Lucilla Galeazzi

Io sono di terra, sono fatta di terra. Sono più antica del cielo, sono più antica dell’acqua e non ne sento la fatica, e non ne sento la fatica. Lucilla Galeazzi

 

Lucilla Galeazzi (Terni, 1950), interprete e cantautrice, è tra le voci femminili più autentiche del folk italiano, tuttora rappresentante, nel mondo, della nostra tradizione musicale popolare. La canta, la suona, la racconta attraverso storie di lavoro, di emigrazione, di guerra. Storie di donne tenaci e resistenti come lei. La incontriamo a Roma, dove vive, e dalle sue parole scopriamo la ricchezza del patrimonio musicale della sua terra, i suoi studi e le ricerche sul canto popolare umbro. Il contesto famigliare, intriso dei valori del lavoro e della fatica quotidiana; della solidarietà e del sostegno alle fasce più deboli della società. Valori che tengono unite, come anelli di una lunga catena, generazioni di uomini e donne combattivi e volenterosi.

«Quando andavo a scuola la mia maestra era una ex-fascista e non lo nascondeva. Ci fece cantare una sola canzone in tutto il corso degli studi, dalla prima alla quinta: Va’ pensiero. Pensiero era il nome di mio padre. Perché questo nome? Bisogna sapere che in una regione dominata dal papato i veri rivoluzionari erano i repubblicani. Mio nonno, padre di mia madre, era repubblicano; l’altro mio nonno, padre di mio padre, era repubblicano. I nonni, dalla parte di madre, venivano dalla Romagna e avevano tutti nomi strani: Alfeo, Zaira, mia zia Argentina, mia madre Celsa. Invece mio nonno umbro quando si sposò disse: “Io voglio mettere il motto mazziniano ai miei figli”. Cioè? chiese mia nonna: Pensiero e Azione! Così mio padre, che nacque per primo, si beccò Pensiero. Mia nonna dovette assecondarlo, ma quando le nacque il secondo figlio, e lui lo volle chiamare Azione, lei non ne volle sapere. Lui, che era molto innamorato, cedette e il bambino venne chiamato Aldo. Mio zio rimase molto contento».

Una grande comunità i Galeazzi, origini antifasciste e militanti, appartenenti alla classe operaia. «Tutti i fratelli di mio padre, tutti i fratelli e le sorelle di mia madre erano operai. Gli uomini lavoravano all’acciaieria di Terni che era una delle più grandi d’Italia. Voluta fortissimamente da Vittorio Emanuele. Appena diventato re d’Italia si accorse che una terra, per la gran parte circondata dall’acqua, non poteva non avere una Marina. Per ragioni di concorrenza, non poteva chiedere risorse all’Inghilterra – che poteva fornire carbone e acciaio –, quindi decise che se la sarebbe fatta da sé. Per prima cosa si doveva trovare un posto dove impiantare l’acciaieria per costruire le navi. L’ideale sarebbe stata Civitavecchia che stava sul mare. Ma l’Inghilterra avrebbe potuto arrabbiarsi e cannoneggiare la città. Allora cercarono altrove. Un posto che non fosse troppo vicino a Roma. Perché non si potevano erigere fabbriche vicino al re e al papa, che sarebbero stati accerchiati da proletari, in alloggi di almeno settemila operai. Operai che magari scioperavano. Così, scelsero Terni, perché con la Cascata delle Marmore c’era acqua in abbondanza, e quindi elettricità. A fine 800-inizio 900 iniziarono a scavare per le fondamenta dell’acciaieria. Poco più su c’era uno jutificio, allora si imballava solo con la juta: caffè, agrumi, grano, la juta permetteva a queste merci di respirare. Lo jutificio lo insediò a Terni un imprenditore genovese che si chiamava Alessandro Centurini. Era una fabbrica per le donne. Centurini pensava che lavorassero meglio. Timorate di Dio, residenti nel regno del Papa – prima dell’unità d’Italia –, non potevano che essere buone d’animo. Ma dopo dodici ore di lavoro per tre anni, a tutte passò il timor di Dio e cominciarono a scioperare perché erano sfruttatissime. Lì hanno lavorato tutte le donne della mia famiglia. Così, a sinistra ci stava l’acciaieria, a destra lo jutificio e un pochino più su c’era la fabbrica di armi che tra le due guerre assunse anche giovani donne a lavorare. Mia madre, infatti, lavorò sia da Centurini che alla fabbrica d’armi. Insomma, famiglia di pura classe operaia».

Cultura operaia e cultura musicale.

«Tutti i Galeazzi avevano la passione per la musica. Mio padre cantava sempre, era intonatissimo, se avesse avuto denaro e cultura avrebbe potuto intraprendere la carriera di cantante. Aveva tutto: bellezza, fisico, la voce… invece ha fatto l’operaio. Dalla parte di mio padre tutti cantavano. Ma ancora di più nella famiglia di mia madre Celsa: mia zia cantava, le mie cugine avevano voci bellissime e canticchiavano in casa. I veri canterini erano proprio quelli della famiglia di mia madre. Lei aveva una voce piccolina, ma molto intonata. I tre fratelli di mia madre suonavano tutti: uno la chitarra, uno il contrabbasso e uno il mandolino. I fratelli di mia nonna, cioè la madre di mia madre, anche loro suonavano: uno il clarinetto, uno il violino. Tutti in modo amatoriale, ma suonavano. Quando ci si riuniva era un concerto unico, e si cantava tanto. Canzoni popolari e canzonette. Mio padre, che il mare non lo aveva mai visto neanche in cartolina, si beccò tre anni di militare in marina, con il mare più vicino a duecento chilometri o verso Tarquinia o verso Fano. Si dovette adattare a fare continui viaggi su e giù. Ogni sei mesi tornava a casa, e allora si suonava e si cantava».

Lucilla è cantante per predisposizione famigliare. Inizialmente nel genere pop, si esibisce con le orchestre da ballo.

«Avevo quindici anni quando ho cominciato a cantare con un gruppo di coetanei, tutti maschi, e suonavamo le canzonette che andavano di moda: “Nessuno mi può giudicare”, e pezzi di Rita Pavone».

Valentino Paparelli, antropologo e docente, scomparso nel 2013. Scoprì e raccolse i canti della tradizione popolare umbra (da http://www.archiviosonoro.org/images /umbria/protagonisti/valentino-paparelli.jpg)

Poi l’esordio nella musica popolare grazie all’incontro con Valentino Paparelli e Alessandro Portelli. Due straordinari etnomusicologi e antropologi culturali che coinvolgono Lucilla nelle loro ricerche sul territorio.

«Valentino Paparelli si laurea in antropologia culturale a Perugia portando come tesi finale la ricerca svolta nella zona della Valnerina ternana, quella zona cioè che sta in provincia di Terni. Siamo negli anni 60. La tesi rispondeva a un quesito: perché i contadini non cantano più? Paparelli dimostra che, invece, in Valnerina si cantava ancora e tanto. Erano canti di contadini che per necessità si erano trasformati in operai, andando a lavorare alle acciaierie. Ma siccome non avevano mai abbandonato le terre – anche solo un piccolo appezzamento ereditato dai genitori che continuavano a coltivare – così non avevano perso la consuetudine di cantare durante il lavoro.  Gli operai di Terni, infatti, a un certo punto venivano chiamati “metalmezzadri”, perché quando finivano il loro lavoro in fabbrica tornavano a casa e coltivavano la vite, le olive, conservando, così, la tradizione della mezzadria. A quel punto erano diventati proprietari, non andavano più a lavorare per un padrone. Ma era comunque rimasta così radicata la cultura contadina in questi coltivatori trasformati in operai che, non vivendo in città ma ancora sulle loro terre, nei loro paesi, si era mantenuta viva anche la tradizione del canto».

Anni Sessanta: gli anni del folk revival.

«L’esplosione del folk revival in Italia avviene nel ’64 con il “Bella Ciao” al Festival dei Due Mondi di Spoleto. Io ne rimasi completamente rapita. Cominciai a studiare quelle canzoni, mentre Paparelli mi coinvolgeva nelle sue ricerche, perché in certi casi la presenza di una ragazza era molto ispirante per i cantori, specialmente quelli che vivevano in montagna un po’ isolati. Se tu li mettevi davanti al microfono, a volte non riuscivano a cantare, ma se portavi una ragazza, loro avevano una fanciulla a cui dedicare le serenate, perché ci vuole sempre qualcuno a cui dedicare una serenata. Paparelli mi diede la sua ricerca e io me la studiai, imparai tutte le canzoni che lui aveva inciso su un nastro. Poi lo chiamai: “Valentino, vieni ti faccio sentire come le canto”. “Si sente un po’ l’influenza pop”, mi disse. Perché in effetti il canto popolare, è canto tradizionale che ha tutta una diversa emissione, un modo completamente diverso di cantare. Ha un’emissione più corta, ma le cantore più virtuose, come alcune che lui aveva registrato, arrivavano a note altissime: re e mi in voce di petto maschera, insuperabili. Impressionanti. Voce dritta. Da quel momento ho appreso quel tipo di canto, che non prevede il giro della voce, nessuno gira la voce. È un talento naturale che uno ha. Due sorelle che Valentino ha registrato erano voci d’acciaio, andavano fino al mi, dritte in petto maschera. Io le ho ascoltate tantissimo. Il canto popolare si impara anche dall’ascolto».

Così Paparelli riscopre il repertorio delle canzoni contadine, delle serenate, delle canzoni di lavoro. Ma Lucilla ha anche altre fonti. «Certamente ho messo a frutto quello che ho imparato in casa, tante canzoni me le cantava mia madre, lei aveva il repertorio da stiro e cantava. Le mie zie avevano lavorato tutte nello jutificio di Centurini, quindi sono loro che mi hanno insegnato “Semo de Centurini». È una delle poche canzoni scritte da donne, anonima sia nel testo che nella musica, ed è una canzone che cantavano le donne di quella fabbrica. Centurini, il genovese trasferitosi a Terni per impiantarla, assunse donne perché pensava fossero quiete, timorate di Dio, e che non si sarebbero ribellate. Ma insieme alla manodopera femminile, assunse anche capi reparto maschi che approfittavano della loro posizione. Mia madre mi raccontava certe storielle di sfruttamento, umiliazioni, ricatti. Duecento donne che lavorano, sono ricattabili: “Ti metto una multa, te la metto oggi, te la metto domani. Il tuo stipendio te lo mangiano le multe se non fai quello che voglio io”, minacciavano. Durante il fascismo poi la situazione divenne ancora più vessatoria. Ma le donne, lì dentro, presero coscienza ancora prima degli operai del fatto che fosse necessario ribellarsi. Tra il ’16 e il ’18, infatti, a capo della federazione operaia ci fu una donna che si chiamava Carlotta Orientale ed era una centurinara. Così chiamavano le donne che lavoravano da Centurini, le centurinare. Anzi, siccome a Terni era rischioso nominarlo, si diceva Cinturini, il nome storpiato. Carlotta Orientale è stata in Italia la prima donna capo della Camera del Lavoro. Allora si giustificava la cosa dicendo che gli uomini erano a fare la guerra. Ma a Terni gli uomini non andarono in guerra, perché gli operai stavano in fabbrica a produrre acciaio per le armi, mentre le donne lavoravano nello jutificio a fare gli imballaggi per i vestiti, le scarpe, oggetti che dovevano andare al fronte. Durante la guerra, dunque, ci fu molta più manodopera che venne assunta nelle fabbriche. Quindi non è vero che la Orientale ebbe quella carica perché gli uomini erano al fronte, venne votata perché era brava. Era bravissima».

Carlotta Orientale (da http://www.bfscollezionidigitali.org/ cataloga/media/aui_4d48f162/images/ 1/1/3/46344_ca_object_representations_ media_11340_page.png)

Cosa si sa di lei?

«È lei a guidare diversi scioperi. In uno dei più famosi si ingegna al fine di portare le lavoratrici a occupare la piazza della città, un’offesa per i signori che abitavano in centro e che non volevano vedere e sentire le recriminazioni dei poveri lavoratori. Siccome allora la polizia era a cavallo, Carlotta disse alle operaie: “Indossate dei grembiuli, dentro le tasche nascondete della cenere, quando arriva la polizia la lanciamo negli occhi dei cavalli. Questi imbizzarriscono e noi passiamo perché a quel punto non ci possono più rincorrere e i poliziotti prendere a manganelli”. E così fu. Carlotta riuscì a portare le operaie al centro della città, per ribellarsi contro lo sfruttamento, i salari bassissimi, le dodici ore di lavoro al giorno con mezz’ora per mangiare e andare al bagno. In una officina con 1.500 operai c’erano tre bagni, facevano una fila di cinquecento persone? Uscivano di corsa e dietro la fabbrica facevano quello che dovevano fare. Senza nessuna osservanza di norme igienico sanitarie».

Semo de Cinturini lasciatece passa’, semo belle e simpatiche ce famo rispetta’.

«“Quando fischia la sirena – si entrava tra le cinque e mezza e le sei e si usciva alle sei di sera –, prima che faccia giorno, al buio, ci sentite venire dal circondario di Terni, a piedi, cantando per riunirci e farci coraggio. Mattina e sera ticchete e tacchete, il rumore delle macchine per tessere la juta, fino a sabato ci tocca sopportare la fatica del lavoro. Ma quando arriva il giorno di festa ci vedete tutte belle sistemate”, dice la canzone. Perché quando uscivano da lavoro queste donne erano irriconoscibili: d’inverno morivano di freddo, e d’estate sudavano come a stare in una scatola, il tetto era di metallo e la juta era una fibra pelosa. Tutti quei peli si appiccicavano al viso, sul corpo, e loro uscivano che puzzavano di un odore insopportabile e acre. “Ma se ci vedete di domenica – cantavano – tutte pulite, ben pettinate, ci scambiereste per signore, siamo scic in verità”. Gli uomini le guadavano e le sfottevano, intimando loro di tornare al lavoro, facevano gli sbruffoni. “Ma ci provassero a dirci che siamo donne da poco – rispondevano –. Andatevene pure, a noi non ci incantate”. Questa canzone la scrissero loro, raccontando la situazione che vivevano quotidianamente».

Si canta ancora oggi?

«L’ho insegnata a tanti cori ed è diventata il canto della Casa delle donne di Milano. Poi è diventato l’inno della Casa delle donne di Marsiglia. A Terni la sanno tutti, è l’inno delle donne della città».

Altro grande studioso di canti popolari è Alessandro Portelli.

«Un suo parente aveva una casa a Labro, un paese vicino a Terni, che domina il lago di Piediluco. È la parte della Valnerina verso Chieti, mentre quella di Valentino andava verso Norcia, verso la parte montuosa dell’Umbria.  Portelli qui raccolse i canti di un cantore. Questi lo informò che dall’altra parte della Valnerina c’era un altro antropologo ternano che registrava. Così Sandro Portelli e Valentino Paparelli si conobbero e si misero anche a fare ricerche insieme. Tanti erano i cantori, e alle feste si ritrovavano tutti insieme. Io, che avevo studiato i canti di Valentino, con lui andai a cantare in un locale che era stato aperto da Sandro Portelli in una zona di Roma dove lui aveva fatto ricerca. Affittarono un vecchio garage, lo ripulirono e ne fecero un luogo in cui invitare i cantori popolari a esibirsi. Era il Circolo Gianni Bosio, dedicato a colui che aveva inaugurato le ricerche sul folk. Sandro aveva conosciuto diversi cantori straordinari: Pompilio Pileri, Dante Bartolini, il poeta che oltre a cantare scriveva i testi e li adattava su melodie tradizionali. Sandro li aveva conosciuti prima di Valentino, grazie al grande musicologo americano Alan Lomax. Quando questi scese in Italia a fare ricerche conobbe Sandro che parlava perfettamente inglese, per i suoi studi in letteratura angloamericana. Lomax lo portò in Valnerina e gli fece conoscere Dante Bartolini, Pompilio Pileri e Amerigo Matteucci».

E così?

Dante Bartolini (da https://www.ildeposito.org/sites/ default/files/styles/evento/public/ immagini/2018/08/dante_bartolini.png?h=d92231f6&itok=IjgrHRfs)

«Dante Bartolini aveva fatto l’operaio tutta la vita, e cantava. Pompilio Pileri era stato contadino, quello senza terra che andava nelle proprietà dei padroni, “metteva le opere”, seminava e poi tornava a casa. Al momento di arare era di nuovo nei campi, e infine veniva pagato. Lui era il più povero. Dante aveva lavorato all’acciaieria di Terni, quindi aveva avuto uno stipendio, seppure misero. Pompilio guadagnava se lavorava, era un umile bracciante. Il terzo era Amerigo Matteucci, sindaco di Polino, un paese in cui Valentino aveva fatto molte registrazioni. Era un personaggio meraviglioso, perché lui da sindaco teneva comizi, sapeva intrattenere e raccontare. Come Dante, il poeta, che quando parlava e cantava si atteggiava con il petto in fuori in segno di fierezza. Erano meravigliosi, avevano una dignità incredibile, anche nella loro modestia. Dante e Amerigo avevano dietro al loro canto tutta la cultura operaia, forgiata dal lavoro, dalle lotte, dagli scioperi. C’era questo fatto di sentirsi uno di tanti, che ha lottato con un gruppo. Il contadino, invece è sempre uno contro uno, lui contro il suo padrone, una lotta solitaria in cui è difficile riuscire a ottenere dei vantaggi economici. Se un contadino non lavora ce n’è un altro a prendere il suo posto, al padrone non importa di un morto di fame piuttosto che di un altro».

Tornando al canto.

«Valentino mi fa conoscere Sandro che mi coinvolge in questo gruppo di anziani cantori, i valnerini. Io, che avevo circa trent’anni, canto con loro e mi diverto come una pazza. Perché erano meravigliosi. Dante che rivaleggiava con Amerigo. E Pompilio che suonava l’organetto, era un po’ il buffone del gruppo, perché era difficile competere con gli altri; Dante che cantava tutto impettito. Poi c’era Trento Pitotti un altro cantore di Labro. Pompilio un po’ suonava, un po’ si stufava e si inventava gag che facevano ridere tutti. Insomma dei personaggi».

Numeroso il pubblico che seguiva questi spettacoli?

«Posti a sedere più la gente in piedi che non si poteva contare. Ricordo la sera della prima esibizione. Cantai una canzone che si chiamava “Correte sorelle”, un canto di Pasqua. Nei canti di Pasqua ci sono due tipi di repertorio: uno è il cosiddetto paraliturgico, cantato dalle confraternite, gruppi di potere che conservano i canti e li trasmettono ai più giovani. Poi c’è un repertorio di tipo maggiaiolo, ovvero primaverile, in cui si canta sempre della Passione, ma con temi e melodie più allegri. C’è quindi una specie di incrocio di questi repertori, perché la Pasqua cade sempre a primavera e la primavera per i contadini è la gioia: rivedono spuntare il grano, la frutta, significa “si mangia!” e devono festeggiare questo evento. Ma come festeggiare la primavera con la morte e la resurrezione di Cristo? Per questo nascono i due repertori. Quello sacro o paraliturgico e quello di tipo primaverile e festivo cantato dalla gente che andava alla questua. La questua era questo: in cambio di un canto si riceveva un qualche prodotto: formaggio, vino, uova, pane. Alla fine i cosiddetti maggianti che andavano per la questua, facevano una grande festa e mangiavano tutti i doni che avevano raccolto. I contadini donavano volentieri perché si voleva mantenere questa antica tradizione di offerta come protezione delle messi».

“Correte, sorelle”, dunque?

«Quella sera canto questa canzone profana, anche se parla di Cristo. “Correte sorelle correte su su, che morte crudele che ha fatto Gesù”. E la canzone comincia a descrivere il corpo di Cristo: “I piedi beati che sono stati inchiodati con grande dolore, la panza beata di nostro Signore è stata flagellata con grande dolore”. Con grande dolore, ma la musica è vivace, allegra, nonostante il tema sia sempre la Passione. E continua: “Le mani beate del nostro Signore sono state inchiodate con grande dolore, la testa beata di nostro Signore è stata incoronata con grande dolore”. Io la canto ignara di avere in prima fila due dei maggiori antropologi culturali d’Italia: uno è Vittorio Lanternari, che insegnava antropologia culturale all’università di Ancona, l’altro è Alfonso Maria Di Nola, il più grande storico delle religioni dopo De Martino, di cui è stato allievo, docente all’Orientale di Napoli e ad Arezzo. Mentre canto questi due si scambiano strani gesti per me incomprensibili. Finita la canzone si alza Di Nola, viene da me e mi dice: “Brava! e mo’ per colpa tua mi devo sta’ a studiare per altri dieci anni!”. Io intimidita: e perché? “Eh, figlia mia, questa è la scomposizione del corpo di Cristo”. Passano venticinque anni e io sto a cantare all’Opera di Napoli con Roberto de Simone per lo “Stabar Mater”. Stiamo cantando per Pasqua. In una pausa durante le prove, qualcuno chiede cosa si canta per questa festività in Umbria. Io conosco solo “Correte sorelle”, dico. E comincio a cantarla. Vedo l’assistente di Roberto che si alza in piedi e scappa via. Poi torna e si porta dietro Roberto: “Ragazzi, ma che state cantando?”, chiede. Una canzone umbra, dico. “Mi faccia sentire. Ma dove l’avete trovata? Ma avete la partitura? Mi potete dare le parole?”. Io rispondo che l’ha trovata Valentino Paparelli e che non avrà alcun problema a farla avere al maestro. “Ma ti rendi conto? dice, questa è la scomposizione del corpo di Cristo”. Ancora? Perché per la religione cristiana il corpo di Cristo è un corpo unico, è il corpo sacro che non si può scomporre, mentre in questa canzone si fa. È dunque qualcosa di blasfemo, semipagano».

Tante sono le collaborazioni prestigiose di Lucilla. Roberto de Simone e soprattutto Giovanna Marini. Nel ’77 entra a far parte del Quartetto Vocale per lo spettacolo “Correvano coi carri” della Marini con cui gira tutta Europa. Partecipa ad altri spettacoli dall’autrice romana, tra cui “La grande madre impazzita”, “Cantate de toutes les jours”, “Per Pier Paolo”, fino alla “Cantata profana per quattro voci”.

«Da lei ho imparato tantissimo. Intanto io sono una che chiacchiera, mentre Giovanna ha questa grande capacità di raccontare con una sintesi meravigliosa. Diceva: “Ragazzi, quando raccontate non vi perdete in dettagli, ce ne vogliono due, ma devono essere fondamentali, devono essere quelli attraverso i quali tutti capiscono tutto. Non si deve abbondare, se tu abbondi si disperde tutto”».

E poi Moni Ovadia con cui Lucilla realizza diversi spettacoli di canzoni politiche e militanti. Uno è dedicato alla Grande Guerra di cui è anche autrice: “Doppio fronte. Oratorio per la Grande Guerra” con l’emozionante versione di “Ninna Nanna della guerra” di Trilussa.

L’altro, “Cantiamo, cantammo e canteremo. Canti per l’uguaglianza”, è una raccolta di canti sociali e politici che sul palco si alternano alla narrazione di Ovadia.

«Lui cantava i canti del mondo: americani, polacchi, ebrei, canti yiddish che raccontavano della disperante condizione degli operai che lavoravano dodici ore al giorno, pagati niente. Mentre io cantavo i canti popolari italiani. Tra questi la canzone del gruppo di Pomigliano d’Arco sull’esplosione della fabbrica di fuochi d’artificio, “La fabbrica è scoppiata”, e poi “Nina ti te ricordi”, “Dodici dicembre mattina”, testo scritto da Dante Bartolini sugli scioperi alla Terni nel ’52, quando vennero licenziati 2.700 operai. Tra i primi 700 c’era anche mio padre. Una canzone che mi toccava molto da vicino».

Le canzoni nel repertorio di Lucilla comprendono canti popolari della tradizione e canti originali, di cui è autrice. Nel 1991 con “Il canto magico delle sirene” vince il Premio Città di Recanati.

Nel 2006 Amore e acciaio vince la Targa Tenco al Premio Luigi Tenco e il Premio Città di Loano quale migliore album in dialetto dell’anno.

«È un disco sulla mia terra. “Tempo dell’amore” è una canzone scritta per la mia città. Dell’acciaio per la fabbrica di Terni, dell’amore perché San Valentino era vescovo di Terni. Era un tempo in cui ancora i cristiani stavano nelle catacombe. Un giovane centurione delle centurie romane che stava a Terni si innamorò di una giovane cattolica. I cattolici erano perseguitati e allora San Valentino, che era prete, li sposò in segreto. Quando il capo delle centurie lo venne a sapere salvò il centurione, salvò la ragazza, ma uccise San Valentino che venne decollato. La leggenda dice che quando la testa cadde per terra si alzò un vento terribile che si portò via la testa. E io trovo che un santo che protegge gli innamorati e perde la testa sia qualcosa di geniale. La metafora è perfetta: quando ti innamori perdi la testa, esattamente come il santo che ti protegge».

“Ho fatto quattro nodi al fazzoletto”, altra sua canzone d’amore: Il tuo cuore in petto me lo metto e se mi dai pure la corona ti faccio re in una notte sola.

“Io sono di terra”, è l’amore per la vita, per il mondo, per l’Umbria:  Io sono di terra, sono fatta di terra. Sono più antica del cielo, sono più antica dell’acqua e non ne sento la fatica, e non ne sento la fatica.

Tra i canti tradizionali ci sono: “Lu gatto la sonava la zampogna”, una ninna nanna.

“Cosa piangi mia cara Gemma”, un canto per l’amato che va alla guerra.

Numerosi gli spettacoli, importante il lavoro sulla visione femminile della Seconda guerra mondiale, il “Fronte delle donne”.

«Sono canzoni che raccontano del lavoro in fabbrica delle operaie e degli operai. Una pagina è dedicata a Carlotta Orientale e alla sua attività durante la guerra, quando era vietato parlare di politica, fare scioperi».

Fino al remake di “Bella ciao”.

«Quando ero ragazzina, un giorno vidi lo strillo in edicola che riportava dello scandalo di Spoleto. Anche alla televisione un servizio raccontava l’accaduto. Aveva destato molto scalpore. Poco dopo ebbi in regalo il disco dello spettacolo. Mi si aprì un mondo, dopo una settimana sapevo tutte le canzoni a memoria».

Canzoni popolari, canzoni della Resistenza.

«Ogni brigata aveva un poeta musicista e il suo inno, era importante perché unificava le persone, mentre si andava alla guerra ci si fortificava. Io ne ho cantate diverse. Su tutte “Bella ciao”. Nella mia versione, la parte introduttiva è suonata dal clavicembalo e dal clarinetto. Perché abbiamo preso a modello un canto ritrovato da un giornalista di Repubblica. Passeggiando a Parigi, tra i banchetti di un mercato sulla Senna, trovò un disco di musica klezmer pagato niente. In questo disco c’era la melodia di “Bella ciao”. In tanti pensarono che il canto potesse venire dall’est. Una volta, durante una trasmissione con alcuni partigiani questi rivelarono che si cantava “Fischia il vento”, durante la guerra e tra le fila della Resistenza. Bella ciao venne sentita cantare da alcuni partigiani che passavano in Umbria, scavalcavano l’Appennino verso la Toscana. Era il febbraio ’45. Quindi, non ci fu il tempo perché diventasse un inno. Successivamente fu cantata al primo Festival della gioventù europea dagli studenti italiani. Da lì esplose in tutto il mondo».

Canti della Resistenza, canti di lotta, canti operai, canti sulle donne e le loro le battaglie, canti di migranti. La scelta importante di stare dalla parte degli ultimi.

«La solidarietà verso gli altri, il mondo degli sfruttati, sono valori che vengono dall’essere cresciuta in una terra come la mia e in una realtà famigliare operaia».

Con la sua vicinanza al partito comunista.

«La famiglia Galeazzi era una comunità. Io nasco il 24 dicembre 1950, mia cugina poco prima di me. Così i fratelli Galeazzi, nostri padri, decidono di fare una festa. Benché atei, vanno a parlare col prete, perché comunque il rito è rito, ma lui li allontana: “Siete comunisti, la chiesa vi ha scomunicato, non vi ci vogliamo”. I due rimangono molto male, ma questa festa la vogliono fare lo stesso. Da poco, il partito comunista aveva aperto una sezione a cento metri da casa nostra. Era uno stanzone enorme dentro un insediamento di case popolari. Così, facemmo la festa alla sezione del partito comunista. Il battesimo non ci fu, ma in compenso tutti i compagni festeggiarono insieme alla mia famiglia, con dolci, torte e ogni ben di Dio. E si ballò e cantò tutta la giornata».

Com’è finita, poi?

«Mio padre non voleva battezzare nessuno. “Noi comunisti siamo i veri cristiani”, diceva. Quando però ebbi quattro anni per l’iscrizione all’istituto delle suore, queste richiesero il certificato di battesimo. Quindi mi dovettero battezzare. Ma non nella nostra parrocchia, in una lontana. Ricordo mia madre che mi rincorreva per tutta la chiesa, io che scappavo per non farmi acchiappare. Io, nata e cresciuta ribelle».

Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli