Rosa Balistreri (da https://www.lecodelsud.it/ lopera- rosa-balistreri- nel-registro-dei-beni-immateriali)

Voce di mille colori, di ampia estensione, ora forte e possente, ora leggera e delicata, aspra e tenerissima, capace d’esprimere ogni sfumatura d’una sensibilità acutissima e versatile […]. Il fuoco degli occhi, la sua stessa anima splendente, nessun pirata o diavolo poté mai rubargliela”.

Paolo Emilio Caparezza

 

Rosa Balistreri (Licata, 21 marzo 1927 – Palermo, 20 settembre 1990) è una figura quasi mitologica, collocabile in un qualche Olimpo di divinità o di eroine, sia dei giorni nostri che di un passato arcaico. Perché a lei è legata la rinascita del canto popolare siciliano, antichissimo come è antico il popolo siciliano. Ma lei è anche esempio di donna emancipata che non si è lasciata vincere dalle prove devastanti di una vita atroce, e quella vita l’ha presa per i capelli e l’ha tirata su.

Sicilia, terra di dominio di tanti popoli, di greci e di romani, di cartaginesi e arabi, di normanni, francesi e spagnoli. Dove ogni dominatore si è integrato con i dominati. Dove si sono mescolate le parlate, i dialetti, le filastrocche, le leggende e da questa mescolanza è nata la ricchezza di una cultura e di una lingua capaci di esprimere tutti i sentimenti dell’animo umano: l’amore, la rabbia, l’angoscia. Così, in musica, si sono alternate le dolci ninne nanne con le canzoni funerarie, le serenate degli innamorati ai canti dei lavoratori, dei contadini, dei minatori. Canzoni di cui si è perso il nome dell’autore, cantate da tutti e tramandate di generazione in generazione, che sono diventate la voce del popolo. Testimonianza di usi e costumi, di credenze, di abitudini, documento di vita quotidiana oltre che racconto di eventi storici e politici.

Per questo a Rosa si deve tanto. Il merito di aver recuperato quei canti della tradizione, girando tra le diverse zone della Sicilia, ascoltando e raccogliendo. Riscrivendo i versi e riportandone per iscritto la musica. Preservando così il grande patrimonio della canzone popolare siciliana. Ma a lei si deve anche il merito di aver saputo reagire a terribili violenze e ingiustizie, perpetrate da uomini padri e padroni in una Sicilia retrograda che sviliva la condizione femminile. Non si è mai sottomessa, Rosa, e ha fatto del canto la sua battaglia, la sua ribellione, nuda e cruda, riscatto di una vita indicibile. Nulla di intellettuale o di intellettualistico come per chi quel movimento, il folk revival, lo intendeva sul piano ideologico. Un progetto anche politico, di riaffermazione di valori e di una cultura popolare che in quegli anni rischiava di scomparire. No, per Rosa è stato soprattutto la sua personale resistenza, la motivazione a non cedere, la vita da vincere. Perché quella sua vita avrebbe sfinito ogni altro essere umano.

Rosa con Renato Guttuso e Leonardo Sciascia (https://www.sicilymag.it/su-rai-storia-italiani-di-paolo-mieli-ricorda-rosa-balistreri.htm)

Rosa nasce a Licata, quartiere della Molina, la povertà fatta luogo. La sua casa è un unico locale al pianterreno. In quella stanza si dorme, si cucina, si mangia, si fanno i bisogni: padre, madre, fratelli, sorelle. La notte e il giorno. Ma fuori da quel tugurio Rosa canta e balla, scalza e felice. Evade così dalla povertà, dalla rabbia, dalla fatica. Da sempre, fin da quando è bambina.

La sua famiglia si spezza la schiena da intere generazioni, le donne soprattutto. Sua nonna, a trent’anni, è vedova. Con nove figli da allevare. Sua madre, a quattordici, è già sposa di un uomo che neanche conosce. Ma è così che funziona: ci sono le comari, le sensali, le ruffiane che di mestiere combinano matrimoni. E alla famiglia va più che bene, che una figlia si sposi il prima possibile. Con chi, non importa. Poi, tra liti, urla, fame e botte nascono cinque figli, fratelli e sorelle di Rosa. Il più piccolo, Vincenzo, è paralitico. A lui dovrà badare Rosa, che è la maggiore. Come anche alle faccende domestiche. Niente scuola, subito al lavoro. Nei campi, a servizio presso le famiglie più agiate, o a salare le sarde.

La madre lavora dalla mattina alla sera: lucida mobili, impaglia sedie, confeziona scope da vendere per due soldi.

Il padre è un gran faticatore, un ebanista che realizza attrezzi di ogni tipo con le sue mani di bravo artigiano: pale, setacci, manici di zappa. Con quel lavoro si sposta di città in città insieme alla famiglia: di punto in bianco raccoglie i suoi arnesi su un carretto, moglie e figli, ed è pronto per partire. Da Licata a Palma, a Campobello, a Butera, per tutta la Sicilia. Quando trova una nuova città si ferma con la speranza di trovare del lavoro.

Ma il padre è anche un uomo violento, che muore di gelosia per la moglie. Guai se lei esce di casa senza permesso, o se si azzarda a guardare fuori dalla finestra che dà sull’abitazione di un vicino. Lui la scaraventa per terra e la riempie di botte. O prende una sega e le maciulla il braccio. O le dà così tanti calci nella pancia da farle perdere il sesto figlio. Che, infatti, nasce morto. Violento con la moglie e violento con i figli. Rosa prende le botte per i motivi più disparati, perché ritarda a portare a casa la spesa, perché vorrebbe giocare, perché vorrebbe cantare, o svagarsi come tutti i bambini.

Non c’è tempo per tutto questo, si parte già per una nuova meta: a Palma suo padre spera di trovare lavoro. Ma Palma è una città poverissima, con le strade piene di fango, immondizia dappertutto. Una tale sporcizia che ci si ammala facilmente di un’infezione agli occhi, il tracoma. Qualcosa si combina, ma non d’estate. Così suo padre, per non far morire di fame i figli, va a raccogliere le spighe del frumento. Ci va anche Rosa, un giorno, a schiantarsi la schiena sotto il sole, a raccogliere le spighe nel campo dei padroni. Uno di questi, vestito come un principe in sella a un cavallo, quel giorno fa loro la grazia di lasciargli raccogliere le spighe.

Rosa in un quadro di Andrea Carisi del 1992 (da http://www.irsap-agrigentum.it/ rosa_balistreri.html)

La fame è dura e perfino irriverente. Per fame va bene anche frequentare la chiesa. Quella di San Giuseppe, a Campobello di Licata dove il prete, per attirare i bambini, regala caramelle e panini con la mortadella. Che importa se in famiglia nessuno ha grande simpatia per la chiesa e se i figli Balistreri non vengono neppure battezzati e cresimati. Che importa, chi l’ha mai assaggiata la mortadella?

Per fame si va anche a fare l’elemosina. E Rosa non si vergogna di buttarsi addosso uno scialle e chiedere venti lire. Con venti lire si compra la pasta, l’olio e si mangia per un bel po’ di giorni.

È una gran festa quando a Campobello sbarcano gli americani. Distribuiscono davvero la cioccolata, i biscotti, le sigarette. Non ci possono credere che in quel sud Italia esista così tanta fame e miseria. Nemmeno bastano le loro scatolette a sfamare quella folla di disperati. Allora fanno saltare le serrature dei magazzini dei ricchi che le scorte le tengono nascoste, proprietari di aziende e di terre. E quelle dispense di olio, frumento, piselli, ceci per un po’ saziano l’intero paese.

Frank è un americano simpatico che ha puntato i suoi occhietti svegli su Rosa. Gli piace sentirla cantare e quando ascolta la sua voce gli vien naturale di battere le mani e sorriderle. Rosa si è fatta grandicella, è ben fatta e non passa inosservata. Vorrebbe sposarla, Frank, ma intanto vuole un assaggio delle grazie di Rosa. Lei non ci casca, se una donna laggiù perde la verginità prima del matrimonio nessun uomo mai la vorrà. Se un marito la prima notte di nozze trova una moglie così l’ammazza di botte. O l’abbandona a una vita da svergognata, che quasi è meglio buttarsi da una finestra e farla finita. E Frank, una volta in America, non le ha mai scritto neanche due righe. Addio sogno americano.

Si torna a Licata. Rosa è ora una ragazza e per guadagnare qualche lira va a servizio nelle case dei signori benestanti. A quindici anni con quei soldi si compra per la prima volta un paio di scarpe. È così felice che non c’è giorno che non canti. La miseria è un calcio allo stomaco, ma se Rosa canta i crampi li sente meno. Quando in paese c’è un matrimonio o un battesimo è Rosa che si va a chiamare per allietare la cerimonia e la festa. Anche se a suo padre non va che lei canti, per lui quel mestiere è come fare la prostituta. Invece Rosa si fa conoscere per la voce potente e melodiosa allo stesso tempo e a fine giornata le regalano fiori, bottiglie di vino, biscotti. Tanto ben di Dio.

A sedici anni però è ora di sposarsi e in famiglia si ingegnano per trovarle un marito. Zia Mariannina vorrebbe farle sposare suo figlio Angilinu, un bel giovane dai capelli ricci, ancora senza mestiere, ma che intanto sa suonare la chitarra. Angilinu è rispettoso, delicato e Rosa non la prende prima del matrimonio, neanche la bacia come lei vorrebbe. Bisogna aspettare. Rosa è contenta, ma quando è ora di andare in Municipio per fare le pubblicazioni salta tutto per aria. Perché zia Mariannina pretende da lei una dote: camicie, lenzuola, mutande. Ventiquattro per ogni tipo. Rosa di camicie ne ha una, quella che indossa tutti i giorni. Niente da fare, quel primo amore bisogna dimenticarlo: addio Angilinu.

Così, a diciassette anni le tocca sposare Gioacchino Torregrossa che lei chiamerà sempre Iachinazzu. Rosa non lo ha mai visto, ma guai a contestare la volontà paterna. Questo giovane non ha un mestiere fisso, e secondo Rosa è solo un “lagnusu, jucaturi, latru e ’mbriacuni” (pigro, giocatore, ladro e ubriacone) [Cantavere, Rosa Balistreri, p. 42]. Per fortuna non sono ancora sposati in chiesa e ognuno vive a casa sua. Rosa ci spera ancora che anche questo matrimonio vada a rotoli. Ma un giorno una zia la fa cascare in un tranello: le dice che Iachinazzu sta male, che deve correre a casa a soccorrerlo. Quando lei arriva, Iachinazzu sta benissimo, chiude la porta a chiave e si prende Rosa con la forza. In poco tempo le cresce la pancia e bisogna correre in chiesa per celebrare il matrimonio. Marito e moglie. Una vita fatta di violenze, di pugni e calci. Di lavori precari, quelli di Iachinazzu, più dedito al furto, al gioco che alla ricerca di un guadagno onesto. E di bicchieri di vino tracannati all’osteria, da cui torna ogni volta sempre più ubriaco e rabbioso. Una rabbia che regolarmente scarica su Rosa. Pugni, schiaffi, calci. Una volta la getta a terra con tanta violenza che lei, in attesa del loro figlio, dovrà metterlo al mondo già morto. Rosa vorrebbe farla finita con questa bestia d’uomo ma la costringono a tornarci insieme, perché una donna da sola, ormai compromessa, dove va? Così sistemano un letto in più nella casa di suo padre e quella notte stessa lui se la prende. Se la prende mentre dormono i suoi fratelli, se la prende di fianco ai suoi genitori. L’importante è che lei resti incinta di nuovo. E così accade, ma Iachinazzu non cambia e passa le giornate da scansafatiche, a bere in continuazione. Una volta torna dall’osteria che è uno schifo d’uomo, non solo è ubriaco ma i soldi per ubriacarsi li ha fatti saltar fuori dalla vendita del corredo della bambina che sta per nascere. Rosa non ci vede più e nel mezzo del litigio si ritrova tra le mani una lima, di quelle che usa suo padre, e gliela pianta nel collo. Poi corre dai carabinieri e si autodenuncia: “Ho ammazzato mio marito”. Invece Iacchinazzu ha solo una ferita, mentre a Rosa toccheranno sei mesi di carcere. A Iacchinazzu tolgono la podestà e Rosa davvero da questo momento non lo vedrà più. Di lui si sa che si perderà per diverso tempo nell’alcol sperando di dimenticare Rosa, fino a quando, molto tempo dopo, riuscirà a disintossicarsi.

Rosa trova lavoro in una vetreria a Licata, un impiego finalmente, ora che ha anche una bambina da allevare, Angela. Il padrone un giorno la fa chiamare nell’ufficio, la prende per le spalle, la butta contro il muro e fa i suoi comodi. Per la vergogna Rosa se ne deve andare, addio guadagni, addio progetto di una vita senza patire la fame. Così Rosa va a raccogliere lumache, fichi d’india, capperi. O va a salare le sarde: “Si travagliava dodici ore al giorno, in mezzo all’acqua, le mani col sale si spaccavano” [Cantavenere, Rosa Balistreri, p. 47]. Ci si compra pasta e pane con quei guadagni. Ma finiscono in fretta. Si fa di tutto per campare. Anche rubare una capra da un gregge di passaggio, scuoiarla e poi trovarci dentro il capretto vivo.

A Licata non c’è futuro e Rosa si convince che il lavoro si trova nelle grandi città. Così lascia la bambina alla madre e un giorno parte per Palermo.

La locandina di uno spettacolo del 2016 dell’Associazione Quarto Tempo su Rosa Balistreri (leggi su: http://www.giornalecittadinopress.it/rosa-la-cantatrice-del-sud-viaggio-nella-vita-nella-musica-rosa-balistreri/)

Viene assunta come serva in una famiglia di insegnanti con due figli grandi: uno è già all’università, studia per diventare medico, anche se è un po’ svogliato. Come se non bastasse, comincia a farle la corte, dice addirittura di volerla sposare: lui di buona famiglia si è follemente innamorato di lei, una servetta cresciuta in un tugurio. Lei gli crede e dopo poco aspetta un bambino. Il ragazzo allora le propone una soluzione alla loro precaria situazione: ci sono dei soldi nascosti nella camera della madre, basta che lei li prenda, così lui potrà aprirsi l’ambulatorio e loro potranno vivere insieme. La signora quando scopre il furto, naturalmente incolpa Rosa che è costretta a fuggire. La trovano immediatamente e l’arrestano: sette mesi all’Ucciardone. Rosa scoprirà poi che quei soldi erano serviti al giovane per pagarsi i debiti di gioco.

Esce dal carcere che si sente la più disonorata della terra. Sola, disperata. Le viene in aiuto una donna conosciuta proprio in quel penitenziario, una levatrice che la prende in casa in attesa del parto. Una notte arrivano le doglie, in fretta e furia si corre all’ospedale, intervento d’urgenza, ma niente da fare: un altro bambino le nasce morto.

Se qualunque altra donna sarebbe crollata, Rosa, invece, si solleva anche da questa ennesima batosta. Grazie soprattutto a un buon lavoro da governante dai conti Testa. Sono i giorni più belli che vive da tanto tempo. È qui, per merito della contessa, che Rosa ormai adulta, impara a leggere e a scrivere. Quando per la prima volta scrive il suo nome, le sembra di aver scalato la vetta più alta del mondo. Quante cose può imparare! Ma non può restare lì ancora per molto perché i bambini crescono e serve una governante più istruita. I Testa, però, prima di licenziarla, le trovano lavoro come sacrestana alla chiesa di Maria Santissima degli Agonizzanti, da monsignor Campanella. Il lavoro le pare sicuro e allora si organizza per trovare alloggio anche per suo fratello che, intanto, ha imparato il mestiere di calzolaio. Il guadagno è poco, ma un piatto di minestra c’è tutti i giorni.

Fino quando lei è a servizio di monsignor Campanella. Alla sua morte arriva un prete giovane che un giorno chiede a Rosa di aiutarlo a vestirsi, un altro le mette la mano sulla spalla, un altro le fa una carezza sul collo, fino a che una domenica le mani le vuol mettere dove vuole lui. Rosa lo manda a quel paese ed è la sua rovina. Perché quel prete le fa sapere che da lì se ne deve andare. Così lei toglie il disturbo, non prima, però, di spaccare tutte le cassette delle elemosine, raccogliendo una bella scorta di monetine: “Tutti i soldi dei santi – dirà –. Ma i santi non hanno bisogno di soldi e manco di oro e manco di anelli. I soldi servono per noi, per mangiare, per comprarci le scarpe” [Cantavenere, Rosa Balistreri, p. 56].

Rosa vuole scappare il più lontano possibile, è stanca di tutte quelle violenze, stanca delle ingiustizie, dei maltrattamenti. Prende il fratello Vincenzo, prende la bambina, i loro quattro stracci e sale su un treno. Ci scenderà quando il convoglio sarà arrivato all’ultima fermata. Ultima fermata: Firenze.

Firenze è tutta un’altra vita. A Firenze ci sono le bottiglie di latte la mattina fuori dalle porte. A Firenze Rosa è una donna giovane e bella. Che trova lavoro subito come serva. E un alloggio per loro tre. Poi farà arrivare anche l’intera famiglia: madre, padre e le sorelle Maria e Angela. Trovano tutti lavoro, sembra impossibile che la vita possa anche sorridere. Invece no, perché la vita su Rosa si deve accanire e basta. Sua sorella Maria sale dalla Sicilia con i bambini. Là ha lasciato il marito violento. Arriva che è piena di lividi, ma come Rosa non si abbatte e trova lavoro. Un giorno le piomba in casa quel marito, grida e pretende che ritorni in Sicilia con lui. La bambina piange, lei gli risponde che non ci pensa neanche, lui ha un coltello in tasca, glielo pianta nel collo e scappa. Maria muore subito. Lui viene arrestato e processato. I bambini resteranno in casa di Rosa e sulla famiglia crolla addosso tutta la disperazione di questo mondo.

È il padre a non sopportarla più e una mattina sarà proprio Rosa a trovarlo impiccato davanti a un palazzo sul Lungarno. Che sia stato per la morte di Maria o per le voci che giravano sulle sue figlie che per guadagnare qualche soldo facevano la vita, non si può sapere. Certo è che quella di Rosa è un’esistenza senza pace, dove la violenza di uomini padri e padroni, che ancora non si chiama femminicidio, è un contagio che si lascia dietro una scia di morti e moribondi. Da quella violenza e da tutto quel dolore Rosa riemerge. E quel tormento sarà l’ingrediente principale del suo canto. Di quello strazio si colorerà la sua voce. Una voce che saprà farsi anche clemente, e perdonare perfino quel suo cognato, ridotto a una nullità, quando canterà per lui e per i carcerati del penitenziario di Barcellona Pozzo di Gotto.

Così Rosa reagisce un’altra volta. Firenze è una città vivace, le offre molte possibilità in quei primi anni Sessanta. I tempi sono cambiati e si è lontani anni luce da Licata. Qui addirittura si può andare a ballare con i ragazzi del quartiere la domenica pomeriggio. Farci anche l’amore, senza per questo doversi sentire proprietà di nessuno. Tra le persone che Rosa frequenta c’è anche il pittore Manfredi Lombardi, un uomo colto ed elegante che poco dopo le chiede di andare a vivere con lui. Lei, intanto, è diventata una donna emancipata, perché ha aperto un suo negozietto di frutta e verdura, si guadagna un suo stipendio e può vivere una vita finalmente dignitosa. Ma Rosa oltre a vendere la verdura non smette mai di cantare. E questa sua voce tanto piace a Manfredi che proprio lui la presenta alle persone importanti di Firenze. Che parlano di lei a chi di musica si intende, fino a che il suo nome arriva a Michele Straniero e alla Ricordi a Milano, dove incide il suo primo disco. Rosa viene ripagata in quel poco tempo dei tormenti di una vita di infinite disgrazie. E quasi non le sembra vero. Che lei, la sua vita e la sua voce interessino a qualcuno. A Firenze aveva imparato le canzoni della tradizione della sua terra, grazie a Giuseppe Ganduscio, poeta riberese. Canzoni che il ricercatore ed etnomusicologo Alberto Favara aveva recuperato e raccolto nel tempo nel Corpus di musiche popolari siciliane. Altre canzoni le imparerà da Paolo Emilio Caparezza a Palermo.

Poi conoscerà il poeta Ignazio Buttitta e Ciccio Busacca che da tempo stavano girando l’Italia con i loro spettacoli di poesie e canzoni siciliane. Ora lo capisce: anche lei è una cantastorie e quella è la sua strada, la cantatrice del Sud. Saverio Bueno le insegna a suonare la chitarra e in poco tempo Rosa sarà Rosa Balistreri, la cantautrice dalla voce potente e intensa capace di incantare tanta gente raccontando le storie della sua terra. Così comincerà a documentarsi, a studiare il canto siciliano sui libri degli intellettuali e dei poeti amici. Col tempo quei libri diventeranno una raccolta fornitissima che lei stessa donerà alla biblioteca comunale di Licata. Libri di studiosi come Lionardo Vigo, Giuseppe Pitrè, Salvatore Salomone Marino, Francesco Paolo Frontini. Su queste raccolte Rosa studia, impara e poi sceglie i canti da cantare, i temi da divulgare, semplicemente con la sua voce e una chitarra. Gente sempre più numerosa va ad ascoltarla, soprattutto dopo la sua partecipazione allo spettacolo di Dario Fo Ci ragiono e canto (1966). Uno spettacolo di cantastorie provenienti da tutta Italia. Fo stesso la sceglie dopo aver ascoltato una sua audizione: ecco la voce della Sicilia. La prima è al Teatro La Pergola di Firenze e Rosa si deve fare coraggio per affrontare tutto quel pubblico: “Ro’ – si dice – ricordati del porcile di via Martinez, di Iachinazzu, della violenza della vetreria, del prete malandrino di Palermo. La fame, le ingiustizie, il carcere” [Cantavenere, Rosa Balistreri, p.67]. Ed è tutto questo che viene fuori dalla sua voce: la rabbia, la violenza, ma anche la dolcezza, la vita nonostante tutto, la forza di rialzarsi e di ricominciare, l’amore. Tra i tanti canti, infatti, c’è Accattari vurria na virrinedda, storia di un uomo innamorato che vorrebbe avere un punteruolo per bucherellare la porta di casa dell’amata e vederla di notte quando dorme, bella da far impallidire i fiori.

Il lavoro in teatro la rende consapevole delle proprie capacità. Ora Rosa è l’artista, la cantautrice, la studiosa della canzone popolare siciliana. Che canta degli emarginati, dei lavoratori, dello sfruttamento, delle vite degli ultimi della Terra. Canta di egualitarismo sociale, di emancipazione femminile.

Tutti temi che si conciliano con quelli delineati nei programmi del Partito Comunista Italiano del dopoguerra, orientati alla difesa delle minoranze e alla valorizzazione della cultura popolare. Rosa vi entrerà in contatto grazie ai poeti e intellettuali che frequenta e sempre canterà quel mondo degli sfruttati, dei lavoratori che raccolgono olive, dei minatori, della povera gente della Sicilia, dei jurnatari, dei pescatori.

Guarda chi vita fa lu zappaturi è un canto sulla fatica del bracciante che notte e giorno lavora nei campi, suda e non ha pace. Parte di notte e torna all’imbrunire, d’inverno all’acqua e d’estate all’afa.

Anche A tirannia è un canto che condanna la vita infame di chi vive in povertà, eternamente sottomesso da chi, più forte, da sempre invade e annienta la Sicilia:

Qui sotto, in questo inferno, poveretti/noi siamo condannati a subire tirannia./La tirannia sottomette/ l’abuso e il potere sfruttano e annientano.

Sant’Agata, ch’é àutu lu suli è una preghiera a Sant’Agata perché faccia calare il sole e finire la giornata di lavoro, così da lenire la fatica dei poveri jurnàtari.

Lavoratori a giornata, braccianti agricoli, poveri pescatori. Canto di pesca è il lamento disperato di un pescatore dedito alla pesca del tonno che si vede distrutte le reti. Vede i tonni nuotare lontano e con la sua barca non li potrà raggiungere. Così piange la sua sfortuna e la sua miseria.

E lu suli ntinni ntinni è invece una canzone di rivalsa dei jurnatàri contro il padrone che li paga due soldi. Se ne scappano dopo aver preso a botte il guardiano, ma chi si ribella al potere di padroni e mafiosi è costretto a fuggire dalla propria terra, lasciando anche il proprio amore:

Se me ne vado io/qui non torno più no no./La colpa è di tua madre/che non ti ha voluto maritare.

U pumu, canzone desolata di una giovane che aspetta ciò che non arriva mai, e una mela è il desiderio di una vita che si appaga anche di poco:

Pane e cipolla condito con niente/ questo è il piatto della mia gente/solo alle feste si mangia la carne / il desiderio di una mela cresceva con me./ In questa Terra scordata da Dio e dai santi/ dove in mano ci resta quello che piangi /tutta la vita sempre aspettare aspettare ciò che non arriva mai.

U cuntadinu sutta lu zappuni è una preghiera dello zappatore, che si spezza la schiena tutto il giorno, subisce pene e soprusi dai padroni, ma lavora onestamente ed è lui che manda avanti il mondo.

La piccatura, invece, racconta dello zolfataro che passa la giornata chino nella miniera a picchiare e picchiare. Solo fatica e sfortuna ha dalla vita:

E batti, batti batti surfataru/ca lu pani è troppu amaru/e lu ventri da minera/ti po’ dari chistu cca.

Nel repertorio di Rosa ci sono anche molte canzoni dedicate ai carcerati, diverse raccolte in Noi siamo nell’inferno carcerati (1974, Fonit Cetra). Lei stessa carcerata, racconta con la voce strozzata dalla sofferenza e dalla rabbia storie durissime di vita nelle galere. Di uomini condannati ingiustamente che gridano la loro disperazione come in Buttana di to mà galera sugnu:

Se Dio vuole ed esco da questo buco/Risposta devo dare agli infami/Dovranno passare questi ventinove anni/Undici mesi e ventinove giorni.

O di chi nel carcere ha perso tutto, anche gli affetti, anche il ricordo della vita là fuori. Tanto vale morire, come in Chista la vuci mia.

Cuteddu è il grido soffocato di un carcerato che parla del suo coltello. È così intossicato che quel che tocca diventa piaga. Fabbricato nell’inferno, serve a vendicare il tradimento.

Judici ca liggi studiati è, invece, un’invocazione ai giudici che condannano alla pena del carcere. Per sapere dove si trovi l’inferno basta chiedere ai vecchi carcerati, loro lo sanno: l’inferno si trova in carcere.

Ma l’argomento su cui Rosa vuole richiamare l’attenzione è soprattutto la condanna della mafia. Diverse canzoni sono una dichiarazione di netto rifiuto del sistema mafioso, basato sul ricatto, sul pizzo da pagare, sulla violenza, i racket, la morte. Una denuncia che Rosa porterà sempre in giro per tutto il mondo. La mafia che Rosa canta ha tante facce: è anche nello sfruttamento dei lavoratori della terra da parte dei grandi proprietari. I proprietari terrieri con i caporali che incutono terrore e distribuiscono miseria tra i poveri lavoratori a giornata. È nella Sicilia del passato e in quella del presente.

In La Sicilia avi ’n patruni, Rosa canta la sua terra straziata, spopolata, dominata, impoverita, sfruttata. Che ha paura di reagire e spera che la sua sorte cambi.

Poi ci sono le ballate, le canzoni che raccontano di fatti reali, storie della Sicilia per bene, di chi si è impegnato in una battaglia contro ingiustizie e violenze e ne è rimasto ucciso.

Lamentu pi la morti di Turiddu Carnevali è la storia di Salvatore Carnevale, sindacalista, capo della lotta dei braccianti agricoli contro il latifondo. Ucciso il 16 maggio 1955 da sicari dei latifondisti che oggi chiameremmo mafiosi. La poesia di Ignazio Buttitta è cantata anche dal grande Ciccio Busacca.

La Ballata pi Peppi Fava è dedicata a Giuseppe Fava scrittore, giornalista, drammaturgo, saggista e sceneggiatore italiano, assassinato da Cosa Nostra il 5 gennaio 1984:

Una lupara in quella notte /gli bruciò le penne e le ali /e non so se è miracolo/se perde e non può volare./La Sicilia e la Mafia sono cose /differenti, per natura differenti /come dire spine e rose.

La Ballata del prefetto Mori racconta di Cesare Primo Mori che, in periodo fascista, si batté per contrastare lo strapotere della mafia.

Il regista Pasquale Squitieri ne ha fatto un ritratto in Il prefetto di ferro, film girato nel 1977, e la canzone di Rosa ne è anche la colonna sonora:

Il testo, scritto da Ignazio Buttitta, è un fortissimo grido di denuncia mai così diretto:

A me piange il cuore, ora che finito di cantare/questa storia vera – se penso che la mafia è ancora al potere/e disonora questa terra onesta che non la vuole, ma vuole/pane, lavoro, libertà, giustizie e scuole./ E no alla mafia! No alla infame legge della lupara!/e no all’onore! Onore e gloria a chi ruba e spara!/Questo gridiamo con la nostra voce che risuscita i morti/che siamo stanchi, e vogliamo cambiar vita e destino.

La mafia è anche dentro la Chiesa. La mafia, infatti, usa la lupara e la Chiesa il crocefisso per opprimere il proletariato. Mafia e parrini:

Mafia e preti/si son data la mano/Uno alza la croce,/l’altro prende la mira e spara/Uno minaccia l’inferno/e l’altro la lupara.

Non tutti i preti sono così, come vengono descritti in queste canzoni. Non era così don Pino Puglisi che svolgeva attività educativa nel malfamato quartiere Brancaccio a Palermo, ucciso dalla mafia il 15 settembre 1993 per non aver ceduto. Per aver sempre rappresentato una Chiesa diversa che non nasconde i mafiosi latitanti, che non stringe la mano al potere corrotto [Cfr. Nicolò La Perna, Rosa Balistreri. Rusidda a Licatisa, p. 45].

E Rosa, con un gran coraggio, che è anche il suo spirito di civiltà, con queste canzoni comincia una lunga tournée in giro per l’Italia. Tanti successi e importanti riconoscimenti. Chi l’avrebbe immaginato che una vita c’era anche per lei? Ma la tragedia è sempre dietro l’angolo e, infatti, al ritorno Rosa scopre che Manfredi l’ha tradita con un’altra donna. Ora non ha nemmeno più una casa. E neanche il suo negozietto, ceduto per investire nella musica. A sopportare l’ennesimo pugno nello stomaco Rosa non se la sente più. Prenderà una scatola di pillole e le ingoierà tutte. Ma senza riuscire a morire, salvata per miracolo. La vita in lei resiste e Rosa trasformerà tutto quel dolore nella linfa del suo talento.

Anche la nascita del nipote Luca, nato dalla figlia Angela, le dà la voglia di rimettersi a cantare. Ma non più al Nord. È al Sud che deve far conoscere la sua voce e la sua storia. Che è la storia di quella parte di paese dimenticato da Dio.

Torna in Sicilia, Rosa, che è il 1970. Torna a Palermo come un’artista di successo, dopo aver girato l’Italia con i suoi spettacoli, dopo essere stata anche in televisione. Torna a Palermo e trova intellettuali, artisti, importanti uomini politici che vogliono conoscerla: Renato Guttuso, Leonardo Sciascia, Cesare Terranova, Pio La Torre, Roberto Leydi. A Palermo le viene perfino donato un appartamento, per onorare il suo lavoro di cantautrice. Per tutto l’impego di ricerca sulla canzone siciliana, che ha permesso di far conoscere la cultura della Sicilia nel mondo.

Spesso va a trovare Guttuso, nel grande palazzo del centro storico di Palermo, e ogni volta lui le fa dono di uno schizzo. Che Rosa vende e con quei soldi ci vive un mese. Gira nelle piazze della Sicilia e canta per gli emigrati che in estate tornano al paese. Il Pci le organizza le serate, ma i guadagni sono appena sufficienti per campare. Eppure è così felice di cantare per loro: canzoni di lotta, storie di minatori, di zolfatari, di gente umiliata dalla vita. Gente come Rosa, che la vita l’ha massacrata. Ma tante sono anche le canzoni che Rosa reinterpreta dal repertorio dei canti religiosi della tradizione. Li ha presi, ritrovati sui testi dei ricercatori, ne ha soffiato via la polvere donando loro nuova vita. Canzoni natalizie, canzoni del Venerdì Santo, ninne nanne. Canzoni come La notti di Natali, uno dei più antichi e conosciuti canti natalizi siciliani.

E poi Maria di Gesù, canto religioso che ricorda il passaggio delle processioni di monache e novizie nei paesi durante certe festività. Come a Licata quando, in occasione della festa di Sant’Angelo, si portava in giro per le vie cittadine l’urna del santo, sorretta da marinai seguiti dal corteo.

Lu verbu è l’unica preghiera che il padre di Rosa conosce e fa recitare ai suoi figli nelle notti di temporale. È la religiosità semplice della povera gente che Rosa incarna con questi canti, è la preghiera degli ultimi che si rivolgono a Dio senza intermediari:

La parola di Dio conosco /e quella debbo recitare, il Verbo /di Nostro Signore fattosi carne/Sopra un tronco di croce /dovette morire/per salvare noi peccatori.

Vènniri santu, Vènniri matinu, è un canto del Venerdì Santo, con il ricordo della Veronica e del suo velo dove si imprime il volto sanguinante di Cristo. È un episodio della salita al Calvario di Gesù Cristo rimasto molto vivo nella religiosità popolare e che anche Rosa rievoca.

Rosa canta, ma intanto continua anche la sua esperienza in teatro. Partecipa a La rosa di zolfo (1968) al Teatro stabile di Catania, regia di Nando Greco. Interpreta Rosalia, una donna forte e bellissima, zolfatara a amante appassionata del brigante nobile Petrosino.

Poi La ballata del sale di Salvo Licata (1978), regia di Maurizio Scaparro per Teatro Biondo di Palermo, uno spettacolo con musiche di Mario Modestini sui canti di mare e dei tonnaroli con testi ripresi dal Corpus del Favara. Lei è straordinaria in La ballata del sale.

Degli stessi autori è anche lo spettacolo Oh Bambulè.

E poi La lupa (1979), spettacolo teatrale sul testo di Giovanni Verga. Nella parte della protagonista la magistrale Anna Proclemer. Rosa recita la parte di zia Filomena e fa la cantastorie. Partecipa anche a La lunga notte di Medea al fianco di Piera degli Esposti e in La fame e la peste (1981) di Salvo Licata e Buela (1982) della Fondazione Biondo di Palermo.

Anche nelle Orestiadi a Gibellina nel 1984, ’85, ’86, festival internazionale di teatro classico, riecheggia la voce di Rosa. Sia nello spettacolo Agamannone, nelle Coefori e infine in Le Eumenidi. La sua presenza dà lustro a tutto l’evento. L’ultimo spettacolo a cui partecipa è scritto da Ignazio Buttitta ed è U curtigghiu di Raunisi. Una storia che vede protagonista povera agente alla ricerca di espedienti per sopravvivere [Cfr. Nicolò La Perna, Rosa Balistreri. Rusidda a Licatisa, pp. 80-84].

Tante soddisfazioni a cui si aggiungono anche le tournée all’estero. Negli Stati Uniti ci sono emigrati siciliani che si emozionano per le sue canzoni. Impazziscono, ridono, piangono, ballano, si arrabbiano. Rosa per loro intona: Addiu bedda Sicilia, canto di emigrati che devono abbandonare una Sicilia infame che dà lavoro per poche lire:

Addiu, bedda Sicilia, Palermu capitale. Ci stannu brava genti, li ccchiù carpgna e ’nfami 

(Addio, bella Sicilia, Palermo capitale,/ah, ci abitano brave persone/e le più carogna ed infami).

E loro cantano, anche se le storie sono dolorose, loro cantano. Ci sono i siciliani da ogni parte della Sicilia lì in America e con Rosa sembra di tornare a casa per un po’. È una Sicilia bella e generosa che la riempie di regali quando è ora di partire.

Ma Rosa canta anche dove di siciliano non ce n’è nemmeno uno. Come in Svezia dove le sembra impossibile che si possa capire il significato profondo di ciò che lei canta. E invece si commuovono e la riempiono di complimenti.

La Sicilia è la sua terra e cantare per i compaesani le dà un’emozione enorme al ritorno dai suoi viaggi. Ma in Sicilia Rosa è rimasta sola, pochi amici ancora in vita, alcuni barbaramente uccisi dalla mafia come Pio La Torre o Cesare Terranova, e anche i familiari hanno preferito restare al nord. “In Sicilia non c’è avvenire – dirà –. O ti arruffiani con qualche onorevole, con qualche monsignore, o muori di fame” [Cantavenere, Rosa Balistreri, p.78]. Così sentirà forte la nostalgia della Toscana, la terra dove ha imparato a leggere e scrivere, dove ha imparato a suonare la chitarra ed è cominciata davvero al sua carriera. Dove è iniziato il riscatto di una vita di miseria e di umiliazioni. Dove ritornerà spesso e dove oggi, al cimitero di Trespiano, sono conservate le sue spoglie.

Rosa Balistreri è esempio di donna coraggiosa che ha saputo riscattarsi da una vita di violenze e povertà. Che ha saputo riabilitare una vita umiliata, mostrando tutta la sua intraprendenza nel voler autodeterminare il proprio destino. Anche rischiando di sbattere la testa contro muri, contro portoni chiusi, contro le sbarre di una cella. Il suo riscatto è passato attraverso una voce stridente, straziante che ha dato la parola agli ultimi, ai poveri lavoratori, ai braccianti, agli operai, ai disoccupati, alle donne violate e sfruttate. Con la speranza che, prima o poi, quelle parole le avrebbero gridate tutti a voce spiegata perché l’uguaglianza tra esseri umani è la prima regola per una convivenza di pace. Rosa non ha mai avuto paura di denunciare le ingiustizie, le violenze, le prevaricazioni, della mafia come dei preti, dei nobili come dei proprietari terrieri. È stata una protesta vivente, e la sua storia, la sua figura, la sua voce resteranno per sempre una chiarissima denuncia lanciata contro ogni sopraffazione.

Il poeta Ignazio Buttitta così la descrive: “Rosa Balistreri è un personaggio favoloso. Un dramma, un romanzo, un film senza autore. È un personaggio che cammina su un filo di cotone, un personaggio che ha un cuore per tutti”.

E da queste parole, Rai Storia ha realizzato il documentario Rosa Balistreri, Un film senza autore, prima parte:

e seconda parte.

Lei, donna forte delle tragedie patite, resiliente e tenace, il suo ritratto lo ha fissato in Rosa canta e cunta:

Sono venuta al mondo quando il Vossignoria/si profferiva ad ogni angolo di strada./Tempi di abusi, di fame e di guerra,/sono cresciuta in mezzo ai malandati./Lacrime mute ne ho piante, e quante,/la mia innocenza se la sono divisa in tanti/La cattiva gente, i prepotenti,/sono tanti e tanti in questa società./Non è l’amore che cresce ad ogni angolo/ma il favore che elargisce chi comanda/apro i pugni, conto le dita/resto chi sono, scorro la vita.

Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli