Da http://tottusinpari.blog.tiscali.it/2014/09/21/ reminescenze-di-maria-carta-vent%E2%80% 99anni-senza-%E2%80%9Csa-oghe%E2%80%9D/

Da noi da sempre la gente vive di poco, quasi di niente. La nostra povertà è indicibile. Io da bambina andavo a piedi nudi in campagna a lavorare; canto perché mia nonna cantava, e sulle tanche l’uomo cantava contro la solitudine. Mio padre è morto di povertà e io sono salita sul palco in piazza a cantare, mi davano cento lire, cantavo davanti a folle di pastori, sul palco di cento paesi”.

Maria Carta

Maria Carta è la storia della Sardegna. La sua voce magnetica rievoca un passato antico di suoni, miti, leggende che sprofondano nel cuore della cultura più popolare di questa terra. Con il suo folclore incantato, di ninne nanne e liturgie, di gosos, mottetti e canti d’amore, di trallallera e antiche danze, di canti di morte e disisperade. È intrisa del buio profondo delle grotte e del loro silenzio. Del sole infuocato e dell’ombra nerissima. Lei, immagine ieratica, sacerdotessa dalla voce miracolosa che commuove. Lei, cantante, studiosa, ricercatrice di canti tradizionali, ne ha raccolti e studiati in quantità, preservandoli dalla sparizione. Lei, con la sua voce, li ha salvati. Per questo, ma anche per altri mille motivi, lei è diventata (ed è tuttora) simbolo per molte donne: di tenacia e coraggio, di rivalsa. Per aver riscattato attraverso la cultura, un’infanzia di stenti. Vissuta tra la fatica del lavoro nei campi e la solitudine di un territorio selvaggio e isolato, che per molto tempo non ha avuto nulla da darle.

Sìligo, nell’antica regione del Meilogu, in provincia di Sassari, è la sua infanzia.

Maria Carta qui nasce il 24 giugno 1934. È una bambina piccolissima, magra da fare spavento, con gli occhi grandi e scuri. I genitori, due contadini, la battezzano Maria Giovanna Agostina. Giovanna in onore di san Giovanni e Agostina per ricordare la nonna. A Sìligo si lavora la terra per come si può, si combatte ogni giorno con la miseria. Come fa suo padre, con le mani distrutte dal freddo e dalla disperazione. “Eravamo poveri. A gennaio la miseria implorava nel vento. E mio padre non sapeva come farci vivere” [poesia di Maria Carta in E. Garau, Maria Carta, p. 15].

Ancora bambina rimane subito orfana. La zia Minnia, sorella della madre, si ritrova a crescere una nidiata di bambini: Maria, la sorella Tonina, il fratello piccolissimo Gigi. Maria è piena di coraggio e a otto anni decide che è tempo di andare a lavorare per aiutare in casa. Si trasferisce dalla sua madrina e trova un impiego come servetta. D’inverno si sarchia il grano, si fila la lana, si lavano i panni al fiume, si raccolgono le olive: “Andavo a giornata con le raccoglitrici – dice –: frustavano gli alberi e le olive grandinavano a terra, io con la mia mano di bambina ero velocissima e a sera avevo colmato quattro misure, come le donne grandi” [Maria Carta, p.15].

Per lavare si va tutte al fiume. Sveglia prima dell’alba, due chilometri a piedi, con la cesta dei panni in testa. Mentre si cammina si canta, per la gioia dei pastori che passano per strada. A Mesumundo ci sono delle vasche per lavare e lo spazio per stendere. Se c’è bel tempo è una gran fortuna perché si aspetta che i panni si asciughino. D’inverno, invece, bisogna spaccare il ghiaccio con le pietre per liberare i panni. Le mani si fanno piene di tagli. D’inverno vengono anche i geloni ai piedi e Maria sogna mucchi di scarpe. Se piove è ancora peggio, perché bisogna tornare a casa con la cesta di panni bagnati, pesantissimi sulla testa. Per la fatica non si arriva più. Ma non c’è nulla di più atroce che andare al fiume e sentirsi osservate. Ci sono le Panas, le donne morte di parto che tornano a lavare i panni del loro bambino. La magia circonda l’infanzia di Maria e della Sardegna, soprattutto nelle località più aride e asciutte. Dove a un certo momento si presenta la siccità. Allora gli uomini si fermano, guardano la terra creparsi e stringono le mani. L’antenata Delogu, morta da tempo, è la donna più vecchia di tutto il paese. A lei Maria grida: “Se non mi dai l’acqua ti uccido”. Quando è agosto, invece, il sole brucia il paese e i bambini guai a stare per strada. Si deve correre dentro i portoni, nei cortili all’ombra per non morire inceneriti. Le madri osservano e proteggono ogni bambino. In Sardegna si vive isolati in un mondo primitivo e magico, di leggende e tradizioni, di sapienza e misteri, dove le donne sono madri che sorvegliano.

Canto rituale (1975) è un poema in versi in cui Maria racconterà la sua infanzia di povertà. Ma anche i miracoli quotidiani di quel mondo incantato immerso nella natura selvaggia. È una specie di Spoon River sarda, in cui si celebrano i rituali contadini, le festività, la memoria del territorio attraverso le storie di morti, uomini e donne che in questo luogo montuoso e scabro non vogliono che il loro ricordo resti sepolto. Così, ci pensa Maria a ridare loro una vita.

La domenica si va in chiesa e Maria non vede l’ora perché può cantare. Ha una voce impressionante, grande e scura come una caverna. Il parroco del paese le insegna la messa in latino e lei impara quel canto gregoriano che non dimenticherà mai.

Poi canterà nelle piazze durante le sagre paesane. Ci sono i los cantadores che intonano i canti sardi in quelle occasioni. Da loro Maria ne impara tanti, tutti quelli della tradizione logudorese che continuerà a interpretare, rielaborare, riarrangiare per tutta la vita. Canti di morte e di gioia.

Tra questi il Canto in Re, storia di un amore triste, poi la Ninna nanna corsicana e i Muttos de Amore, antichissimi canti amorosi.

La madrina si risposa e da questo matrimonio Maria acquisisce due fratelli, Tino e Rina. Lei intanto è diventata ragazza, ed è così bella che nel 1957 vince il concorso Miss Sardegna. Ha ventitré anni, i capelli corti e nerissimi, pettinati come le dive di Hollywood, un trucco leggero. È bella con poco, ma quel poco toglie il respiro. Questo premio la fa sentire emancipata, in quell’isola dimenticata da Dio. Infatti, subito prende la patente. Vuole viaggiare, spostarsi di città in città, essere padrona della propria vita.

Decide di mettersi alla prova e nel 1958 lascia la Sardegna per la grande capitale. Non è facile, e all’inizio va a raccogliere le foglie di tabacco, confeziona candele di cera. Poi conosce colui che la sposerà e ne diventerà il Pigmalione. Nel 1960 è moglie di Salvatore Laurani, sceneggiatore e uomo di cinema. Ma in questo momento Maria non è interessata alla recitazione, vuole conoscere di più della musica. A Roma c’è il Centro Studi di Musica Popolare dell’Accademia Santa Cecilia diretto da Diego Carpitella. Grazie a questi studi diventa più consapevole delle sue possibilità come interprete. Ma soprattutto della grandezza del canto sardo. Comincia a ricercarne le tracce, registra, cataloga, studia, percorre le varie località di Logudoro, la Gallura, i Campidani e le Barbagie. Porta con sé un registratore a bobina e registra tutto quello di cui i vecchi dei paesi le fanno dono: racconti, canzoni, suoni, leggende. “Io accendevo il registratore – dice – e mi rendevo conto che stavo salvando centinaia di anni di cultura, di memoria collettiva che sarebbe andata perduta […]. Quando si andava a una festa […] io andavo col mio registratorino, a registrare le gare di canto” [Maria Carta, p. 25]. Cantacronache, anni prima, avevano raccolto i canti di protesta, i canti di lavoro, di lotta, i canti anarchici del secolo precedente, ascoltando i vecchi dei paesi. Poi il Nuovo Canzoniere Italiano con le edizioni Avanti!, i Dischi del Sole e i diversi spettacoli Pietà l’è morta e Bella ciao avevano posto le basi di un folk revival stilisticamente fedele al linguaggio popolare. Ma anche Diego Carpitella con Ernesto de Martino, già del 1952 aveva cominciato a raccogliere un’infinità di canti. E poi l’etnomusicologo statunitense Alan Lomax aveva condotto alcune campagne di registrazione sul campo dall’Alto Adige alla Sardegna. Ne era uscito un racconto magnifico della cultura popolare italiana. Di cui presto l’urbanizzazione e l’industrializzazione avrebbero cancellato i segni [Cfr. Plastino, La musica folk, p. 213].

Il lavoro di Maria è così straordinario che il marito trova il modo di metterla in contatto con Ennio Morricone che la presenta alla RCA. Nel 1971 esce il suo primo disco, un doppio album intitolato Paradiso in Re che si inserisce splendidamente nel filone del folk revival. In copertina le parole di Ennio Morricone ricordano quella fase di fermento musicale: “Non tralascio occasione di ricordare che i nostri maggiori tesori non sono ancora conosciuti e rischierebbero di essere ignorati da tutti se un ristretto numero di illustri specialisti non registrassero dalla viva voce del popolo le melodie che altrimenti col tempo andrebbero perdute. Polemicamente, di fronte all’invasione subita dalla musica di consumo italiana, dal folclore di altri paesi, cercai di rivendicare a noi la forza e il dovere di imporre il nostro folclore. […] La voce e i canti di Maria Carta si inseriscono luminosamente nel nuovo movimento del folk italiano [Maria Carta, p. 94]. Il disco comprende il magnifico Ave Maria, conosciuto anche come Deus ti salvet Maria, canto religioso del XIII secolo che, nella tradizione sardo logudorese, si rifà allo stile modale gregoriano. Inciderà poco dopo anche Diglielo al tuo Dio, tema tratto dallo sceneggiato televisivo Mosè con musica di Ennio Morricone.

Ora che il suo nome comincia a circolare, Maria vorrebbe tornare in Sardegna per cantare alle feste popolari, ma in questo trova ancora tanti ostacoli: “Ho avuto grosse difficoltà a inserirmi con quelli che cantavano in Sardegna – dirà –, perché allora il canto sardo era appannaggio esclusivo degli uomini. Ricordo che uno dei tanti cantadores che andavano per la maggiore disse: Che cosa vuole questa, viene dal Continente a rubarci il pane!” [Maria Carta, p. 26]. Anche dopo, quando col suo nome porterà la Sardegna nel mondo, polemizzeranno contro di lei accusandola di aver “culturizzato” il canto sardo per renderlo più commerciale, e che quel suo modo di cantare non aveva nulla di genuino, perché in Sardegna le donne non cantavano. Non capivano che lei stava nobilitando quel canto, elevandolo a patrimonio nazionale. Lei, del resto, non si è mai arresa, continuando ad affermare la validità del suo lavoro: “In Sardegna il canto è nato femminile – dirà –, insieme alla poesia è nato, ai tempi del matriarcato. La verità è un’altra: è che la Sardegna si vuole inibire, vuole chiudersi in se stessa, compiangendosi dei suoi mali. Io tutto questo non lo accetto. Nella vita ho imparato che per andare avanti dignitosamente bisogna guardarsi indietro, non dimenticandosi mai da dove si è venuti, mettendo nella bisaccia tutto quello che troviamo sulla nostra strada. Anche il dolore: lo raccolgo e me lo porto appresso, senza dimenticare mai che sta lì, però tutto proiettato per il futuro. È per questo che io rielaboro i canti antichi: un canto, quando lo raccogli, è come se fosse chiuso in un archivio, poi quando lo elabori, mettendoci qualcosa di tuo, il dolore, la gioia e come dargli nuova vita” [Maria Carta, p.43].

Se la Sardegna dal principio le appare ostile, a Roma ci sono i locali folk come il Teatrino dei Cantastorie a Trastevere in cui esibirsi. Ma quando Maria entra in scena, è immediatamente una diva: troppo straordinaria per restare nel circuito dei teatrini. Suo marito, infatti, ha già in mente per lei una carriera stellare. Per questo la sua immagine dovrà diventare quella di donna fatale, più giovane dei suoi anni: trentasei sono troppi, trenta potranno bastare. Maria è nata per i grandi palcoscenici, per mostrare un’eterna bellezza, il suo grande talento e quella voce maestosa.

Eppure lei si sente soffocare da quest’uomo che sceglie tutto per lei, anche di smettere di guidare. Maria, invece, vuole cercare la sua strada, sperimentare, e appena può si trova un maestro, l’etnomusicologo Gavino Gabriel, che le insegna come migliorare l’impostazione della voce e come rendere il canto più raffinato. La chitarra classica, invece di quella tradizionale sarda con le corde in ferro, intanto, renderà quei canti più personali. Anche se la gente ci metterà un po’ a capirlo e le chiederà di tornare alla tradizione.

Nel 1972 è a Sìligo per un recita, l’unico suo concerto nel paese di nascita e per l’occasione canta Sa Disisperada, una canzone che viene dalle origini più arcaiche della cultura sarda, che simboleggia il risveglio e nel tempo è divenuto canto di disperazione. Tra i più difficili del repertorio tradizionale logudorese, tocca il tema tremendo dell’emigrazione. I vecchi la guardano dritto negli occhi e le lanciano la sfida: quel canto è solo per pochi.

Maria non delude. E canta anche il Trallallera gallurese.

Poi Dilliriende, il Duru Duru e il Dillo, brano eseguito a cappella per accompagnare la danza. Il testo è di Maria e ricorda la sua ossessione per le scarpe da bambina, costretta ad andare in giro scalza.

Canta sa Corsicana, canto sui banditi della fine dell’Ottocento, tipico della Gallura, ma originario della Corsica.

La Sardegna, ora che la vede da fuori, le appare una landa deserta che muore in agonia. Le terre non appartengono ai pastori, mancano investimenti, servirebbero silos, aziende moderne, imprese, fabbriche per chi ha deciso di non andarsene e continuare a vivere la propria vita lì. “Operai, io canto per voi i nostri canti antichi – dice Maria –, gli stessi che i guerrieri di Eleonora d’Arborea ascoltavano dalle loro donne durante la guerra di Liberazione. Quando torno al mio paese, ritrovo la nostra cultura che rifiuta la proprietà, che respinge lo sfruttamento dell’uomo. È una cultura di riti, di canti e poesia. Tutta la mia gente ha lavorato, ha allevato greggi, ha dato fiumi di latte, ma i proprietari dei pascoli ci hanno ridotto alla fame. Abbiamo dato tutto di noi, anche il dolore, i gesti della vita. Sui nostri volti è scritta la nostra disperazione” [Maria Carta, p. 31].

Adesso tutto è chiaro e quando lei canta la Sardegna intera si muove, un evento indicibile: operai, contadini, pastori, minatori, tutti accorrono per ascoltare la voce prodigiosa che racconta le loro radici. Nel bacino del Sulcis, in Barbagia lei parla il linguaggio della matriarca dei sardi, della donna più antica del paese, quella che protesta soprusi e ingiustizie, che canta l’angoscia dei padri e il dramma dei figli. Ma anche la dignità, l’orgoglio, la forza di resistere. Una voce che restituisce il suono originale, le corone, i melismi, le affinità con il gregoriano. È la memoria, riconsegnata intatta, esatta come se nessun tempo fosse mai trascorso, nessun’altra musica fosse mai comparsa in terra sarda. Eppure Maria vive sempre nel timore di non essere abbastanza, di deludere, di non rispettare mai completamente quella storia antica di cui è portavoce. A volte sente il peso della grande responsabilità di esibirsi davanti al pubblico sardo. “In Continente devo spiegare le parole che canto – dirà durante un concerto a Cagliari nel 1975 – e c’è la paura di non essere capita; qui semmai c’è la paura di essere capita e di essere criticata; cerco di dare tutto quello che posso, e vi chiedo scusa fin d’ora se non sono all’altezza di questa piazza, di questo pubblico favoloso che c’è stasera […]. Io sono una di voi, vengo da un mondo così, dove veramente mia madre aveva solo la ninna nanna da cantarmi” [Maria Carta, p. 38].

Invece la sua voce si fa internazionale e la sua fama arriva in Germania, in tanti paesi d’Europa, fino a Mosca, dove tiene un concerto al Teatro Bolshoi, nel cuore della Russia comunista degli anni Settanta.

Di lì a poco sarà in giro per una serie di concerti con Amalia Rodriguez, simbolo della canzone popolare portoghese. Insieme cantano a Roma e poi in Sardegna. A Cagliari il teatro scoppia per le persone accorse ad ascoltarle. Questi concerti accrescono la sua popolarità. Ma non le basta, Maria vuole che il canto sardo raggiunga tutto il pubblico possibile, l’Italia intera. Per questo deciderà di partecipare alla trasmissione televisiva Canzonissima. La presenta Raffaella Carrà. Non sa, Maria, fino a che punto, il pubblico italiano potrà comprendere ciò che lei propone: canta Amore disisperadu.

Il successo è strabiliante, migliaia di lettere arrivano agli indirizzi della Rai, vogliono che Maria vinca la competizione, tutta la Sardegna tifa per lei. Si classificherà seconda nella sezione folk. Maria è diventata un simbolo: una donna nata poverissima in una terra desolata, orfana e cresciuta nella miseria ha trovato il riscatto nel suo coraggio, nella sua straordinaria bellezza, nel talento della voce e nella forza della cultura popolare che incarna. “Io canto la memoria di tutti i sardi e per questo devo esserne degna” [Maria Carta, p. 35]. Diversi anni dopo, nel 1991, otterrà anche un altro riconoscimento e un ulteriore riscatto. Una giovane poverissima a cui fu consentito di studiare solo fino alla quinta elementare, nel 1991 riceverà un incarico come docente a contratto di Antropologia culturale all’Università di Bologna, per il valore delle esperienze di studio e ricerca sulla canzone popolare da lei portati avanti per l’intera sua vita.

Nel 1973 esce un 45 giri con due brani in italiano: Il funerale di un lavoratore, a cui collabora, tra gli altri, Chico Buarche De Hollanda,

e Nuovo Maggio, musica sarda e testo di protesta scritto da Laurani, ispirato ai movimenti di rivolta del Maggio francese.

Il disco Delirio (1974) è un’altra importante conferma. Raccoglie la gran parte delle ricerche svolte da Maria in quegli anni. Sono canti in logudorese, tramandati di generazione in generazione dal 1200. Canti di guerra, di dolore e di morte, ma anche di festa e gioia, accompagnati con la sola chitarra classica. C’è il Duru Duru, che in arabo significa “girare”, un canto d’iniziazione del bambino al ballo. C’è l’Ave Mama ’e Deu, (Ave Maria di Dio), canto gregoriano del 1200, traduzione in dell’Ave Maria Stella del XIII secolo.

C’è il Traccas, tipico trallallera campidanese che racconta un momento di festa: i traccas erano i carri trainati dai buoi infiorati per le feste patronali su cui si saliva per cantare.

C’è anche Su patriotusardu a sos feudatarios (Il patriota sardo ai feudatari), canto antifeudale del 1794 cantato tra gli operai di una fabbrica di Porto Torres, un vero e proprio inno sardo con un’introduzione che si rifà alla Marsigliese e allo stile musicale dei gosos, i canti devozionali.

Lo canta anche Francesco Guccini con i tenori di Neoneli.

Luciano Ligabue e Angelo Branduardi in Ai cuddos (A coloro) ne fanno una personale versione riprendendo alcune strofe dell’inno e il ritornello.

Nel 1975 Maria incide Dies Irae, disco di canti gregoriani in latino e sardo. Registrato con l’accompagnamento di una grande orchestra che tra i professori annovera Severino Gazzelloni. È il disco che più la rappresenta e ne mette in risalto il timbro puro, la vocalità scura e piena. Così è nell’interpretazione del Dies Irae, traduzione di logudorese dell’inno composto da beato Tommaso da Celano nel XIII secolo,

brano che Maria canta e ricanta rielaborandolo anche negli album successivi con arrangiamenti più attuali.

Maria è ora un volto davvero noto e in tanti le propongono ruoli cinematografici. Girerà diversi film con registi importanti: Storia di una comune rivoluzionaria di Juan Louis Comolli, avrà una parte nel Padrino parte II di Francis Ford Coppola, sarà Marta nel Gesù di Franco Zeffirelli e reciterà in Cadaveri Eccellenti di Franco Rosi.

Nel 1976 viene eletta nelle liste del partito comunista, come consigliere comunale di Roma. Un impegno che la occupa così tanto da dover abbandonare per un po’ la carriera artistica. “Adesso credo che non fosse giusto fare politica – dirà tempo dopo -: quando uno è un artista è meglio che rimanga artista” [Maria Carta, p. 44].

Vi canto una storia assai vera (1976) è una novità, un disco cantato in italiano, spagnolo e sardo. Maria ripropone canti di protesta, canti di lotta partigiana e operaia di tutto il mondo. Sono tempi difficili, con gli scontri quotidiani tra studenti e forze dell’ordine, le lotte politiche, le stragi, le azioni terroristiche. Maria non fa mancare la sua voce e rievoca personaggi leggendari, vittorie e sconfitte di lavoratori, combattenti, uomini e donne impegnati nella difesa dei diritti civili. Così, canta Hasta Siempre, canzone che ricorda le imprese leggendarie di Che Guevara;

canta Per i morti di Reggio Emilia di Fausto Amodei sui fatti del luglio 1960

e i brani dell’anarchico Pietro Gori: Addio Lugano

e Stornelli d’esilio.

Il 1976 è però anche l’anno del memorabile concerto al Teatro Circo di Roma che registra ogni sera il tutto esaurito. La scena è scarna e Maria è l’essenzialità della sua bellezza adornata di una semplice tunica nera, i lunghi capelli sciolti sulle spalle e la splendida voce. Poi d’un tratto tutto sembra precipitare. La casa discografica con cui collabora da dieci anni, la RCA, le impone di cambiare repertorio, di rinnovarsi, di tentare altre strade, forse più pop. Le mode, il business della discografia cercano sempre nuovi target.

Ma Maria ha la certezza di essere nel giusto, il canto della tradizione sarda è ciò che lei intende rappresentare. Così, alla fine degli anni Settanta, è la Polygram a sostenere la sua ricerca, pubblicando l’album Umbras in cui Maria dà voce ai poeti sardi del Settecento e dell’Ottocento come Paolo Mossa, Don Baignu, Pes e Pietro Pisurzi. Nell’Ave Maria Catalana, canto gregoriano del XVIII, la sua voce ha un’intensità sconvolgente,

mentre vibra più dolce in Non potto reposare, malinconica e sofferta canzone d’amore,

da ascoltare anche dal vivo.

Un’esperienza che la rigenera, la conferma che quella è la strada da percorrere. È così sicura di sé e libera che ha il coraggio di lasciare il marito. Troverà un nuovo amore, un giovane architetto. Le costruirà una grande villa in una zona residenziale fuori Roma e la renderà madre.

Sono anni ancora di grande interesse per la musica folk, e questo inizio Ottanta la vede protagonista in un grande concerto a più voci con Amalia Rodriguez, Roberto Murolo, Bruno Lauzi. Il gruppo esordisce al Teatro Parioli di Roma e Maria apre la serata.

È piena di energia e ha voglia di sperimentare, reinventare la tradizione mescolando nuovi ritmi, nuovi suoni a parole antiche. Così registra con una grande orchestra quello che viene definito il suo disco rock in lingua sarda, Haidiridiridiridinni (1980).

Ora la sua carriera si è spostata in Francia dove diventa una diva osannatissima. Tiene concerti al Palazzo dei Papi di Avignone, canta all’Olympia di Parigi, al Theatre de la Ville, partecipa a numerose trasmissioni televisive come ad Antenne2 dove, la notte di Natale canta Deus ti salvet Maria accompagnata dal prodigioso violino di Angelo Branduardi.

In Francia impazziscono per Maria Carta.

Torna in Italia per alcuni concerti e soprattutto incide un nuovo album, Sonos de memoria (1984) che contiene venticinque brani, dal 1200 al 1800, un’antologia del canto sardo. Tra questi gli emozionanti Sonos de memoria

e Chelu e mare, canto di emigrazione di una madre che piange per il figlio costretto a lasciare la Sardegna.

Ballu, testo di Maria Carta, è un invito a una danza vivace e gioiosa.

Quando suo figlio David ha appena quattro anni il suo giovane compagno la lascia. Maria è una donna forte, ma questo la segna immancabilmente. Per fortuna c’è il lavoro, una nuova avventura che le fa sembrare la vita sentimentale meno dolorosa. Un tour in America la porta a esibirsi a Lima, in Perù, a San Francisco, A Boston, a Philadelphia, perfino nella cattedrale di Saint Patrick a New York. Canta nelle chiese, nei teatri, nelle università. Ci sono sardi che lavorano negli uffici del Consorzio Sardegna Export che non ci credono di vedere davvero Maria Carta in carne e ossa, lì a New York.

In Italia alterna concerti a ruoli in film importanti come Disamistade di Gianfranco Cabiddu dove è chiamata a interpretare una madre sarda, una parte impegnativa per raccontare un momento terribile della storia della Sardegna, tra il 1948 e il 1960, con l’esodo dei pastori per conflitti tra famiglie, furti di bestiame, povertà dilagante. Disamistade significa, infatti, inimicizia.

E i momenti dolorosi arrivano anche per Maria che in quegli anni sembra aver perso la sua voce, “la voce mi spariva dentro la gola, non veniva fuori”, dirà [Maria Carta, p. 61]. La deve sostenere sempre più spesso con del cortisone. Che a un certo punto sembra non bastare più. Esami più approfonditi riveleranno un cancro già avanzato. Seguiranno operazioni e terapie. Giovanni Paolo II, in visita all’Ospedale Santo Spirito di Roma, sapendola ricoverata chiederà di poterla incontrare. In pochi sanno del suo reale stato di salute e lei ha una forza fuori dal normale. Infatti, non smette di fare concerti e di interpretare ruoli al cinema. Quando entra in scena al piccolo anfiteatro romano di Nora, non ci crede che ancora tutta quella gente sia lì per lei, e neanche di riuscire a cantare. Nonostante l’angoscia viva con lei da diverso tempo, per tutti Maria è la grande voce della Sardegna. “Ho sempre cercato attraverso la musica la mia vera identità – dirà -, non so se l’ho mai trovata, ma il fatto è che l’ho amata, mi ha aiutato a vivere e perché no?, mi ha aiutato anche a non sbagliare” [Maria Carta, p. 63]. La sua preghiera è che qualcuno conservi e porti avanti il suo lavoro, perché quell’enorme tesoro giunga in eredità alle generazioni successive. Per questo suo straordinario impegno, del resto, nel 1991 riceverà dal Presidente della Repubblica Francesco Cossiga il titolo di Commendatore della Repubblica.

L’anno successivo dopo dieci dischi esce il suo primo cd, Chelu e Mare (1992) una rivisitazione dei canti sardi della tradizione antica e di brani in gregoriano. Se a teatro aveva già partecipato alla Medea di Franco Enriquez e alle Memorie di Adriano con Giorgio Albertazzi e la regia di Maurizio Scaparro, nel 1992 per la commedia musicale A piedi nudi verso Dio, presta il volto a un personaggio grandioso della storia della Chiesa: santa Teresa d’Avila. È molto rigorosa e per entrare nella difficile parte trascorre qualche tempo presso il convento delle monache carmelitane di Roma. Ama questo ruolo. Questa donna minuta che rivoluziona la Chiesa con la sua vocazione spontanea e intransigente le ricorda di lei, anche dell’identico isolamento vissuto nella fede di una missione da compiere: il rinnovamento della Chiesa per Teresa, la messa in salvo del patrimonio musicale sardo per lei.

Sarà spesso ospite di trasmissioni televisive e confessa che le sarebbe piaciuto partecipare al Festival di Sanremo condotto da Pippo Baudo per il desiderio sempre coltivato di far conoscere il canto sardo a un pubblico sempre più vasto. Non riuscirà, ma avrà comunque l’occasione di cantare la canzone Le memorie della musica, scritta per la manifestazione, nella trasmissione Partita Doppia. Coristi sono i Tazenda e la canzone ha un grande successo. In quell’occasione il gruppo di giovani coristi dichiara l’importanza di Maria nell’aver portato il canto sardo nel mondo.

Poco dopo le chiederanno di partecipare al loro cd con la registrazione del brano Sa Danza.

Così Maria torna in sala d’incisione e in quell’anno pubblica un cd di sei brani dal titolo Le memoria della musica (1993) i cui brani raccontano di lei e della sua vita. Nell’estate del 1993 Maria gira la Sardegna con il giornalista Red Ronnie che registra diverso materiale video. In queste immagini lei canta con estrema vitalità, come se la voce le fosse tornata prepotentemente. Quel video doveva essere pubblicato nel Natale di quell’anno insieme a una riedizione del libro Canto rituale. Canta ancora quell’estate, alla Fiera Campionaria di Cagliari, davanti a un pubblico in estasi e insieme a tanti giovani cantautori sardi. Nel dicembre viene invitata alla trasmissione Roxy Bar di Red Ronnie, negli studi di Video Music a Bologna dove canta l’Adeste Fideles.

È la sua ultima apparizione televisiva. Il 30 giugno 1994, invece, è il suo ultimo concerto a Tolosa, tra i più belli degli ultimi quindici anni. Indossa una lunga gonna rossa plissettata in seta, sopra una giacca doppio petto in tinta. Morirà il 22 settembre all’età di sessanta anni.

“Io sono una donna nuragica, forte”, disse di sé [Maria Carta, p. 6]. E come una scultura, un’architettura antica e resistentissima, la sua voce si è fatta interprete nel mondo della cultura del suo paese. Anche se per diverso tempo Maria ha faticato a essere riconosciuta come grande artista in terra natia. Criticata per il sospetto di aver reso più commerciale quella cultura, a misura di un pubblico amante dell’esotico. Invece, lei ha permesso la salvaguardia di un patrimonio orale che altrimenti sarebbe andato perso. Lo ha elevato a una tale dignità artistica da riuscire a intercettare il bisogno colto e non solo popolare di quella cultura, rendendola terreno di studio, espressione di una memoria perennemente viva, da trasferire alle nuove generazioni. Un lavoro immane, anche sui valori da difendere e tramandare. Per una società con radici profonde, consapevole di una discendenza e della storia del proprio territorio. “I nostri suoni che sono la nostra memoria e la memoria dei nostri padri – dirà – devono continuare perché sono le basi, i fondamenti che noi diamo ai nostri figli” [Maria Carta, p. 63].

Rai Sardegna le ha dedicato il bellissimo documentario Incontro con Maria Carta: prima parte,

seconda parte,

terza parte.

Oggi la Fondazione Maria Carta, a Sìligo, valorizza e promuove la cultura tradizionale sarda e il lavoro di questa straordinaria artista.

Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli