La formazione della Nccp nel 1976 (Wikipedia)

La musica popolare come tutte le autentiche tradizioni di un popolo, è innanzitutto una musica funzionale, che serve veramente; non è una musica evasiva che serve per divertirsi, per rallegrare gli altri che ascoltano. È una musica che si fa per comunicare certi problemi (…), in un momento particolare, in un giorno prestabilito.
Roberto De Simone

Da queste considerazioni muovono le ricerche che hanno animato la più importante formazione di musica popolare del Sud dell’Italia, la Nuova Compagnia di Canto Popolare, anno di nascita: 1967.

L’anno che precede le rivolte giovanili, gli scioperi dei lavoratori, le manifestazioni per l’ottenimento dei diritti nei luoghi di lavoro e nelle università: l’utopia del cambiamento radicale. Che in parte si manifestò, dapprima con «la moda, il costume, la non violenza, la sorpresa o l’happening», [come sottolineò Giorgio Bocca] invece che attraverso l’azione dentro l’alveo della politica.

Fuori dai partiti, dunque, dalle ideologie e degli schemi tradizionali. Poi nelle azioni di rivolta, attraverso gli scioperi, le occupazioni di scuole e accademie: tutta una serie di manifestazioni che alla base mostravano una mancanza di dialogo fra generazioni, fra giovani e anziani, professori e studenti, il fermento «di un più generale senso di insoddisfazione […], un esempio della stanchezza accumulata in tutti i settori della società italiana negli anni passati» [Forcella, E. “I giovani e la necessità di cose nuove” ne Il Giorno, 18 marzo 1965, p. 1].

Il vero e proprio “caso” esploderà a Milano, al liceo Parini e poi arriverà a Roma, nel 1966 con l’occupazione dell’ateneo e una reazione violenta da parte del ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani, attraverso le cui ordinanze, di fatto, ogni agitazione nelle università veniva messa fuori legge. Le occupazioni coinvolgeranno la maggior parte degli atenei tra l’autunno del 1967 e il 1968, un incendio che, nel vuoto dei valori borghesi effimeri e consumistici, e di fronte a un misto di cultura provinciale, disciplina autoritaria e morale bacchettona, espresso dalle istituzioni, troverà un contraltare politico-culturale fatto di ideologie, simboli e riferimenti sociali così connotati e aggreganti da tenere incollati eserciti di giovani pronti a seguirli. Accanto alle rivendicazioni studentesche, si fanno strada quelle degli operai, dei lavoratori sfruttati nelle fabbriche, che scendono in piazza per ottenere salari più adeguati, condizioni di lavoro accettabili, diritto alla rappresentanza sindacale.

In questo frangente, le canzoni si fanno in larga parte portavoce delle rivolte, strumenti di lotta sociale sia nelle forme delle composizioni originali, che in quelle di ricalco del mondo popolare che, dalla fine degli anni Cinquanta, viene riscoperto come grande magazzino della memoria di un Paese, con le sue lotte, con le sue rivoluzioni, con le voci dal passato che rinnovano antiche rivendicazioni. È il canto della povera gente, che ha tutta la forza di veicolare una protesta sociale.

Il compositore e musicologo Roberto De Simone compositore, musicologo, drammaturgo, regista ed etnomusicologo, nato a Napoli nel 1933 (da filipposica.com/robertodesimone/)

Se al Nord, a Milano, il Nuovo Canzoniere Italiano, anticipato dal lavoro dei torinesi Cantacronache, partecipa alla nascita del folk revival in Italia, con figure di intellettuali ed etnomusicologi come Roberto Leydi e Gianni Bosio – facendosi promotore già dal ’62 della riproposizione dello stile e dei materiali autentici provenienti dal mondo popolare, contadino, operaio, tramite ricerche sul campo, al Sud, e in particolare in Campania –, il musicista e compositore Roberto De Simone, insieme alla Nuova Compagnia di Canto Popolare, dà vita a un lavoro analogo per giungere, però, a risultati alternativi.

Il contesto culturale napoletano nei primi anni Sessanta risente del clima di rivolta sociale e di rivoluzione verso lo status quo. Ci sono interventi di rottura rispetto alla tradizione culturale soprattutto in ambito teatrale, apportati da gruppi come il Living Theatre, che si esibisce sulle scene partenopee nel 1965, incoraggiando l’entusiasmo dei giovani sperimentatori napoletani nel provocare il sistema dell’arte e della cultura borghese. La città accoglie il nuovo e rinsalda il vecchio, con la divisione anche geografica di quartieri che diventano sede dei giovani progressisti all’avanguardia, al Vomero, e il centro, che resta il luogo, per tradizione, di riferimento della canzone tradizionale. Reazionaria e antimoderna, asservita a un sistema che i giovani soprattutto intendono rovesciare.

Nel 1966 giunge a Napoli anche lo spettacolo di Dario Fo, “Ci ragiono e canto”.

De Simone, giovane studioso, ne resta colpito: non è più solo la riproposizione in ricalco dei materiali autentici, ma una originale reinterpretazione. Uno spettacolo teatrale in cui professionisti e interpreti popolari, rappresentanti di un mondo proletario, sono uniti nella creazione di una messa in scena vera e propria che, senza troppe note didascaliche, esprime l’idea forte che sta alla base del progetto: soverchiare il sistema egemone di cultura borghese che sopprime quel mondo di umili, lasciandolo da sempre ai margini.

Il 1967, nell’anno che precede le grandi rivolte sociali, Napoli è scossa da nuovi venti di protesta. Il Living Theatre sconvolge ancora il pubblico del teatro Politeama con Frankenstein

e Antigone

e con un’idea di libertà che si pone in contrasto con i limiti imposti da violenze economiche sociali, politiche, culturali del sistema capitalistico.

Nel 1967 Giovanni Mauriello è un ragazzino iscritto alla scuola di avviamento professionale di Bagnoli, istituto che favorisce gli allievi nella formazione presso la vicina industria siderurgica Ilva. Le attività dopolavoristiche dell’azienda prevedono spettacoli per le famiglie dei dipendenti. È in queste occasioni che Mauriello fa la conoscenza di tre giovani, figli del dipendente Carlo Bennato. Sono Edoardo, Eugenio e Giorgio che già del 1958 si esibiscono come Trio Bennato. Al gruppo si aggiunge Carlo D’Angiò, amico dei Bennato e la formazione si arricchisce di strumenti e di possibilità espressive: chitarre, voci, percussioni, banjo. Di lì a poco

La Nccp in formazione classica: in primo piano, Eugenio Bennato

Eugenio lancia l’idea di mettere in piedi un gruppo di musica popolare con un repertorio di canti provenienti da tutta Italia. La voce diventa un coro e in questi primi esperimenti sono coinvolti, oltre a Bennato, D’Angiò e Mauriello, Claudio Montella e Mario Malavenda e la voce femminile di Lucia Bruno.

La svolta nella vita del gruppo è legata all’incontro con Roberto De Simone che ascolta una prima volta l’ensemble nella sua abitazione di Napoli. Musicista colto, compositore, organista, pianista, docente, autore di musiche per la Rai di Napoli. Diplomato al Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli, è stato allievo di Cesare Valabrega. All’avanguardia nell’uso del documento sonoro a fini didattici, questi abituava i suoi allievi all’ascolto di registrazioni di musiche medioevali ricostruite allo scopo di riconoscerne le tipicità. A partire dalla metà degli anni Sessanta, anche grazie a questo insegnamento, De Simone si dedica alla ricerca etnologica sul campo, e musicologica, nelle biblioteche napoletane in cui sono conservati fondi musicali. Il suo interesse è la cultura popolare di Napoli e della Campania.

Da quel primo incontro con i giovani cantori ne seguiranno numerosi, fino al sodalizio artistico con la creazione di un’identità collettiva, riassunta nel nome di Nuova Compagnia di Canto Popolare. Repertori campani, studio delle fonti scritte affrontate con la disciplina di chi proviene da una formazione classica; e poi documentazione sul campo, alla ricerca della testimonianza orale e grande lavoro sulla vocalità. Queste le linee guida del progetto artistico.

«Fin dall’inizio, il mio lavoro con la Nuova Compagnia di Canto Popolare si indirizzò a un confronto tra letteratura e oralità – dice De Simone – (…), privilegiai l’esecuzione critica di prodotti giunti a noi dalla letteratura, con uno stile vocale ricavato sulla realtà vocalistica del mondo popolare (…). Negli anni Sessanta, trascrissi ed elaborai le villanelle napoletane cinquecentesche (…), con una vocalità nient’affatto accademica, desunta dallo stile degli autentici cantori campani; anche tenendo presente, a rovescio, che un autentico canto popolare non è eseguibile da voci d’impostazione diversa da quelle che connotano la tradizione orale» [Anita Pesce, “Dietro ogni voce c’è un personaggio”, p. 25]. È una sapiente riscrittura, quella di De Simone, che mantiene viva la tradizione, una memoria fondativa ma perduta, che riemerge nell’evocazione delle voci lontane di un popolo abbandonato ai margini della Storia.

Un progetto che avrà il merito di riuscire a interessare borghesia colta e intellighenzia, ma anche operai e lavoratori delle classi più umili, giovani e giovanissimi.

Un progetto che partecipa alla generale rinascita del canto popolare in Italia e in vari Paesi in Europa e nel mondo, ma che per certi versi se ne distacca, elaborando considerazioni del tutto originali, congenite al contesto specifico del territorio campano, con la sua eredità di canti assolutamente distintivi rispetto a ogni altra forma di espressione orale, per strutture, suoni e soprattutto temi.

«Ripensai – dice De Simone – alle connotazioni sociopolitiche del folk revival italiano, ancorato alla teoria del ricalco, secondo cui a un esecutore, animato da ideologia di classe, fosse lecito eseguire un brano popolare desunto da documento registrato da informatore orale, contadino o operaio, ricalcando rigorosamente il documento stesso, ma per lo più la riproduzione era da rivolgere a canti di ispirazione politica. Nella nostra realtà campana, la tradizione si esprimeva vividamente secondo i caratteri metastorici dei rituali» [A. Pesce,  p. 47]. Ai cantori della Nuova Compagnia non viene dunque chiesto di riproporre, imitandolo, il canto di contadini o pastori, ma di attivare una propria personale ricerca di una vocalità, che attingesse a quella originaria, ma che fosse libera interpretazione del singolo. In altre parole, non rievocazione storica di un dato contesto, ma rielaborazione di canti e musiche senza tempo. Vocalità ma anche gestualità, movimento scenico che si rinnova seguendo le istanze del teatro di ricerca, impersonato da artisti come Julian Beck del Living Theatre che, oltre ad ammirare in scena, De Simone conosce personalmente. Canto, musica, danza e teatro sono realtà interconnesse nella sua idea di rappresentazione.

In una delle prime apparizioni, al Festival della canzone folk di Salerno, il 27 luglio 1968, la Compagnia si esibisce in una riproposta del classico O guarracino, che interpreterà anche l’anno successivo alla trasmissione Rai “Disco Verde”, ancora in una versione piuttosto tradizionale. Qualche tempo dopo sarà rivisitato per diventare uno dei pezzi simbolo della Compagnia.

Nel 1969 la NCCP è in scena al Teatro Esse di Napoli con “Stasera il folk”. In accordo all’idea di rinnovare la rappresentazione, allo spettacolo De Simone fa partecipare anche danzatori popolari, due ex detenuti del carcere di Torre del Greco che intonano canti del carcere. Il resto del repertorio si mantiene sulla tradizione dei canti napoletani e campani: un canto processionale medioevale e una lauda del Trecento, canzoni profane come la Tarantella di Masaniello,

la seicentesca canzone Angelarè,

la favola del guarracino, la ballata abruzzese di Sant’Antonio a lu diserto. E poi la villanella Boccuccia de ’no pierzeco apreturo che De Simone ha rinvenuto nella biblioteca tedesca di Wolfenbüttel.

Nello spettacolo ci sono Mauriello, Bennato, Carlo D’Angiò e si aggiungono Peppe Barra e la dodicenne Patrizia Schettino che colpisce De Simone, in occasione di uno spettacolo scolastico, per la voce incantevole. Farà parte della compagnia fino al 1970. Alla storica Festa di Piedigrotta del 1969 la formazione si esibisce in alcuni brani che saranno poi incisi: la Ballata di Cola Pesce e Procidana.

Negli anni appena successivi, mentre nuovi elementi sostituiscono chi per varie ragioni decide di abbandonare, la Compagnia trova il modo di farsi conoscere partecipando a trasmissioni televisive e spettacoli teatrali. Alla Rai di Napoli i telespettatori sono scossi da una vorticosa Madonna delle grazie

e dal brano Maronna nun è cchiù.

Nel 1970, alla trasmissione Rai “Un colore per il mondo” i cantori si esibiscono in La ’ndrezzata: sono Eugenio Bennato, Peppe Barra, Giovanni Mauriello, Patrizia Schettino, Carlo D’Angiò, Patrizio Trampetti.

Un tassello importante, di lì a poco, è l’ingresso di Fausta Vetere che da quel momento incarnerà la vocalità femminile della Compagnia, insieme a Concetta Barra.

L’interesse di pubblico e critica porta all’uscita del primo album in studio intitolato “Nuova Compagnia di Canto Popolare” (1971), pubblicato dall’etichetta Rare,

seguito, nel 1972, da un secondo omonimo disco. Full album:

A una esibizione al Teatro Esse assiste Eduardo De Filippo che resta fortemente colpito dall’energia e dalla forza del gruppo, tanto da segnalare questa realtà musicale a Romolo Valli, direttore artistico del Festival dei Due Mondi di Spoleto.

Le sue parole sullo spettacolo fanno emergere il valore del lavoro proposto dalla Compagnia e ne sanciscono il successo: «Quegli artisti – dice – con semplicità, con amore e grande talento, ci facevano rivivere le nostre origini più remote, spesso intrecciate strettamente con le antichissime tradizioni di altri popoli mediterranei. Il ciclo delle generazioni – nascita, vita, morte – anno dopo anno, decennio dopo decennio, secolo dopo secolo, riviveva in me attraverso quei canti con tutta la maestosa grandiosità e il mistero affascinante della nostra condizione umana» [“Una folla immensa alla chiusura del festival di Spoleto”, Il Messaggero, 11 luglio 1972].

Unanime il gradimento della critica alla proposta musicale della Compagnia. Colpisce la novità di una rilettura della tradizione così stimolante e forte di un reale talento espressivo degli interpreti. «Vogliamo […] sottolineare il tipo di teatro, questo sì, gestuale e rituale perché vero rito esorcistico di antiche spettri come la sopraffazione, la fame, la morte, la follia» [Prosperi, G. “Una vera scoperta”, Il Tempo, 7 luglio 1972].

Testimonianze-relitti di un passato lontano che riemergeva riportando a galla il senso dello stare al mondo, i significati profondi dell’esistenza umana, della lotta per la sopravvivenza e per la difesa della libertà. Come in Canto dei Sanfedisti, canto di lotta delle plebi del Regno di Napoli contro l’invasione dell’esercito francese nel 1798.

o Cicerenella, filastrocca popolare napoletana di autori ignoti, scritta nel XVIII secolo e riproposta in forma di tarantella.

Poco dopo la Compagnia partecipa al lungometraggio Un giorno, sei secoli di storia napoletana, di Ugo Fasano per l’Istituto Luce. Nel dicembre 1972 si esibisce alla Piccola Scala di Milano in una edizione del “Folk Festival”, manifestazione che vedeva tra i partecipanti altri interpreti di spicco del folk mondiale come Amália Rodrigues, Maria Bethânia  e Rosa Balistreri.

La compagnia napoletana esegue ’Ndrezzata ischitana.

La chiusura del 1972 è una conferma della formula innovativa proposta dalla formazione partenopea, alternativa al folk revival, orientata nel dare nuova funzione a voci e gesti, riportandoli in linea con il tempo della storia.  Questo progetto musicale otterrà un riconoscimento nazionale di mercato e di critica, trovando l’apprezzamento anche dal giornalismo musicale giovanile. Nel 1973, il disco “NCCP” viene registrato per la Emi italiana. Ci sono brani popolari come la villanella Li ’ffigliole.

Altro cavallo di battaglia è La rumba degli scugnizzi di Raffaele Viviani, tratto da lavoro teatrale “L’ultimo scugnizzo” del 1932, grande prova del talento della compagnia che dispiega uno schieramento di voci e timbri, di echi e di grida di venditori ambulanti in un vivace impasto sonoro di straordinaria suggestione.

In quel 1973, Napoli è scossa da un’epidemia di colera che scatena nella città terrore e panico. La città è in sofferenza e stride la sua modernità con l’incombere di una malattia che sprofonda in un passato primitivo.

Il 1974 è segnato dalla vera prima messa in scena da parte del gruppo, la rappresentazione carnascialesca de La canzone di Zeza, in scena al Teatro Cilea di Napoli e successivamente al Festival dei Due mondi di Spoleto. Su quel palcoscenico si materializza un teatro che non si abbandona ai facili effetti, ma che ha la forza di sconvolgere, come una rappresentazione sacra.

Nel giugno il gruppo è ospite al Festival Internazionale del Folklore di Zurigo: «Il Maestro Roberto De Simone – scrive Nina Beckwith sulla rivista Variety – è un Alan Lomax napoletano, alla ricerca di canti scomparsi e cicli di storie dalla ricca eredità dell’Italia meridionale. (…) Il lavoro della Compagnia è tanto distante dalla scuola interpretativa dolciastra e piagnucolosa quanto dal folk fasullo» [Variety, 10 luglio 1974].

Il 33 giri “Li sarracini adorano lu sole” (Emi, 1974) fa conoscere la Compagnia oltre i confini nazionali: si esibiscono al Festival Internazionale del Teatro di Belgrado e poi tournée in Argentina e Brasile, Nancy, Edimburgo, Helsinki.

Nel disco è finalmente presente la personale versione di Tammuriata nera di E.A. Mario, nel cui finale viene aggiunta una coda di alcune strofe scritte dal posteggiatore Eugenio Pragliola, per riconnettere il brano alla tradizione orale dei cantori e musicisti di strada, esperti nell’arte dell’improvvisazione.

Ci sono anche ’O cunto ’e Masaniello, a firma di De Simone e una nuova versione di Lo guarracino.

Il ritorno sulle scene napoletane, nel 1975, è segnato dalla rivisitazione del teatro religioso popolare, nella tradizionale messa in scena natalizia La cantata dei pastori, al Teatro San Ferdinando, mediante rilettura di fonti sia letterarie che di tradizione orale. Ricerche sul campo durante le feste popolari, informazioni di testimonianze superstiti, materiali rinvenuti nelle biblioteche, riappropriazione di canti estinti, come villanelle e strambotti, impiego di strumenti tradizionali attraverso lo studio di manifestazioni teatrali connesse alla ritualità. Tutto ciò connota la novità di una proposta che nasce dallo studio delle fonti, e che, contestualmente, le rivitalizza.

Tra le interpreti femminili anche Concetta Barra, rilanciata nella carriera artistica proprio da De Simone.

Nel 1976 la Compagnia trascina il pubblico del Festival Nazionale dell’Unità di Napoli con il ritmo e l’energia di una esibizione sconcertante.

Di quello stesso anno è un nuovo invito al Festival dei Due mondi di Spoleto: qui viene presentato il capolavoro desimoniano La gatta Cenerentola. Un’opera che traghetta definitivamente la Compagnia, che si costituirà in nuova associazione denominata Il Cerchio, verso il teatro. Questa direzione sarà probabilmente anche la causa della fuoriuscita di Eugenio Bennato – che fonderà il gruppo folk Musicanova –, più orientato ad approfondire l’aspetto puramente musicale.

La gatta Cenerentola si rivela dunque una svolta nella storia della NCCP, che perde uno dei pilastri creativi del gruppo e si struttura come compagnia teatrale in cui l’assegnazione di ruoli e personaggi è generatrice di un cambiamento nell’originaria identità collettiva del gruppo. Il teatro prevale sulla musica: «È la ricerca di quella unità, che De Simone persegue – scrive Anita Pesce –; di quella integrità perduta in cui voce, gesto, narrazione, soggetto, convergono nella sacra rappresentazione, nel rutilare di simboli, nell’intessersi di miti, nel reinventare stili, voci, personaggi» [A. Pesce, p. 114]. L’opera è un capolavoro. Composta di tre atti, scritta e musicata da Roberto De Simone, si ispira alla fiaba omonima contenuta in Lo Cunto de li Cunti di Giambattista Basile, una raccolta di cinquanta fiabe in lingua napoletana edite fra il 1634 e il 1636 a Napoli, qui raccontata da Fausta Vetere.

De Simone mescola questa con altre versioni, scritte e orali, della stessa fiaba. Anche dal punto di vista musicale, l’opera fonde musica popolare (villanelle, moresche, tammurriate) e musica colta, mentre il testo è in lingua napoletana, ma un napoletano quasi senza tempo. Grande protagonista di La gatta Cenerentola è la città di Napoli, città figliastra, vittima del potere di una matrigna perversa e di occupanti stranieri. Ma la storia non è una storia reale, più una rievocazione di leggende, sogni, suggestioni lontane e quasi mitologiche. E canti disseminati nel tempo e nella Storia.

Jesce sole, in apertura, è la prima canzone napoletana ritrovata, risalente al 1200; il Ritornello delle lavandaie del Vomero, nata in origine come canto d’amore, è poi diventata canzone di protesta contro la dominazione aragonese.

Nel 1977 la compagnia si ricostituisce, allargata, e ripropone al San Ferdinando di Napoli La gatta Cenerentola e di nuovo ritorna in scena con la presentazione del disco “11 mesi e 29 giorni”.

Dal 1978 continua la sua avventura artistica e incide il disco “Aggio girato lo munno” (1979). [https://www.youtube.com/watch?v=dUpln4srJN8&t=32s]

Numerose sono le produzioni discografiche che seguono, tra cui l’album “Medina” (1992), “Pesce d’ ’o mare” (1998), “La voce del grano” (2001),

“Candelora” (2005).

Nel luglio 2020 la Compagnia ottiene la Targa Tenco per il miglior Album in dialetto con “Napoli 1534. Tra moresche e villanelle”.

(da nccp.it)

Voci diverse si sono alternate, alcune, come quella di Fausta Vetere, sono sempre rimaste a connotare un sound ineguagliabile, e la Compagnia ha continuato a tenere fede ai valori originari di riscatto sociale e di solidarietà verso gli ultimi: «Quello che ho tentato di fare con gli elementi della Compagnia di Canto Popolare – dice De Simone – è che esprimessero le frustrazioni, l’angoscia, il senso di repressione che esiste in tutta la gente che ha avuto una determinata esistenza. In questo senso ognuno individualmente esprime il proprio dramma: per esempio Giuseppe, Giovanni, hanno avuto un’infanzia difficile, hanno avuto quelle stesse repressioni, quelle stesse angosce che ha avuto il mondo proletario e sottoproletario napoletano e il mondo contadino. Il linguaggio dei canti permette di esprimere queste tensioni, queste angosce. Un canto si può imparare, un modo di cantare si può anche imparare, ciò che non si può imparare è esprimere un dramma che internamente non si ha» [A. Pesce p. 123].

Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli