Rino Gaetano (da http://www.donnamoderna.com/wp-content/uploads/2016/05/Rino-Gaetano.jpg)

Il cantautore più paradossale […], quello che costruendo i paradossi più incredibili raccontava poi con perfetto realismo quelli che erano i suoi tempi, quella che era la sua vita, che erano i suoi amori.

[Vincenzo Mollica]

Salvatore Antonio Gaetano, Crotone, 29 ottobre 1950. L’infanzia e la prima adolescenza sulle calde spiagge della Calabria. Non a caso il sud sarà tra i temi centrali della poetica di questo giovane con la smania di cominciar subito e presto a fare musica. Roma lo forma, i quartieri popolari, il Folkstudio, in un momento storico in cui sta nascendo l’industria della canzone. E scrivere, cantare canzoni, diventerà un lavoro: fare il cantautore.

Appena prima, anni Sessanta. La canzone è rappresentazione di eventi significativi, sceneggiatura capace di raccontare la realtà e in cui rispecchiarsi. Un pubblico giovanile alla ricerca di luoghi aggregativi si è già ormai abituato a questo linguaggio. I giovani, protagonisti dei movimenti, delle rivolte studentesche che esploderanno nel ’68, sanno di poter trovare nelle canzoni una bandiera da sventolare, la colonna sonora della loro partecipazione agli eventi, alla Storia. Soprattutto la canzone di protesta, d’impegno e di lotta è una necessità e risponde a richieste molto nette da parte di questo nuovo pubblico. Giovani che ascoltano invece di cantare, che restano seduti in gruppo invece di ballare a coppie, che del disco discutono e parlano o che magari assaporano il disco nella loro stanza, da soli, mentre, di là, papà e mamma seguono Canzonissima alla Tv [Cfr. Gaspari, M., L’industria della canzone, p. 73].

Lungo questa strada, nel decennio successivo, la canzone riuscirà a suscitare l’interesse di agenti e discografici ben intenzionati a investire su un genere musicale che presto entrerà a pieno titolo nel sistema del mercato discografico. Diversi cantautori, col tempo, si imporranno con grande successo, togliendosi finalmente i panni del “giullarazzo”, a detta di De André: “Negli anni 60 o ancora prima – diceva – il cantante era alla stregua del ladro o della puttana; non era un fatto felice, fare il cantautore […]. Eravamo una minoranza, e sinceramente, una minoranza emarginata» [Bernieri, C., Non sparate sul cantautore, p. 114]. Negli anni Settanta, la canzone smetterà di essere una semplice canzone per farsi strumento di lotta e di protesta, un’arma anche più devastante di una bomba.

Le case discografiche avevano cominciato a dotarsi di una struttura interna più articolata, un’organizzazione artistica e amministrativa in grado di incanalare risorse per la produzione di progetti nostrani, invece di limitarsi a sbarcare successi stranieri in Italia. Produttori indipendenti come Ennio Melis e Nanni Ricordi, Gianfranco Reverberi e Enzo Micocci pensarono che la canzone potesse essere qualcosa di più di un oggetto ludico e investirono nella ricerca di nuove voci e generi. C’erano gli editori che facevano le canzoni – dice Nanni Ricordi – e i cantanti che bisognava fargliele su misura […]. Noi cercammo di fare un discorso razional-culturale cercando non di partire scritturando dei cantanti, ma di capire se c’era della gente, per caso, come in altri Paesi, che aveva delle cose da dire tramite la canzone. E la nostra indagine andò in questo senso […]. Si facevano caterve di provini [Bernieri, C., Non sparate sul cantautore, p. 91]. E grazie a questa lungimiranza molti artisti riuscirono a emergere e ad avere un certo successo facendosi portavoce di un anticonformismo che anticipava gli imminenti cambiamenti sociali. È proprio lungo la strada di questa sperimentazione e della contestazione verso il passato, verso la trita e ritrita tradizione del cantante melodico tutto gorgheggi, lacrime e sospiri, ma anche per una nuova avversione ai vacui valori della società capitalistica, che aveva cominciato a definirsi la tipologia del “cantautore”, termine coniato da Ennio Melis e Vincenzo Micocci nei primi anni Sessanta [Cfr. Baldazzi, G., La canzone italiana del Novecento, p. 131], per stabilire una rottura, la contrapposizione tra “autori capaci anche di cantare le loro canzoni (o i cantanti capaci anche di scriversele) ed esecutori professionali di cose scritte o manipolate da altri” [De Luigi, M., Straniero, M. L., Musica e parole, p. 28].

Cantautori, dunque, artisti dotati di una propria poetica, di un linguaggio espressivo, di un’immagine, di una vocalità immediatamente riconoscibili. Decollava la discografia italiana, il colosso della RCA con sede a Roma investiva su nuovi artisti e su etichette indipendenti come la IT, dove si allevavano, sotto la guida di Vincenzo Micocci, le nuove leve del cantautorato italiano. Fu lui, per esempio, a scoprire Antonello Venditti e Francesco De Gregori.

Roma, Folkstudio. Anche questo vivaio è in fermento, qui si incontra chi vuole fare e ascoltare musica. Dalla Calabria ci è arrivato anche lui, il giovane ventenne Salvatore Antonio che tutti chiamano Rino: Rino Gaetano. Antonello Venditti vuole scommettere su di lui, perché è diverso da tutti gli altri: è stralunato, più un cabarettista che un cantautore, ama il teatro dell’assurdo di Beckett e di Ionesco, usa il sarcasmo e l’ironia più che il linguaggio politico del militante, è uno che sa andare controcorrente.

“Già quando cantavo al Folkstudio – dirà – ero al centro di certe discussioni… Insomma molti non volevano che io facessi i miei pezzi perché, dicevano, sembrava che volessi prendere in giro tutti” [Scoppetta A., Sereno su gran parte del paese: una favola per Rino Gaetano, p.1].

Venditti produrrà il suo primo 45 giri, sotto la guida di Micocci. I love you Maryanna che Rino firma con lo pseudonimo Kammamuri’s, il compagno di Sandokan nei Pirati della Malesia di Salgari. E lo canta con la sua voce ruvida, sforzata a raggiungere le note più alte, ma in questo sincera, con tutta l’intensità possibile che c’è in questo andare oltre.

“Si considerava un autore, non un cantante – dirà Micocci –. Era convinto di non avere una bella voce, tanto che dopo l’uscita di I Love You Maryanna, quando fu l’ora di incidere il primo album, venne a dirmi che sarebbe stato meglio far cantare le sue canzoni a un amico. Io, naturalmente, mi misi a ridere e lo mandai in studio” [Cotto M., Rino Gaetano – Ma il cielo è sempre più blu. Pensieri, racconti e canzoni inedite, p. 13].

La canzone che dà il titolo al disco è un gioco di parole scanzonato, che prende in giro l’amore, che mescola lingue e linguaggi, che gioca con i doppi sensi: Marianna, il nome della nonna materna è anche un’allusione alla marijuana come in Sometime Maryanna di Ivan Graziani. Domina su tutto l’illogico, il nonsense che spiazza quel pubblico attento alle canzoni politiche, di contenuto sociale, storie di vita reale e cruda. Ma lo incuriosisce.

I love you Marianna I love you Marianna/Marianna you love me/Sur le rives de la Seine sur le rives de la Seine/Mon amour dans le bateau-mouche

Il suo primo vero disco, però, composto di canzoni che davvero rappresentano Rino è Ingresso libero (1974). I testi li scrive osservano il mondo dal bar del Barone a Roma, a Montesacro: un luogo frequentato da gente semplice, uomini e donne del quartiere con indosso la loro normale quotidianità. Lo scrive nel momento in cui l’Italia è sconvolta in modo drammatico sul piano politico e sociale: gli anni del terrorismo, della bomba sull’Italicus, della strage di Brescia. Ma anche degli scioperi degli operai alla Fiat e della cassa integrazione, della battaglia per il divorzio, della società che si interroga e si trasforma. Sono gli anni delle canzoni che incoraggiano a prendere coscienza della situazione, della nuova ventata di fascismo che soffia sul Paese. Canzoni come Non è finita Piazza Loreto di Fausto Amodei, Ringhera di Ivan Della Mea, Piazza della Loggia di Pardo Fornaciari. Cantautori della protesta che diventavano la voce di tutti, da ascoltare nei cortei, nelle manifestazioni.

Ingresso libero non è un album militante, del resto Rino odia le etichette, ma certo i temi che affronta rivelano uno sguardo più approfondito sulla società italiana e i suoi problemi, con l’idea di denunciare i mali del Paese. Tra questi l’emigrazione con lo sradicamento e le difficoltà ad adattarsi, l’alienazione del lavoro nelle fabbriche, le questioni personali e collettive della precarietà e dello sradicamento, le ingiustizie sociali e le disuguaglianze. Le tematiche sono d’impegno, ma raccontate anche con un tono ironico che permane nell’intero album. Rino non vuole che le sue proteste risultino populiste, retoriche o troppo di parte. Ci deve essere uno sguardo distaccato, perché la denuncia acquisti forza di impatto.

C’è Tu, forse non essenzialmente tu, una canzone che racconta la realtà semplice e abitudinaria dell’autore, dei luoghi che frequenta popolati da gente umile, l’essenza di un vita fatta di gesti, persone, storie di normale quotidianità:

E vado dal Barone ma non gioco a dama/E bevo birra chiara in lattina/Me ne frego e non penso a te/Avrei bisogno sempre di un passaggio/Ma conosco le coincidenze del 60 notturno/Io prendo sempre per venire da te/Forse non essenzialmente tu/E la notte, confidenzialmente blu/Cercare l’anima

In Ad esempio a me piace il sud emerge, invece, una tematica su cui l’autore ritornerà spesso: l’emigrazione, e il sud descritto come un luogo arcaico, di tradizioni e fatiche, ma anche di ricordi fatti di profumi e di sapori, quelli di un’infanzia e di un’adolescenza troppo brevi, terminate al nord tra nostalgie e rimpianti:

Camminare con quel contadino/Che forse fa la stessa mia strada/Parlare dell’uva, parlare del vino/Che ancora è un lusso per lui che lo fa

Ancora in I tuoi occhi pieni di sale torna il tema con una dichiarazione d’amore per la Calabria e quei paesaggi che Rino ha dovuto abbandonare, emigrante lui stesso:

Amo il sale della terra amo il sale della vita/amo il sale dell’amore amo il sale che c’è in te/i tuoi occhi sono pieni di sale/i tuoi occhi sono pieni di sale

“Ho fatto vari pezzi che parlano dell’emigrazione – dirà – ma ho sempre inserito questa piaga nel più vasto e alienante concetto dell’emarginazione e soprattutto non ho dipinto l’emigrante nella solita e trita iconografia (occhi lucidi, valigia di cartone e mamma in nero) cercando di cogliere maggiormente il travaglio dei suoi stati d’animo e dei suoi affetti” [Cotto M., Rino Gaetano – Ma il cielo è sempre più blu. Pensieri, racconti e canzoni inedite, p. 61]

Emigrazione, ma a suo modo.

Questa tematica, infatti, si amplia in termini di problematica sociale in Agapito Malteni, il ferroviere. È una ballata che ha per protagonista un ferroviere pugliese che decide di sabotare il treno affinché dal suo paese la gente smetta di partire per rifarsi una vita al nord. Il suo proposito viene ostacolato dall’altro macchinista che impedisce ad Agapiro Malteni di attuare il folle progetto. La canzone, però, induce a riflettere sulla situazione contingente del Paese. L’emigrazione è inevitabile in questi anni, l’unica possibilità di trovare un lavoro è sbarcare al nord. La situazione del Mezzogiorno è drammatica: verranno investiti soldi su una fabbrica petrolchimica, la SIR già in fallimento per la crisi petrolifera. Non c’è futuro al sud.

La gente che abbandona spesso il suo paesello /lasciando la sua falce in cambio di un martello/è gente che ricorda nel suo cuore errante /il misero guadagno di un bracciante

E al nord? Al nord gli emigrati si impiegano nelle fabbriche della Fiat. In questa vita alienata e sottomessa l’unica salvezza sembra essere un bicchiere di vino il fine settimana, andarsene dalla città. Se non che l’auto per fuggire viene ritrovata bruciata. Nessuna possibilità di evadere. In L’operaio della Fiat (La 1100) l’operaio è sempre l’ultimo anello della catena che deve pagare per la lotta di classe. Nessuna conquista, solo annientamento:

Metti il tuo abito migliore e pulito /lasci al gatto la carne per tre giorni /e insieme a una Torino abbandonata /trovi la tua macchina bruciata /la Millecento, la Millecento, la Millecento

Ma Rino, insieme alle canzoni più impegnate, ne inserisce anche alcune con uno spirito più leggero e spensierato, giocoso e dissacrante. Infatti scrive A Kathmandu, ispirandosi al luogo mitico, meta di pellegrinaggi esotici e fricchettoni. Canzone che, rispecchiandone in pieno la filosofia, sarà adottata dagli indiani metropolitani del Movimento 77, quelli della protesta creativa, festosa e visionaria:

A Khatmandu non c’eri più/ma ho visto i tuoi occhi /sull’asfalto blu /A Khatmandu quando ero giù /fra i fori e la stazione c’era via Cavour

Protesta anticipata, nel 1975, da una serie di eventi che sconvolgeranno il Paese: il massacro del Circeo e la violenza dell’assassinio di Pier Paolo Pasolini, l’ascesa del Pci nelle elezioni amministrative e le basi del compromesso storico gettate da Aldo Moro verso un’ipotesi di rinnovamento della politica italiana. Il 1975 è anno cruciale, di cambiamenti e stravolgimenti. Rino incide Ma il cielo è sempre più blu, una canzone strana, un elenco di parole e frasi che in parte saranno censurate come “chi tira la bomba e chi nasconde la mano”. A raccontare la stagione di giovani morti per le strade, di giovani che partecipavano alle mobilitazioni di piazza, distaccati dalle formazioni consolidate, soprattutto nella sinistra extraparlamentare, per diventare “schegge” autonome e militarmente più organizzate. Accostamenti insoliti, frammenti di storie e di drammi, un affresco del Paese con tutte le sue contraddizioni. Ma il cielo è sempre più blu, canta il ritornello. Su tutte le miserie e i drammi, veglia comunque un cielo sereno, un cielo senza nuvole. E gli italiani, che se ne fregano di ciò che non va, di fronte ai problemi preferiscono l’evasione qualunquista, la fuga nel blu dipinto di blu:

Chi suda, chi lotta, chi mangia una volta /Chi gli manca la casa, chi vive da solo /Chi prende assai poco, chi gioca col fuoco /Chi vive in Calabria, chi vive d’amore /Chi ha fatto la guerra, chi prende il sessanta /Chi arriva agli ottanta, chi muore al lavoro

Ne incidono una cover i Ritmo Tribale nell’album Mantra (1994):

Nel 2003 Dj Molella ne fa un remix inserendo la frase censurata:

Mio fratello è figlio unico è l’album che esce l’anno dopo, alla fine di un lungo periodo in sala d’incisione. La sede è al Cenacolo, negli studi di registrazione della RCA, una ex stalla fuori Roma dove Vincenzo Micocci segue i lavori dei più grandi cantautori sostenuti dalla casa discografica: da Piero Ciampi a Renato Zero, da Patty Pravo a Fiorella Mannoia, da Antonello Venditti a Francesco De Gregori.

L’album gli fa guadagnare una certa notorietà, contiene canzoni che diventeranno memorabili, orecchiabili e all’apparenza prive di significato. Invece.

C’è Berta filava, canzone “contro gli eroi, le novelle e i falsi miti di patria e famiglia” [D’Ortenzi, S., Rare tracce, p. 63]. Ma anche canzone dissacrante l’immagine femminile. Inneggia allo stile di vita sconveniente della protagonista, giovane donna che vive la sessualità in maniera libera ed emancipata. A sua modo femminista. Attualissima, proprio negli anni in cui in Italia ci si batte per la legge sull’aborto e si va affermando il Movimento di Liberazione della Donna:

E Berta filava /E filava con Mario /E filava con Gino /E nasceva il bambino /Che non era di Mario /Che non era di Gino

E c’è la canzone che dà il titolo all’album, la più geniale e intensa che Rino abbia mai scritto. Sebbene sia un paradosso, un nonsenso, nell’ assurdità dell’espressione, si cela un messaggio straordinariamente potente: mio fratello è figlio unico perché è l’emarginato, l’isolato dalla società. Colui che sta fuori dal coro, che non si omologa, che non riesce ad adattarsi a una società di falsità e compromessi. Per questo, è lui alla fine a soccombere “dimagrito, declassato, sottomesso, disgregato”. Ma non è il povero barbone che vive ai margini per indigenza, o il drogato alcolizzato che si è lasciato vincere e nell’oblio di sé cerca il modo di sopravvivere. Non è il reietto della società, il povero Cristo cantato da De André. È la persona qualunque. Che di fronte alle frustrazioni si rifugia in un amore banale, un amore che è come un ritornello che esplode all’improvviso senza un senso: “e ti amo Mariù”:

Mio fratello è figlio unico sfruttato/represso calpestato odiato e ti amo Mariù/mio fratello è figlio unico deriso/frustrato picchiato derubato e ti amo Mariù/mio fratello è figlio unico dimagrito/declassato sottomesso disgregato e ti amo Mariù/mio fratello è figlio unico frustato/frustrato derubato sottomesso e ti amo Mariù/mio fratello è figlio unico deriso/declassato frustrato dimagrito e ti amo Mariù/mio fratello è figlio unico malpagato/derubato deriso disgregato e ti amo Mariù

“Pochi si occupano delle cosiddette persone normali – dirà. – […]. Questo è Mio fratello è figlio unico, una persona tutto sommato normalissima. Mi piace esasperare le cose, amo i paradossi. Dire che mio fratello è figlio unico perché è convinto che esistono ancora gli sfruttati, i malpagati e i frustrati non è demagogia. […] Analizzo la situazione dell’escluso, dell’emarginato della società e ne concludo che in fondo siamo tutti figli unici: i rapporti di convivenza sono dettati solamente dal dovere e non dal piacere di incontrarsi e di collaborare umanamente [Cotto M., Rino Gaetano – Ma il cielo è sempre più blu. Pensieri, racconti e canzoni inedite, p. 25].

La canzone sarà una delle più amate dai tanti artisti che nel tempo l’hanno ripresa celebrando la poesia di Rino. La cantano gli Afterhours

la canta Gianluca Grignani

e la Banda Bassotti con Mannarino.

Mio fratello è figlio unico diventerà il titolo di un film di Daniele Luchetti (nel 2007): la storia conflittuale di due fratelli, Accio e Manrico, l’uno vicino al Movimento Sociale Italiano e l’altro di orientamento comunista, operaio in fabbrica.

Il 1977 è anno di violenze, di provocazioni e di scontri accesi tra giovani e forze dell’ordine: gli atenei sono di nuovo occupati e le proteste danno luogo a disordini che spesso lasciano in terra morti. Anche i cantautori vengono contestati durante i loro concerti: troppo cari i loro biglietti, i giovani del Movimento 77 pretendono di potere usufruire di quella musica gratuitamente. I cantautori altro non sono che dei traditori, nessun guadagnano si dovrebbe ricavare da quel lavoro nato dalla protesta, nato dalla militanza politica, nato per dar voce alle masse.

Aida esce quell’anno, ed è l’album forse più politico, in cui Rino sente di dover mostrare il decadimento della politica e della società italiana.

La canzone che dà il titolo all’album sintetizza in poche parole la storia recente del Paese, il Novecento appena trascorso attraverso le gesta del personaggio femminile dal nome mitologico, protagonista dell’opera verdiana, la figlia del re di Etiopia. Che è incarnazione dell’Italia stessa e delle donne tutte.

La storia di Aida parte dall’inizio del secolo e tocca la Seconda guerra mondiale. Passa in rassegna i tanti tabù del passato, la religiosità di facciata fatta di madonne e di rosari. La voglia di trasgredire con le calze a rete, come quelle di Marlene Dietrich. I saluti fascisti e il discorso del Duce all’Italia che entra in guerra. Le battaglia in Egitto, l’italico colonialismo.

E poi l’Italia del dopo guerra, divisa tra il rosso e il nero, le lotte partigiane, le morti ingiuste, la povertà e la miseria, le macerie di un Paese. Ma Aida è anche il passato più recente, la Repubblica fondata su una democrazia spesso in bilico, messa a repentaglio da una politica di arroganti, ladri e sfruttatori:

Aida /la Costituente /la democrazia /e chi ce l’ha/e poi trent’anni /di safari /tra antilopi e giaguari /sciacalli e lapin / Aida come sei bella

In Rare tracce, invece, Rino annovera una serie di eventi, tracce appunto, di un’Italia sbandata, di reati che restano senza colpevoli, di un sistema politico alla deriva:

Rare tracce di signori /benpensanti e non creduti /traffichini grossi e astuti /ricchi forti e incensurati

Il disco riscuote una certa fortuna e Rino è pronto a fare il salto. La casa discografica punta tutto su di lui, è arrivato il momento della grande visibilità. È arrivato il momento di mostrarsi a un vasto pubblico, quello della televisione in prima serata. È arrivato il momento di Sanremo. Rino non contesta più di tanto questa manifestazione. Non ha in mente le proteste dei giovani Cantacronache che, alla fine degli anni Cinquanta, in quel festival vedevano la rappresentazione dell’Italia più bigotta e fasulla, di un’Italia che, grazie alla canzonetta e a quel festival televisivo a essa dedicato, rinchiudeva gli italiani in un mondo fatato, di amori esotici, di cuori addolorati, di mamme e di lacrime facili. Addormentarli al suono di placide ninne nanne, perché dimenticassero il passato e vivessero di eterna evasione: “il palcoscenico della smemoratezza italiana”, dirà Stefano Pivato. Non lo contesta come a suo modo Luigi Tenco, la sera che, scartata la sua Ciao amore, ciao a tema sociale, preferì farla finita di fronte all’ennesima delusione: una canzone come Io, tu e le rose che, invece, andava avanti. Ciò che contesta a Sanremo è il suo alone di vetustà, la noiosa ripetizione di un copione visto e rivisto, la polverosa tediosità. Così Rino decide che al Festival parteciperà, ma a modo suo. Il 26 gennaio 1978 sale su quel palcoscenico con la tuba nera in testa, un frac striminzito e sul bavero migliaia di medagliette appuntate, un papillon bianco, scarpe da ginnastica ai piedi e tra le braccia una chitarrina in stile hawaiano, un ukulele. Così Rino canta Gianna, canzone originale e divertente, e sarà il primo a pronunciare, al festival di Sanremo, la parola sesso. Rino è da subito la ventata di nuovo che svecchia la rassegna, la sua esibizione è una svolta rivoluzionaria. Si classificherà al terzo posto. Notorietà senz’altro, da parte del grande pubblico, ma per i più affezionati, per quelli che da sempre lo seguono, con questa partecipazione Rino ha tradito loro e la sua storia di autore impegnato. Una canzonetta per molti puramente commerciale cancellerà, come un colpo di spugna, anni di gavetta, di credibilità e di impegno sociale:

Ma la notte la festa è finita, evviva la vita/La gente si sveste e comincia un mondo/un mondo diverso, ma fatto si sesso/e chi vivrà vedrà

Il successo è bruciante e Rino adesso fa i conti con l’impossibilità di girare per Roma senza essere riconosciuto, con la sfilza di giovani donne che lo cercano, con gli amici e conoscenti che fanno di tutto per farsi vedere in sua compagnia.

L’album successivo Nuntereggae più viene pubblicato nei giorni drammatici del sequestro Moro. Il 16 marzo 1978 Aldo Moro veniva rapito dalla Brigate rosse. I cinque uomini della scorta falciati a raffiche di mitra. Il 19 marzo sui quotidiani campeggiava la foto di lui prigioniero e l’annuncio delle Br della volontà di processarlo. Il 9 maggio il corpo del presidente della Dc veniva ritrovato a Roma in una Renault rossa in via Caetani. Era un mondo che crollava e lasciava in piedi una generale spoliticizzazione, forme di indifferenza, vuoti ideologici, afasia. Nel giro di pochi anni, sosteneva Ernesto Galli della Loggia, “a qualsiasi osservatore l’atmosfera della società italiana appariva completamente mutata. Ogni fiducia nella possibilità di un cambiamento spenta o agonizzante […], scematissimo e languente l’interesse per le ragioni dell’ideologia […]. Quella che solo poco tempo prima era stata giudicata una fra le società più politicizzate, o addirittura la più politicizzata dell’Occidente, sembrava esprimere ora un massiccio rifiuto della politica” [Galli della Loggia, E., Il trionfo del privato, p. 6]. Era la crisi ormai radicale della sinistra che smetteva di rappresentare idee forti e modelli alternativi. Il futuro del Paese si nascondeva dietro una fitta nebbia.

I giovani erano stanchi di lotte politiche, di stragi, di omicidi e di tragedie. Adesso volevano dimenticare, sballarsi, divertirsi nelle discoteche che pompavano discomusic dagli altoparlanti e dove il “travoltismo” imperante incoraggiava a liberare i corpi in danze individuali, sensuali e provocanti. La teoria del riflusso, il ritorno nostalgico al revival, a un passato goliardico di divertimento e spensieratezza era la nuova evasione degli italiani.

La canzone Nun te reggae più scale le classifiche, è presente nelle radio, nelle trasmissioni musicali. Rino canta un divertente gioco di parole che critica il ritmo della musica reggae e insieme allude al nun te reggo, il non ti sopporto in romanesco. Il suo non ti sopporto è rivolto ai personaggi iperpresenti sugli schermi televisivi, da Costanzo a Bongiorno, Carrà. Ma anche contro i personaggi politici e i partiti che invadono le televisioni di dibattiti e tribune politiche, di messaggi travianti, di sigle e siglette. Contro i divi dello sport, contro le ottusità del falso perbenismo sessuale. Contro il bombardamento mediatico delle televisioni che sono diventate il nuovo credo del Paese. Telemilano avviata poco prima da Silvio Berlusconi sarebbe diventata Canale 5 poco dopo, nel 1980. Intorno è tutto un fiorire di emittenti private, un gran baccano che rende impossibile incontrarsi come un tempo a parlare di problemi reali:

Eja-eja alalà, (Nun te reggae più)/DC-PSI (Nun te reggae più)/DC-PCI (Nun te reggae più)/PCI-PSI, PLI-PRI/DC-PCI, DC DC DC DC/Cazzaniga, (nun te reggae più)/avvocato Agnelli,/Umberto Agnelli,/Susanna Agnelli, Monti Pirelli,/dribbla Causio che passa a Tardelli/Musiello, Antognoni, Zaccarelli.. (nun te reggae più)/Gianni Brera,/Bearzot, (nun te reggae più)/Monzon, Panatta, Rivera, D’Ambrosio/Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno,/Villaggio, Raffà e Guccini

E i problemi reali in questo album emergono in E cantava le canzoni dove il tema dell’emigrazione torna con le storie di tre personaggi accomunati dalla malinconia e dal dispiacere per la terra abbandonata e sempre nei pensieri di chi se ne è andato e la ricorda nelle canzoni:

E cantava le canzoni che sentiva sempre a lu mare /E partiva il mercenario con un figlio da sfamare /e un nemico a cui sparare /E partiva il mercenario verso una crociata nuova /Per difendere un effigie e per amare ancora Bice

E non manca la critica a 360 gradi verso tutta la classe politica italiana. Ti ti ti ti:

A te che odi i politici imbrillantinati/che minimizzano i loro reati,/disposti a mandare tutto a puttana/pur di salvarsi la dignità mondana,/a te che non ami i servi di partito/che ti chiedono il voto, un voto pulito./Partono tutti incendiari e fieri/ma quando arrivano sono tutti pompieri

Adesso che Rino è famoso c’è chi dall’alto vede in lui un futuro radioso e un successo monetario sicuro. Conviene investirci e la RCA non lascia niente al caso: lo spedirà in America, nei migliori studi e tra i più grandi musicisti per registrare un nuovo album. In fretta, perché la fama può durare anche solo un soffio. Tutto è calcolato affinché il disco risulti un ottimo prodotto commerciale. Ma Rino si sente in gabbia e gli manca quella spontaneità genuina che ha guidato i precedenti lavori. Resta vile maschio, dove vai? è la canzone scritta da Mogol che dà anche il titolo all’album del 1979. In copertina Rino è ritratto in un vero set fotografico tra due modelle in costume da bagno che si baciano. Ecco la nuova immagine di Rino: un personaggio trasgressivo, che può parlare di sesso e di storie pruriginose e audaci. La canzone parla, infatti, di un triangolo amoroso che, però, il protagonista non è in grado di gestire:

Non ha senso in tre non si può/parla almeno tu dì di no/resta vile maschio dove vai?/facciamo la conta e una di voi/oppure scendo io caso mai/resta vile maschio dove vai?

Rino viene invitato in televisione dove si presenta con una band. Addio al cantautore a cui bastavano voce e chitarra per inchiodare il pubblico. Adesso Rino è un prodotto da starsystem. E non è più lui. Come le canzoni non sono le sue, o scritte troppo velocemente, o scritte con pochi stimoli.

Solo in Io scriverò si avverte la voglia di Rino di tornare al suo mondo e alla sua poetica:

Io scriverò se vuoi perché cerco un mondo diverso/con stelle al neon e un poco d’universo/mi sento un eroe a tempo perso […] / Io scriverò sul mondo e sulle sue brutture/sulla mia immagine pubblica e sulle camere oscure/sul mio passato e sulle mie paure

Ma lui si è perso. Litri di alcol, notti in giro nei locali. Scrive pochissimo, ci vuole davvero una grande fatica per ritrovare la linfa e mostrarsi di nuovo nella sua verità, di nuovo controcorrente. Adesso, che i cantautori hanno fatto pace con la protesta e la militanza e possono serenamente raccontare argomenti più evasivi senza essere contestati. Adesso che tutto è concesso, Rino vuole dimostrare di esserci, di essere lui la voce che protesta e che lancia accuse e scaglia condanne contro i potenti di un’Italia ingiusta. Proprio adesso. Mentre il 27 giugno 1980 a Ustica si schianta il DC-9 dell’Itavia partito da Bologna e diretto a Palermo, colpito da un Mig libico. E mentre Bologna resta inghiottita dalle macerie dell’ordigno esploso il 2 agosto nella stazione ferroviaria provocando la morte di ottantacinque persone, Rino, in sala di incisione registra il suo ultimo album, E io ci sto (1980).

E io ci sto, una dichiarazione d’impegno suonata a tempo di rock. “Io ci sto”, sembra dire, accetto di vivere le piccole e grandi battaglie quotidiane, le difficoltà del vivere, le crisi esistenziali. Il coraggio di guardare in faccia alle avversità, alle ingiustizie di un’Italia che deva ancora fare i conti con le stragi senza colpevoli e le tante diseguaglianze.

Ma io con la mia guerra voglio andare sempre avanti/E costi quel che costi, la vincerò non ci son santi /Ma ci ripenso però, mi guardo intorno per un po’/E mi accorgo che son solo/Ma in fondo è bella però è la mia guerra e io ci sto

Il disco viene ben accolto, Rino lo promuove nelle trasmissioni televisive e gira in lungo a in largo per concerti e serate.

In una di queste notti a fine concerto, forse ha bevuto troppo, forse ha lavorato instancabilmente, forse si è addormentato o ha avuto un malore alla guida della sua auto, una Volvo. La macchina sbanda, dall’altra parte un camion la travolge.

Rino verrà portato al Policlinico Umberto I in condizioni disperate. Serve un intervento, ma in quell’ospedale non c’è posto e non sono abbastanza attrezzati. Occorre cercare un altro ospedale, si corre, si contattano tutti gli altri centri, si prova al San Giovanni. Ma non c’è più tempo e la mattina del 2 giugno 1981, al Policlinico Gemelli, Rino muore. Trent’anni.

In una delle sue prime canzoni La ballata di Renzo, in origine intitolata Quando Renzo morì ero al bar, Rino aveva raccontato la storia di un giovane investito da un’auto mentre i suoi amici lo aspettavano al bar, ignari di tutto. Renzo sarebbe morto solo, nessun ospedale in grado di trovargli una sistemazione. Neppure al cimitero, nessun posto ad accogliere la sua salma. Malasanità e insensatezza del vivere in un Paese dimentico dei suoi cittadini, privo di risposte e assunzioni di responsabilità. Un Paese di fratelli figli unici.

La strada molto lunga, s’andò al S. Camillo/e lì non lo vollero per l’orario/La strada tutta scura, s’andò al S. Giovanni/e lì non l’accettarono per lo sciopero/ […] Con l’alba, le prime luci/s’andò al Policlinico/ma lo respinsero perché mancava il vice Capo/In alto, c’era il sole/si disse che Renzo era morto/ma neanche al cimitero c’era posto.

Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli