Il Gruppo Operaio E Zezi (Informazione.it)
Abbiamo trasformato i canti di lavoro della terra in canti della catena di montaggio.
E Zezi
Antesignani delle nuove tendenze musicali degli anni Novanta, con la contaminazione di canto popolare e canto di lotta, il Gruppo Operaio E Zezi, la cui costituzione si data al 1974, rappresenta, insieme alla Nuova Compagnia di Canto Popolare, il più interessante laboratorio di reinvenzione di cultura popolare nel sud Italia.
Una realtà musicale e teatrale di operai e militanti, nata a Pomigliano d’Arco, comune della città metropolitana di Napoli e che si distingue dalla NCCP per una natura più d’intervento politico con partecipazione attiva a manifestazioni, scioperi, agitazioni di piazza negli anni della contestazione e del Movimento del ’77. L’intento di E Zezi è, dunque, di “fare entrare nel canto di ispirazione contadina gli avvenimenti del quotidiano, la storia, lì dove De Simone cercava invece la metastoria, la temporanea e simbolica fuoriuscita dal quotidiano” (Giovanni Vacca, Il Vesuvio nel motore). Una voce di protesta contro le trasformazioni sociali e culturali imposte dalla modernizzazione, un progetto di contaminazione del canto contadino, legato alla ritualità delle feste religiose, con la canzone industriale. Proprio ciò che provavano a fare, negli stessi anni, Ewan MacColl e Peggy Seeger in Gran Bretagna, riportando il tipico canto folk britannico, la ballata, alle tematiche dell’attualità.
“E Zezi, con la loro miscela di musica tradizionale, teatro popolare e canzone politica, sono stati la sublimazione artistica del trauma dell’industrializzazione nel napoletano, del devastante urto che una cultura contadina arcaica […] ha ricevuto da una modernizzazione affrettata e per molti aspetti alienante” (G. Vacca). Si fa riferimento all’impianto della grande industria automobilistica Alfasud inaugurata a Pomigliano d’Arco nel 1966. In quel contesto rurale, la fabbrica con i suoi ritmi di lavoro fordisti, con il suo incombere nel paesaggio campano, la disumanizzazione della catena di montaggio, i turni, gli orari fissi e l’indifferenza alle abitudini di un mondo premoderno, ha eroso ogni forma di espressione di natura popolare: feste, rituali, musiche, rappresentazioni e danze. Un patrimonio appartenente alle classi contadine o urbane non egemoni, destinate a diventare vittime della modernizzazione e delle sue trasformazioni sociali, economiche e culturali, perennemente escluse da possibili profitti o vantaggi, ma ancora esistenti in piccole comunità, strette nei margini di una strenua resistenza allo sviluppo capitalistico, alla cultura di massa, alla produzione standardizzata che omologa e induce bisogni artificiali.
Impiegati nei mestieri più tradizionali come l’arrotino, lo stagnino, l’impagliatore di sedie, il sarto, il sellaio, il tessitore, il contadino e fedeli alla dimensione sacrale del folklore popolare napoletano. Un mondo di tradizioni orali che il Gruppo Operaio E Zezi ha inteso mantenere in vita, attraverso una personale rielaborazione di documenti capace di integrare quelle peculiarità nella cultura operaia. Tra questi documenti, le manifestazioni a carattere religioso più tipiche, legate alle pratiche esorcistiche e terapeutiche in cui la musica e la danza diventavano taumaturgiche, capaci di curare e allontanare malesseri e negatività. Come durante la festa della Madonna dell’Arco che radunava fedelissimi, curiosi, musicisti, antropologi a indagare gli stati di trance in cui cadevano taluni. O la festa della Madonna delle Galline, dove le danze si succedevano a ritmi estenuanti, o quella della Madonna di Castello a Somma Vesuviana. E poi i momenti collettivi delle celebrazioni legate agli eventi dell’anno agrario: la semina, la coltivazione, la raccolta.
«In queste feste popolari – racconta Giovanni Vacca – si balla la tammuriata, si cantano le fronne, si rappresentano La Canzone di Zeza, i Mesi, e il Processo al Carnevale, si accendono fuochi rituali, si portano devotamente sulle spalle pesanti obelischi di legno […], si trascinano in delirio giganteschi carri di grano, si gioca bendati nelle aie, si fanno benedire i propri animali, si chiede aiuto ai santi o alle anime del purgatorio: si dà insomma vita a quello sfogo nell’irrazionale e nel fantastico» che funziona da collettore, da strumento di protezione e rassicurazione sociale (G. Vacca).
Le sorti di questo territorio sono segnate già da una serie di interventi operati dall’Iri (Istituto per la ricostruzione industriale, fondato nel 1933), che vedono protagonista Benito Mussolini nell’atto di porre la prima pietra dello stabilimento aeronautico Alfa Romeo, con produzione a carattere militare, in preparazione dell’imminente ingresso nel secondo conflitto bellico. La fabbrica funzionò fino al 1943, per poi essere riconvertita nella produzione di macchinari agricoli. Nel 1964, un calo di produzione determinò una crisi che indusse l’azienda a porre in cassa integrazione diversi lavoratori. Di lì a poco, nel 1966, prende forma il progetto di Alfa Romeo di impiantare uno stabilimento automobilistico, l’Alfasud, per andare incontro alla domanda di automobili e alla volontà di formare nuclei sempre più consistenti di classe operaia, nell’idea che questo avrebbe ammodernato il Paese, allontanandolo sempre di più da un’economia di tipo contadino e avvicinandolo a una di tipo industriale. Ma l’Alfasud nasceva anche per altri motivi: “Come argine al crescente malcontento popolare di una regione deprivata delle sue tradizionali attività economiche”, sottolinea Vacca.
Un progetto che, invece di lenire il malcontento, lo accentuò. Il terreno pianeggiante di Pomigliano si presta alla costruzione del colosso automobilistico che, insieme all’Italsider di Bagnoli, chiude ai lati la città di Napoli, trasformando le circonvallazioni urbane in una rete congestionata dal traffico e in una realtà invivibile. Senza, peraltro, una reale integrazione con il territorio circostante, con gli uffici della direzione rimasti per lungo tempo a Milano. Una realtà aliena, chiusa unicamente nel ciclo serrato di lavorazione dell’auto: «Presse per modellare porte, cofani e tetti, reparto di lastroferratura per l’assemblaggio delle varie parti che formano la scocca […], verniciatura, sigillatura e schiumatura, e, all’epoca, reparto di carrozzeria per ruote e sedili e reparto di meccanica per il montaggio del motore Boxer» (G. Vacca).
La forza lavoro assunta per queste mansioni è quella proveniente dalle attività agrarie, dal mondo del precariato, i disoccupati permanenti, i lavoratori in nero, i braccianti saltuari: inadatti a ritmi e tempi di lavoro prestabiliti, impegni regolarizzati, mansioni rigidamente codificate.
«L’Alfasud è stata un macello – racconta Marcello Colasurdo, operaio e tra i militanti di E Zezi. Ha cambiato la vita del paese, ma ha portato un sottosviluppo culturale. A volte era una sofferenza: c’era la festa di Castello e tu non ci potevi andare perché dovevi andare a lavorare. A volte cantavo le cilentate in fabbrica, i capi ti guardavano storto, ma agli operai piaceva, dicevano che queste canzoni non si sentivano più» (G. Vacca).
“Metti il Vesuvio nel motore” era lo slogan che sosteneva la produzione dei primi veicoli usciti dall’Alfasud: una produzione che seguiva il sistema organizzativo tayloristico, indigesto a chiunque e ancora di più ai nuovi operai di Pomigliano d’Arco. Alcuni operai dicevano, prosegue Marcello Colasurdo: «è vero che io nella terra lavoravo più ore, ma lavoravo quando volevo io, e poi stavo all’aria aperta, se volevo riposarmi mi riposavo; anche se lavoravo quattordici o quindici ore non c’erano i ritmi che stanno qua dentro» (G. Vacca). Durante l’autunno caldo, infatti, non mancano scioperi e proteste per le condizioni di lavoro proibitive, per i turni massacranti, per l’alto grado di nocività di fumi e vapori inalati e causa di malattie. Fuori dalla fabbrica, le contese per ottenere assunzioni, che spesso avvenivano tramite pratiche clientelari. Protagonisti in questo frangente sono i Disoccupati Organizzati, gruppo di giovani che lotta per un posto di lavoro sicuro, anche nella fabbrica, senza favoritismi e corruzione.
Ma l’Alfasud, con gli impianti che solo in parte funzionano a regime, in poco tempo viene lasciata all’abbandono. Perdite ingenti, cassa integrazione, inutili lotte sindacali. La vendita dell’impresa alla Fiat determinerà la nascita dell’Alfa Lancia e poi di Fiat Auto Pomigliano, negli anni Ottanta. Un passaggio che non porta a nessuna reale innovazione tecnologica, imponendo, in compenso, ritmi produttivi accelerati. La dirigenza infatti impone il sistema di lavoro “Tmc” (tempo movimenti collegati), riducendo i tempi delle pause e sfruttando le energie dei lavoratori. Un sistema ancora più duro del taylorismo, aspramente contestato anche da Enzo del Re che nel 1974 incideva Lavorare con lentezza.
Per scongiurare proteste, vengono costituiti i gruppi di lavoro decentrati (le Upa, Unità produttive accessoristiche), in cui confinare lavoratori politicizzati, cassintegrati, dipendenti con problemi di salute mandati lontano dalle proprie famiglie, per isolarli dagli altri lavoratori. A partire dagli anni Novanta, la produzione si riduce e il mercato impone un’attenzione particolare alla personalizzazione delle auto e ai dettagli. Questa nuova modalità produttiva, sostenuta dai “Contratti formazione lavoro” determina la disintegrazione della classe operaia, in favore di un sistema individualistico e competitivo di lavoratori che hanno abbandonato ogni possibilità di lotta collettiva. All’interno della trasmissione “La storia siamo noi”, una interessante ricostruzione della vicenda della fabbrica Alfasud:
https://www.youtube.com/watch?v=dORO1N1Nr6k
Nel contesto desolante di disgregazione sociale, già a partire dai primi anni Settanta, prende vita il Gruppo Operaio E Zezi, laboratorio di idee, collettore di spinte progettuali, luogo di integrazione per coloro che intendono trasformare l’alienazione della fabbrica in qualcosa di costruttivo. Creare lo spazio in cui rievocare una memoria collettiva, un’identità perduta e riannodare i fili di una cultura «da vivere non con consolatoria nostalgia, ma come opportunità produttrice di senso e di identità condivisa, di scavo interiore e di possibilità relazionale; una tradizione popolare reinventata e rifunzionalizzata in maniera permanente» (G. Vacca).
Sono operai, disoccupati, militanti di sinistra che intendono la musica e lo spettacolo come occasione per interagire con altre frange di popolazione e motivarle al rinnovamento. Si incontrano in un locale che affittano per discutere, scrivere, suonare. Del nucleo fondatore fanno parte Pasquale Bernile, Antonio De Falco, Tonino Esposito, Pasquale Terracciano, ventenni coordinati da Angelo De Falco, collaboratore della Nuova Compagnia. Predominante è la dimensione militante e l’esigenza di denuncia sociale della propria condizione. Questo spinge verso forme di espressione come la canzone politica, l’agit-prop, le manifestazioni di piazza, le azioni d’intervento, il teatro di guerriglia come il San Francisco Mime Troupe. Il documentario Have You Heard of the San Francisco Mime Troupe? racconta la travolgente esperienza artistica della compagnia teatrale americana.
Allo stesso modo i Zezi irrompono con un teatro scatenato che agita acque stagnanti. Con l’uso di slogan, fischietti, tamburi e campanacci, strumenti che rimandano all’immagine di una Napoli plebea e chiassosa, restituiscono una sorta di “folklore operaio”. Così come striscioni, murales, pupazzi e maschere, corse, giochi da teatro di strada e ritmi di tammuriate estenuanti.
Un bagaglio di suoni, gesti, immagini che enfatizza l’elemento spettacolare di E Zezi e ne rende immediata la comunicazione. Il nome “Zezi” è quello degli attori improvvisati che negli anni Cinquanta attraversavano i paesi della costa interpretando la Canzone di Zeza. È proprio dal recupero di questa rappresentazione popolare tipica del carnevale, nota in tutto il territorio campano, che il gruppo inaugura la sua attività. È uno spettacolo teatrale che mette in scena un contrasto tra Pulcinella e sua moglie Zeza che, alla fine, ha la meglio. Sul piano simbolico, rappresenta il passaggio dall’anno vecchio a quello nuovo. Verrà riproposta, dopo anni di assenza, nel carnevale pomiglianese, divenendo un’opera fondamentale nel repertorio del gruppo.
Altra rappresentazione popolare è quella dei Dodici Mesi, una sorta di drammatizzazione dell’almanacco, ovvero una messa in scena delle caratteristiche dei dodici mesi attraverso le voci di altrettanti interpreti. Nel 1978 il gruppo partecipa alla Festa della mezz’ora davanti ai cancelli della Fiat di Mirafiori, per la riduzione dell’orario di lavoro. I contesti di strada o di piazza sono quelli che il gruppo predilige, accompagnando manifestazioni, scioperi, rivendicazioni. Ma ci sono anche le feste de l’Unità, i circoli Arci e i festival di rilievo internazionale, come la Biennale di Venezia (1975), il Festival Populaire di Martigues in Francia (1976) e teatri come la Conwey Hall di Londra (1977). Il Gruppo rielabora la tradizione, ma produce anche le sue prime canzoni ispirate all’attualità.
Tra queste, la Tammuriata dell’Alfasud. Scritta per denunciare il clientelismo, è anche il racconto dell’impatto dell’operaio, che ha abbandonato la precarietà della vita contadina per entrare nella fabbrica. Un luogo che coincide con l’opportunità di lavoro, ma è anche causa della fine di un mondo. «L’industria è spietata, – racconta Matteo d’Onofrio, operaio e interprete di E Zezi – loro non guardano in faccia a nessuno. Non si preoccupano della realtà delle persone che prendono in fabbrica, del loro modo di vivere. Non gli interessa se l’operaio sta bene o no; loro dicono che se non ti va bene ti licenzi e te ne vai” (G. Vacca). Certamente la fabbrica è l’antro di acciaio e cemento che sforna l’automobile finita: Na lotta aggi’avuta fa/ Na lotta aggi’ avuta fa pè nce trasì/ Ma quann’aggio trasuto/ Mamm’ ‘e ll’Arco ch’mbressione/Mamm’ ‘è ll’Arco ch’mbressione ch’aggio avuto/Uè nu mostro je vediette/che paura ca faciette/uè pa vocca ogni minuto/cacciava na macchina fernuta. [Una lotta ho dovuto fare/per entrarci/ a quando ci sono entrato/Mamma dell’Arco che impressione/Mamma dell’Arco che impressione che ho avuto./ Uè un mostro io vidi che paura che mi presi/ué per bocca ogni minuto/buttava fuori una macchina finita].
Poi le canzoni di denuncia: Vesuvio, e la subalternità del proletariato napoletano; So pizz’ ‘e case o so pizz’ ‘e galera/Addò staje chiuse d’a matina a sera/Si’ o purgatorio ‘e tutt’ chesta ‘ggente/Ca vive dint’ e barrache e vive ‘e stient’.
Tammuriata de pummarole sullo sfruttamento del lavoro nei campi.
Fino alla più drammatica A Flobert, storia della fabbrica di armi giocattolo che, nel 1975, esplode nelle campagne del napoletano, a Santa Anastasia, comune alle spalle del Vesuvio, uccidendo tredici operai e ferendone dieci. Canzone-racconto di una tragedia di immani proporzioni, con la descrizione dello strazio dei corpi, la disperazione dei parenti, i telegrammi delle autorità e la loro indifferenza. Un brano che condanna la mancanza di sicurezza sui luoghi di lavoro, denunciando un’impresa che clandestinamente produce proiettili con polvere da sparo.
«Il capannone dove avremmo dovuto lavorare era adiacente ad altri capannoni dove c’erano altri operai, ma non aveva uscite di sicurezza; – racconta il sopravvissuto Ciro Liguoro – c’erano due finestrini sbarrati e polvere dappertutto […]. Noi protestammo ma ci fecero capire che avremmo perso il posto se ci fossimo rifiutati […]. Dovevamo fare trentamila proiettili […]. In un attimo, uno stridìo, una fiammata e il primo scoppio […]. Il secondo scoppio è stato molto più forte perché è avvenuto nel deposito e ha fatto crollare anche il tetto […]. Credo che la maggior parte di noi sia morta all’istante» (G. Vacca). La cronaca radiofonica introduce il brano.
Il documentario A’ Flobert. Ma perché per faticà pure a morte amm’affruntà? di Maurizio Gibertini ricostruisce drammaticamente i fatti.
Il 1976 è l’anno del disco inciso per i Dischi del Sole, “Tammurriata dell’Alfasud”. Ripercorre brani della tradizione orale mescolati a parole nuove, di protesta politica e sociale, al ritmo infuriato della tammuriata.
I temi che tornano nella produzione del Gruppo sono legati al racconto della fabbrica, luogo di lavoro ma anche di socialità, in cui la comunità operaia diventa famiglia allargata e gli eventi sono un vissuto collettivo. In Capipallisti, gli operai condividono la stessa sorte:
Stamattina int’o piazzale/Stammo tutti quanti afora/ ‘Pascà ma ch’è succiesso?/iammo a cassa integrazione e in mobilità! [Stamattina nel piazzale, stiamo tutti quanti fuori/Pasquale, ma che è successo?/ andiamo in cassa integrazione e in mobilità]
Altro tema forte è quello della disoccupazione, che costringe ampie frange di giovani ai margini del sistema produttivo-economico del Paese, relegandoli a una eterna incertezza. Così in Giuvinotte e signurine: Ma che male v’hanno fatto/Sti guagliune miez’a via/Stanno tuttu quant’a spasso/senza sorde rint’e sacche [Ma che male vi hanno fatto/questi ragazzi in mezzo alla strada/sono tutti a spasso/senza soldi in tasca].
E poi la lotta al razzismo, contrasto verso ogni forma di discriminazione. Come in Bianco o cioccolata: A ggente è nera o è gialla, è bianca o è ciucculata/È secca, chiatta o storta, songh’è mmane ro sole. [La gente è nera, gialla, bianca o cioccolata/È snella, grassa o storta/sono le mani del sole]. I movimenti di rivolta del ’77 animano una controcultura che si afferma nella festa popolare, rovesciamento di valori borghesi, nella vitalità delle radio indipendenti, ma anche nelle nuove forme di precarietà e nel disagio di un proletariato giovanile di chi, benché formatosi nelle università, non trova occupazione, nuovo operaio acculturato metropolitano. Gli interventi del gruppo risentono del clima di rivolta e danno vita a varie manifestazioni di protesta: davanti allo stabilimento dell’Italsider (1983), durante la marcia per la pace a Roma (1982), contro l’installazione di una fabbrica di amianto in provincia di Salerno. Per l’occasione i Zezi realizzano lo spettacolo “La fabbrica del sabato sera” a cui partecipano anche Ciccio Busacca, Rocco Zambrano, il dottor Massimo Menegozzi, massimo esperto di amianto, docente di medicina del lavoro all’Università di Napoli.
Gli spettacoli si avvalgono sempre di più di forme di teatro popolare, della parodia, della performance di piazza. Sempre più clamorosi nelle modalità di rappresentazione. La convergenza con le istanze dei Disoccupati Organizzati (di cui si è già detto), conduce ad azioni simultanee fortemente provocatorie: occupazioni di strade, assalti a opere d’arte, cortei che bloccano vie e passaggi, incendio di croci, di fantocci che raffigurano uomini politici. E poi canti, balletti, sketch, numeri di un teatro spontaneo che nasce dalla volontà di coinvolgere la gente, muoverla a una reazione, distoglierla dalla condizione di inazione, dall’immobilità di un ordine costituito.
Negli anni del riflusso si spegne il fermento che aveva portato alla riscoperta del folk, e i Zezi si mantengono in attività, esibendosi nelle piccole realtà della provincia campana. Abbandonano il teatro rituale per tentare le strade di un teatro di ricerca, fortemente politicizzato, documento di fatti reali. Tra gli spettacoli: “A morte mia”, “Tribbù elettorale”, “Attenziò Pupulaziò”, “Mo vene Natale…Nun tengo renare”. Sono spettacoli che denunciano il depauperamento culturale, la perdita dei valori prodotti dalla modernità, il lavoro instabile, il senso di precarietà e la trasformazione di esseri umani in macchine per catene di montaggio, i falsi miti americani, i prodotti preconfezionati, la distruzione del paesaggio naturale in favore di agglomerati urbani e centri commerciali.
Il ritorno alle proteste di piazza negli anni Novanta, con il protagonismo dei centri sociali come luoghi di incontro e di produzione di cultura alternativa, rilanciano una musica folk che si tinge di riscatto, di lotta sociale, di affermazione di diritti civili, di nuove battaglie da combattere, anche con la musica di strumenti tipici e il canto in dialetto. Il cd “Auciello ro mio posa e sorde” (1994, Tide Records) è il risultato di un interscambio all’interno del gruppo tra fondatori e nuove voci, musicisti di estrazione urbana, professionisti. Marzia Del Giudice è la prima voce femminile stabile. Si mima la quotidianità della vita in fabbrica, i rumori del lavoro, la colonna sonora di una catena di montaggio.
Il disco verrà stampato anche in America dalla Lyrichord Disc Inc. col titolo “Pummarola Black”. Si denunciano le ingiustizie nel mondo del lavoro e soprattutto dell’agricoltura, nella raccolta dei pomodori, che tocca in particolare la manodopera di colore, soggetta alle vessazioni del caporalato. La pummarola assume un’ampia polisemia: “Nera perché frutto del lavoro nero, perché la pelle dei lavoratori è nera e perché associata alla morte” (G. Vacca).
S’è vestuta a lutto/pecché e tiempe songhe brutte. [Si è vestita a lutto/ perché i tempi sono brutti].
La protesta è anche contro il G7, riunitosi a Napoli nel 1994, responsabili dello sfruttamento dei più deboli, in G7: zimbre e capretti: So’ loro e schiattamuorte/Di questa società/ Distruggono, licenziano l’umana dignità. [Sono loro i becchini/di questa società/distruggono, licenziano l’umana dignità].
L’album live “Zezi vivi” (1996) è invece dedicato al popolo Saharawi in lotta per l’indipendenza.
Gli anni successivi vedono la pubblicazione di “Diavule a Quatto” (2002, Il Manifesto), “Triccabballàcche – Aulive e Chiapparielli” (2007, Terre in moto); “Ciente Paise” (Vesuvio, 2011), “Zezi per il cinema ‘A Santanotte / Ninna cu ‘o suonn’” (2018).
“Diavule a Quatto” (2002, Il Manifesto) Full album:
“Ciente Paise” (Vesuvio, 2011)
Al Gruppo Operaio E Zezi sono stati dedicati due bellissimi documentari: “Viento ‘e terra” diretto da Antonietta De Lillo (1996) e “Il sogno dei Zezi” (2009) prodotto da Film Discaunt. “Viento ‘e terra” – parte prima
“Viento ‘e terra” – parte seconda
“Il sogno dei Zezi”
E Zezi sono tuttora i rappresentanti di una moderna rilettura dei repertori della tradizione orale napoletana, restituita con una personale combinazione di suoni e ritmi, mescolati a quelli di altre culture, per creare uno spazio nuovo entro cui esprimere libertà espressiva, crescere umanamente nella condivisione e nel sentimento della solidarietà verso il prossimo, nella tolleranza delle diversità, e per raccontare le battaglie di ieri e di oggi.
«Stare nei Zezi non significa stare in un qualsiasi gruppo musicale» ha detto lo storico interprete Antonio Fraioli in una testimonianza raccolta da Giovanni Vacca nel suo libro Il Vesuvio nel motore. «Io ho fatto esperienze a trecentosessanta gradi in questo gruppo, politiche, artistiche, umane, scoprendo anche profonde contraddizioni, e solo nella voglia di vedere e riflettere su queste si può aprire ancora una volta un reale futuro nel gruppo».
Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli
Pubblicato domenica 21 Febbraio 2021
Stampato il 13/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/pentagramma/quando-la-classe-lavoratrice-canta/