del ritmo di galope con scatti veloci e ritmati.

Altre, poi, cominciano a suggerire sentimenti di denuncia dei metodi degli Stati Uniti nel difendere i propri interessi in America latina: invio di armi, la speciale forza di polizia cilena addestrata per soffocare ogni dimostrazione, interventi militari. E poi netta e prevaricante l’invasione culturale: “I mass media erano zeppi di propaganda per lo stile di vita americano, le edicole dei giornali erano tappezzate di fumetti americani da due soldi; dalle radio dilagava musica pop americana, la televisione trasmetteva soap operas americane […] e dato il peso che aveva la radio nelle nostre vite – scrive Joan Jara – i più poveri e derelitti erano i più vulnerabili a questo tipo di indottrinamento”.

“L’invasione culturale – lui dirà – è come un albero forzuto che ci impedisce di scorgere il nostro sole, il nostro cielo, le nostre stelle. Sicché per poter vedere il cielo sopra le nostre teste, è nostro dovere tagliare quest’albero alle radici. L’imperialismo statunitense capisce benissimo la magia della comunicazione tramite la musica e continua a rimpinzare i nostri giovani di ogni sorta di stupidaggini commerciali”.

Nel 1969 Víctor scriverà Quien matò a Carmencita? La storia vera di una ragazza suicida sotto l’effetto della droga.

In quel momento, anche in America si levano voci diverse, di dissenso, che condannano lo stato delle cose, la cultura imperante, voci come quella di Pete Seeger, per esempio, che canta contro la guerra del Vietnam. Sono le voci della canzone di protesta. O come Víctor preferirà chiamare “Canzone rivoluzionaria”. Sono i segni di una volontà di riscossa che porterà di lì a poco al Sessantotto cileno, che passa per la riforma dell’università, da rendere accessibile ai figli degli operai e contadini. Durante i comizi si cantano le canzoni di Víctor, degli Inti Illimani. Nasce il Movimento della Nuova canzone Cilena (La Nueva Canción Chilena) che trova un pubblico tra gli studenti, a cui si poi aggiungeranno contadini e operai. Nel Movimento tutti sono accomunati dal “desiderio di essere parte di un processo rivoluzionario e con il proprio lavoro contribuire allo sviluppo di una nuova cultura”. Víctor “pensava che un artista dovesse preoccuparsi meno di produrre l’opera trascendentale che non di essere una specie di artigiano […]. Per lui la cosa più importante era dare alla gente i mezzi affinché potesse esprimersi, e quindi essere rispettosamente ascoltata […]. Dovremmo ascendere noi al popolo, non avere l’impressione di abbassarci verso di esso – diceva –. Il nostro lavoro consiste nel dargli ciò che gli appartiene, cioè le sue radici culturali, e i mezzi per soddisfare la fame di espressione culturale”.

Ogni occasione è buona per cantare e Víctor fa concerti in tutto il Paese, nelle grandi città o nelle località più remote. La canzone, il canto, diventa parte di un movimento sociale e politico, arma per una lotta rivoluzionaria. A tutto ciò la polizia risponde con armi vere, bombe lacrimogene, mitragliatrici. Come contro un gruppo di famiglie che hanno occupato un appezzamento incolto a Puerto Montt, la principale città dell’estremo sud cileno. Nel 1969 una manifestazione contro il carovita e le difficili condizioni di vita viene repressa nel sangue su ordine del comandante della locale guarnigione militare. Seguono rivolte di indignazione generale in tutto il Paese. Víctor canterà Preguntas por Puerto Montt.

Alcuni giovani giurano che presto gli daranno una lezione se non smette di cantare canzoni sovversive. Canzoni che semplicemente raccontano la realtà e denunciano le ingiustizie.

In quel 1969 il Cile sta andando in pezzi a causa di un devastante conflitto sociale e politico, dilaga la tensione sociale e la canzone diventa mezzo per raccontare e diffondere quello che sta succedendo nel Paese. I Giovani Comunisti riescono a creare una società discografica alternativa, la Discoteca del Cantar Popular. Da questa etichetta escono due album di Víctor: Por Vietnam, album di canti politici internazionali e Pongo en tus manos abiertas. Album di successo che fanno della casa discografica un’impresa fiorente che crea nuovi canali per raggiungere pubblici di massa. Poco dopo si organizzerà il primo Festival della Nuova Canzone Cilena. Qui la sua canzone Plegaria a un labrador lo consacra come cantore dello spirito più profondo della sua terra: è una chiamata alla lotta contadina. Un appello a coloro che lavorano la terra con le proprie mani a unirsi contro ogni sfruttamento e miseria, per una società giusta, egualitaria. Il Cile necessita di una riforma agraria e questa canzone è insieme una preghiera e un manifesto politico:

Alzati e guardati le mani,

per crescere stringile al fratello.

Insieme andremo, uniti nel sangue,

ora e nell’ora della nostra morte,

amen.

La campagna per le elezioni presidenziali cilene del settembre 1970 comincia a mettersi in moto con un anno di anticipo. Il partito Nazionale di destra nomina i suoi candidati, Jorge Alessandri e Rodomiro Tomic. A metà gennaio 1970 le forze di Unità Popolare raggiungono un accordo e Salvator Allende, del Partito socialista, viene scelto come candidato. Le manifestazioni politiche sono accompagnate da concerti, spettacoli. Víctor e Joan sono tra gli artisti che vi partecipano assiduamente: “Da parte nostra – scrive lei – il miglior modo di lottare era fare tutto quanto era in nostro potere per assicurare la vittoria di un presidente che degli ignoranti e derelitti avrebbe fatto i protagonisti della storia”. La campagna in poco tempo diventa accesa e serve una canzone che funga da inno. Così nasce Venceremos con la musica di Sergio Ortega e le parole di Víctor. Sarà poi l’inno di Unità Popolare.

“Chi non abbia mai sperimentato non può immaginare che cosa volesse dire far parte di quelle manifestazioni di massa – scrive Joan – […]. La gente si contava di continuo, sul posto di lavoro, nei rioni, nelle università, ai raduni grandi e piccoli. Per il nostro morale era di straordinario incoraggiamento vedere che i sostenitori di Unità Popolare erano in grado di mobilitare folle più vaste di quelle riunite dal partito al potere. […] Ma più importante del mero conteggio di teste era l’esperienza di vederci e toccarci reciprocamente, di sentire la presenza fisica di tante persone che sapevano come essere compañeros”.

Il quattro settembre 1970: “Nella strada si balla, ci si tiene per mano, si fanno catene, si accendono i falò”. Allende ha appena vinto le elezioni. Tutti i più importanti gruppi culturali, le orchestre, il Movimento della Nuova Canzone Cilena allestiscono spettacoli non-stop. Il primo luglio 1971, Giorno di dignità nazionale, si ottiene la nazionalizzazione delle miniere di rame: il popolo cileno si riprende il controllo delle risorse nazionali togliendolo alle multinazionali. L’opposizione, a breve, si organizzerà per dare il via alla controffensiva. Per le strade di Santiago serpeggia uno slogan: El pueblo unido jamás será vencido: Non bisogna cedere. Diventerà simbolo della lotta per la democrazia, in Cile, come in ogni dove. La cantano gli Inti Illimani, poi il mondo intero.

La nazionalizzazione delle miniere non può trovare il benestare delle capitali della finanza e delle grandi società. Se il Cile può affermare la sovranità e opporsi alla gestione delle proprie risorse naturali, quanti altri Paesi potrebbero avanzare tale pretesa? La potente organizzazione dei camionisti entra in sciopero, le compagnie ottengono l’embargo internazionale contro il rame del Cile, bloccate le autobotti, benzina introvabile, mezzi pubblici fermi, scompaiono i beni di prima necessità: latte, riso patate, zucchero.

Durante i mesi di gennaio e febbraio del 1973 la campagna elettorale giunge al culmine. Di fronte all’impossibilità di eliminare Allende con mezzi democratici, viene presa la decisione di rovesciare il suo governo con un golpe militare. Il clima di volenza dilaga per le strade: grida, fragore di vetri rotti, crepitio di bombe lacrimogene, minacce.

Víctor scrive una sorta di testamento: non canta perché ha una bella voce, ma per raccontare verità. Denunciare soprusi, difendere diritti, perché si prenda coscienza di ciò che accade e si guardi alla realtà. Di un Paese, di un popolo sofferente e oppresso. “Una canzone ha senso quando pulsa nelle vene di un uomo che morirà cantando, sinceramente cantando la sua canzone”.

La mia canzone non è per ramazzare premi,

né per ottenere fama internazionale,

è per questo paese stretto

proprio giù in fondo alla terra.

Là, dove tutto giunge alla fine

e dove tutto comincia,

una canzone che sia stata coraggiosa

sarà per sempre nuova. (Manifiesto)

L’undici settembre 1973 tutte le stazioni radiofoniche di Unità Popolare vengono zittite, le antenne danneggiate o le sedi occupate dai militari. Allende parla per l’ultima volta: “Ripagherò con la mia vita la lealtà del popolo”. Gli verrà rivolto un ultimatum: arrendersi ai comandanti delle forze armate guidate da Augusto Pinochet o il palazzo della Moneda sarà bombardato. Cosa che avverrà subito dopo.

Mentre si reca alla sede dell’Università per organizzare una reazione Víctor viene riconosciuto e catturato. Condotto allo Estadio Nacional de Chile, trasformato in campo di concentramento, e poi nel vicino Estadio Chile, un complesso sportivo con un palazzetto, qui rimarrà prigioniero diversi giorni. Trucidato e ucciso. Il corpo gettato all’obitorio, senza documenti di identità perché nessuno lo reclami. Ma viene riconosciuto da un giovane. La moglie potrà dargli degna sepoltura, prima di espatriare.

“Siamo saliti al secondo piano – racconta – dove erano gli uffici amministrativi e, in un lungo corridoio, ho trovato il corpo di Víctor in una fila di una settantina di cadaveri. La maggior parte erano giovani e tutti mostravano segni di violenze e di ferite da proiettile. Quello di Víctor era il più contorto. Aveva i pantaloni attorcigliati alle caviglie, la camicia rimboccata, le mutande ridotte a strisce dalle coltellate, il petto nudo pieno di piccoli fori, con un’enorme ferita, una cavità, sul lato destro dell’addome, sul fianco. Le mani pendevano con una strana angolatura e distorte; la testa era piena di sangue e di ematomi. Aveva un’espressione di enorme forza, di sfida, gli occhi aperti”.

Le mani, con cui scriveva le canzoni, con cui suonava la chitarra. Spezzate.

La sua ultima poesia è uno straziante racconto delle ultime ore:

Com’è difficile cantare

quando devo cantare l’orrore.

L’orrore che sto vivendo,

l’orrore di cui sto morendo.

Vedermi in mezzo a così tanti

e innumerevoli momenti di infinito

nel quale silenzio e grida

sono la fine della mia canzone.

Ciò che vedo, non l’ho mai visto prima.

Ciò che ho provato e ciò che provo

daranno vita al momento… (Estadio Chile, Settembre 1973).

 

Da questo momento il nome di Víctor dovrà essere censurato. Cancellata la sua musica e quella della Nuova Canzone Cilena, distrutta la sede della casa discografica, eliminato tutto il materiale e le registrazioni originali. Come se Víctor non fosse mai esistito.

Invece, nel dicembre 1973 ci sarà il primo concerto in suo onore a Parigi, poi a Roma, poi a Berlino, a San Francisco. Ovunque. Perché la memoria non si è mai spenta. Lo sanno gli artisti che gli hanno dedicato canzoni, o ne hanno riprese, integralmente o solo con citazioni, tra le sue originali. Lo sa Arlo Guthrie che per lui ha scritto Víctor Jara; lo sa Bruce Springsteen che canta Manifiesto;

lo sa Pete Seeger che ha tradotto in inglese le ultime parole scritte da Víctor all’Estadio Chile.

L’irish folk singer Christy Moore compone la canzone Víctor Jara.

Joan Baez mette in repertorio Te recuerdo Amanda.

La canta anche Robert Wyatt;

in Italia i Nomadi

e Francesco Guccini, in L’America del Colectivo Panattoni, la traduce in italiano. I Modena City Ramblers omaggiano Víctor con Celtica Patchanka.

Gli Inti-Illimani con Canción a Víctor.

E sono solo alcuni. Daniele Sepe, nel 2000, pubblica l’album Conosci Víctor Jara? E scrive: «Dico che il tempo non cancella proprio tutto, e che c’è da non dimenticare, e che la musica può essere altro che “ti amo, mi ami?” e che va resa giustizia a Jara continuando a cantare e cantare le sue straordinarie canzoni». Canzoni che, quasi sicuramente, allora come oggi, cambiano vite.

Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli