Le canzoni sulla Resistenza, quelle scritte appena dopo la Liberazione, o a distanza di anni, ci permettono di comprendere quanto e come quel momento della storia del nostro Paese, sia stato raccontato e interpretato nel tempo. Quali episodi, quali voci, quale sentire. E quanto, insieme alle parole e alle melodie, nella società di oggi, lungo l’arco di questi ottanta anni, siano rimasti vivi i valori di libertà e democrazia, derivati dall’esperienza della lotta partigiana. Patrimonio inestimabile, fatto di conquiste dolorose, che non si devono mai dare per scontate.

Dalla celebrazione senza retorica, al sentimento di fratellanza tra i partigiani di ieri e quelli di oggi; dall’invocazione dell’uguaglianza sociale, della solidarietà fino al pacifismo; dalla memoria da tramandare di generazione in generazione, al racconto che si fa sempre più cronaca dettagliata. Che fissa eventi (rappresagli, combattimenti, eccidi), tempi (giorni, mesi), luoghi (città, frazioni, province), identità (nomi, cognomi, pseudonimi), e costruisce paesaggi sonori tematici. Così, in un ideale viaggio che attraversa le regioni del nostro Paese, vessate e poi liberate, le melodie e le voci degli interpreti e delle interpreti, dei cantautori e delle cantautrici, dei complessi musicali, hanno composto la colonna sonora di una memoria corale, così, resa collettiva.

Storie vere, delle quali possiamo essere partecipi. Ascoltando, cantando, tenendo a mente. Ricordando. Oggi e sempre.

E in questo migrare, tra le canzoni sulla Resistenza, punto di partenza è Cantacronache.

Torino, 1957-1962, un gruppo di intellettuali, musicisti, studiosi, decide di dedicarsi al recupero della canzone popolare e alla creazione di canzoni nuove, tra le prime scritte sulla Resistenza. Sono: Fausto Amodei, Sergio Liberovici, Michele L. Straniero, Margherita Galante Garrone (Margot), Emilio Jona.

“Centrale è, nell’esperienza del gruppo torinese, il recupero della memoria della Resistenza […] contro i tentativi di restaurazione e di oblio che la cultura conservatrice degli anni Cinquanta opera nei confronti dell’esperienza partigiana”, scriveva Stefano Pivato in Bella ciao. Canto e politica nella storia d’Italia. Ferruccio Parri, poi, sulla copertina del disco Cantacronache 3, (1959) inquadrava i torinesi come giovani “spiriti spregiudicati e insieme sorvegliati” mossi dal desiderio di innovare, uscire dalla norme convenzionali della scrittura musicale, “neoeroi della Resistenza” che sentono viva alle loro spalle la lotta di liberazione e possono cercarle una voce nuova: “L’interesse grande del loro nuovo canzoniere partigiano – scriveva Parri – nasce innanzitutto dalla dimostrazione che una lotta popolare e nazionale di liberazione è diventato fatto fondamentale della storia del popolo quando se ne impadroniscono i giovani”. I giovani che prendevano tra le mani una eredità importante. In un momento così difficile, negli anni della deriva a destra del governo Tambroni.

Per inquadrare il contesto, basta dire che solo dopo la caduta del governo Tambroni (marzo-luglio 1960) una circolare del nuovo ministro della Pubblica istruzione, Giacinto Bosco, disponeva che l’insegnamento della storia, alle scuole superiori, non si fermasse alla prima guerra mondiale ma che giungesse fino alla Costituzione. Sempre solo dopo il 1960, lo strumento più diretto della comunicazione di massa, la televisione, si apriva a nuovi argomenti quando la Rai propose le prime trasmissioni sulla Resistenza (Guido Crainz, La Resistenza  italiana nei programmi della Rai). Nel 1965, anno del ventesimo anniversario della Liberazione, attraverso i programmi televisivi, avvenne il passaggio dalla rimozione a una ufficializzazione della Resistenza che ne banalizzava, però, i contenuti. Si passò cioè “dall’oblio alla costruzione di una “memoria pubblica” astrattamente apologetica, che si sovrappone alle molteplici e differenti – talora opposte – memorie private senza riuscire a risolverle in sé, senza aiutarle a riconoscersi come parte di un processo. L’insistenza unilaterale e retorica sui temi del riscatto nazionale e del sacrificio tendeva a tradursi in sermoni pedagogici e di scarsa efficacia” (Guido Crainz). Non vi fu la volontà, nel sistema politico, di connotare questa memoria come “mito fondativo” della Repubblica, e per questo furono molteplici e diverse le memorie prodotte dalla società italiana e dalla sua cultura popolare (Gioachino Lanotte, Cantalo forte)

Era necessario trovare un sentimento unitario. Significative le riflessioni di Jona sull’approccio utilizzato da Cantacronache per raccontare la Resistenza: “Non serviva una celebrazione mitologica, ma concreta: i partigiani erano i nostri fratelli maggiori”. Una evocazione semplice che poteva avvenire anche per mezzo della canzone, nuovo strumento della comunicazione moderna.

Così, Partigiani fratelli maggiori (testo di Michele L. Straniero e musica di Fausto Amodei, inciso in Cantacronache 3) metteva in luce il tema di una fratellanza ideale con i partigiani, un bisogno di riaffermare l’antifascismo come valore comune e di costruire un legame tra il passato e il presente. Il tema della memoria, inoltre, veniva affrontato mettendo in risalto come la cultura e il mondo politico non avessero ancora sedimentato l’esperienza resistenziale, esclusa dai programmi didattici della storia e dunque inaccessibile alle nuove generazioni: Se cerchiamo sui libri di storia/se cerchiamo tra i grossi discorsi fatti d’aria/non troviamo la vostra memoria.

Nello stesso album, tra le canzoni più suggestive, si ricorda Partigiano sconosciuto l’autore del cui testo viene indicato come Anonimo. Sergio Liberovici, infatti, musicò una poesia senza firma, appuntata manoscritta il 25 aprile 1945 nel luogo in cui, a Modena, era stato fucilato un partigiano. Successivamente il nome dell’autore, anzi dell’autrice del testo, divenne noto: era la partigiana modenese Claudina Vaccari.

Dalla collaborazione di Cantacronache con Italo Calvino scaturiva poi la canzone simbolo, scritta nel 1958 e musicata da Liberovici nel 1959, Oltre il ponte, semplice e complessa allo stesso tempo. La voce di un anziano partigiano, interpretato da Pietro Buttarelli, raccontava a una giovane che cosa era stata la Resistenza. Quella vicenda diventava un bagaglio di valori e di ideali da tramandahttps://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/pentagramma/o-ragazza-dalle-guance-di-pesca-o-ragazza-dalle-guance-daurora/re alle nuove generazioni: la storia di scelte coraggiose, di riscatto e di libertà.

La musica di Sergio Liberovici conferiva al brano un tono maestoso e marziale. Il tema, invece, era reso con sfumature delicate, lievità e semplicità d’immagini: un ponte, era il simbolo che divideva la guerra dalla pace, la vita dalla morte, con la speranza che l’amore vincesse su ogni altro tentativo di distruzione. Avevamo vent’anni e oltre il ponte/Oltre il ponte che è in mano nemica/Vedevam l’altra riva, la vita,/Tutto il bene del mondo oltre il ponte./Tutto il male avevamo di fronte,/Tutto il bene avevamo nel cuore,/A vent’anni la vita è oltre il ponte,/Oltre il fuoco comincia l’amore.

Cantare Oltre il ponte significa tuttora raccontare un passaggio di consegne, testimoniare un’urgenza: le nuove generazioni, quelle dei ventenni, quelli che “non sanno la storia di ieri”, devono comprendere il senso di quell’esperienza da chi l’ha vissuta, per essere pronti a combattere sul fronte dell’impegno sociale e politico, nel mantenimento delle libertà democratiche faticosamente conquistate. Calvino ha fatto della canzone un emblema, un monito che richiama perentoriamente alla necessità di tramandare ai posteri una storia che rischia di scomparire, quando nessuno sarà più a testimoniarla. Un messaggio che attraversa stagioni, decenni, e mode e che arriva attraverso un linguaggio semplice e allo stesso tempo penetrante.

La versione dei Modena City Ramblers

Ma ancora prima, il musicista Sergio Liberovici e il poeta antifascista Franco Antonicelli nel 1948 componevano Festa d’aprile, (I dischi del sole), sulla base degli stornelli trasmessi da Radio Libertà, emittente clandestina attiva nella provincia di Biella dall’autunno 1944 all’aprile 1945. Festa d’aprile diventerà popolarissima, come canto di vittoria, intonata dalla voce svettante di Giovanna Daffini. Forza che è giunta l’ora, infuria la battaglia/Per conquistare la pace, per liberare l’Italia;/Scendiamo giù dai monti a colpi di fucile;/Evviva i partigiani! È festa d’Aprile.

Fausto Amodei, voce e chitarra di Cantacronache, nel 1960, scriverà Per i morti di Reggio Emilia, cronaca della strage avvenuta il 7 luglio a Reggio Emilia, evento sigillato nelle trame della storia tragica del Paese.

La canzone è diventata presto un luogo della memoria, attorno a cui radunarsi per ricordare molto più di quell’evento tragico, l’uccisione di alcuni giovani, per mano della polizia, durante uno sciopero della Cgil, sotto il governo Tambroni. Per i morti di Reggio Emilia, infatti, costruisce un legame fortissimo con il passato e con la memoria resistenziale: “Vengono idealmente congiunte le lotte degli scioperanti con quelle dei partigiani”, come rammenta Stefano Pivato, e le vittime di quel luglio ’60 diventano anche tutte le vittime partigiane cadute nella guerra contro il fascismo: «Son morti come vecchi partigiani». Basta l’attacco che chiama a raccolta a fare di chi ascolta, una comunità: «Compagno, cittadino, fratello partigiano/teniamoci per mano in questi giorni tristi» e le parole si fanno carico di condensare il ricordo di fatti e sentimenti, diventano nucleo simbolico per una cerchia di persone che li vivono e rivivono: «Sangue del nostro sangue/ Nervi dei nostri nervi», recita il testo. In questa appropriazione c’è tutto il senso della condivisione e della comune appartenenza (di una comunità) che fa del canto un veicolo per rinnovare nel presente il passato. Non a caso la canzone richiama consapevolmente le parole di altre canzoni partigiane, intrecciando i loro significati. C’è Fischia il vento: «Uguale la canzone che abbiamo da cantare: scarpe rotte eppur bisogna andare», mentre nel finale si cita Bandiera Rossa. “Le rivolte di piazza di quei giorni – spiegava, infatti, Fausto Amodei – erano la ripresa della guerra di Resistenza, le vittime della polizia di quei giorni erano gli eredi dei caduti partigiani, a quei «tempi tristi» si era arrivati perché si erano poco per volta messi in soffitta i valori della guerra antifascista”.

Il fazzoletto rosso, testo e musica di Amodei (1962), riportava al tema chiave della lotta partigiana: un soldato mandato a combattere sul fronte albanese riceve in dono dalla fidanzata un fazzoletto rosso, oggetto che nella canzone acquisterà via via un valore sempre più simbolico, per diventare infine una bandiera fatta di stracci, /come si conviene ai poveracci / che han deciso, per protesta, /colla propria testa. Che hanno deciso che il mondo è fatto di povera gente che, insieme, può lottare.

La voce femminile di Cantacronache, Margot metteva in musica il Canto degli ultimi partigiani, testo crudissimo di Franco Fortini sul tema degli antifascisti fucilati un anno prima a Piazzale Loreto (dalla raccolta “Fogli di via e altri versi”, Einaudi, Torino, 1946). Il 10 agosto 1944, a Milano, Piazzale Loreto, vennero rinvenuti i corpi di quindici partigiani e antifascisti fucilati da legionari della “Ettore Muti” e da militi della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR), forza armata istituita dalla Repubblica Sociale Italiana l’8 dicembre 1943 con compiti di polizia interna e militare. La canzone ha immagini atroci, rese con oggettività dalla voce della cantautrice torinese. La sua interpretazione è distaccata, secondo la tecnica dello straniamento brechtiano, finalizzata a fare dell’interprete il portatore di un messaggio chiaro perché l’ascoltatore lo recepisca senza filtri. Sulla spalletta del ponte, Le teste degli impiccati, Nell’acqua della fonte, La bava degli impiccati. Sul lastrico del mercato, Le unghie dei fucilati, Sull’erba secca del prato, I denti dei fucilati.

Spostandoci a Milano, Ma Mi, musicata da Fiorenzo Carpi, è una canzone in dialetto milanese sulla resistenza meneghina all’invasione fascista. Appare in un recital di Ornella Vanoni, Canzoni della mala, nel 1958, ideato da Giorgio Strehler, autore del brano. La canzone non parla di un eroe, ma di un ladruncolo della malavita, che dopo la fine della Seconda guerra mondiale viene arrestato perché tornato a rubare. Rinchiuso nella cella del carcere milanese di San Vittore, ricorda i tempi in cui con i suoi compagni aveva partecipato alla Guerra di Albania e alla Resistenza. Ora la società non è quella che si sparava e, per ottenere la libertà occorre di nuovo essere dei traditori.

La canteranno in tanti, tra gli altri, Enzo Jannacci, che la interpretata a più riprese, sin dai primi anni Sessanta, incisa per la prima volta, nel suo primissimo LP, La Milano di Enzo Jannacci (Jolly, 1964; ristampato su etichetta Joker nel 1971). Un’interpretazione che rende tutta l’amarezza della disillusione.

Sempre Jannacci, nel 33 giri Sei minuti all’alba prodotto da Nanni Ricordi, uscito nel ’66, canta una storia di Resistenza senza retorica. La canzone che dà il titolo all’album racconta gli ultimi minuti di vita di un partigiano prima della fucilazione. Dopo l’8 settembre è fuggito per tornare al suo paese, dove lo hanno chiamato disertore, è scappato di nuovo in montagna dove, insieme ad altri ribelli, è stato catturato dai fascisti. Ora non vuole essere confessato da nessun prete, ha già pregato. Accetta un’ultima sigaretta mentre il buio schiarisce. Porta con sé la grande dignità di chi ha riscattato una vita mediocre attraverso l’adesione alla guerra partigiana. Tocca farsi forza, la fucilazione arriverà inevitabilmente.

I primi anni Settanta furono segnati da nuovi scontri sociali e politici e dal rinvigorirsi dei movimenti di piazza: le riforme mancate, l’instabilità economica, la precarietà si facevano sentire tra i giovani che stavano perdendo le speranze per un futuro diverso. Il clima di destabilizzazione e disfacimento degli equilibri precostituiti, negli anni della strategia della tensione, poi, faceva riemerge l’urgenza di appellarsi ai valori forti e saldi nati dalla guerra partigiana.

Voce autorevole, militante, quella di Ivan Della Mea, che, nel 1972, di fronte alla nuova Italia svilita dai nuovi fascismi e dalla perdita dei valori per cui tanto si è combattuto, riannoda i fili con il passato citando nella sua Scarpe rotte la canzone Fischia il vento, scritta dal poeta e medico ligure Felice Cascione prima dell’8 settembre 1943. Si può vincere solo se si resta uniti nell’idea di un mondo migliore, uniti e compagni. Compagni stiamo uniti cantiamo ancor più forte “Scarpe rotte – scarpe rotte bisogna andare – bisogna andare dove sorge – il rosso sole dell’avvenire!”

Nello stesso spirito di fratellanza, nel 1973, il Canzoniere delle Lame di Bologna canta Sempre partigiani anche per il domani, ribadendo la necessità di stare uniti. Essere partigiani, è una scelta che vale per sempre. Il canto suggerisce anche il tema del valore dell’impresa di ogni singolo partigiano, sebbene il suo nome non sia ricordato nei libri di Storia. La Storia è quella che il popolo scrive tutti i giorni, quella della gente semplice che ha combattuto per la libertà di tutti. Un uomo come mille del quale non sta scritto il nome dentro ai libri tante storie così /Ma il popolo la storia fa senza generali la scrive tutti i giorni anche se non lo sa /Fascisti questa Italia l’han fatta i partigiani restate nelle fogne il posto qui non è/ Compagni stiamo attenti siam sempre partigiani la scelta l’abbiam fatta anche per il domani.

A Torino, nel 1977, esce l’album Musica Contro di Cantovivo, formazione nata nel 1974 dall’incontro di Alberto Cesa con Donata Pinti, il cui debutto discografico è dell’anno seguente, con l’album Canti antifascisti spagnoli. Il gruppo è dedito successivamente al recupero di canti tradizionali e alla composizione di brani originali a questi ispirati. Come Fucile e Bisaccia, di Alberto Cesa e Franco Lucà, con musica di origine popolare mantovana, nato da un racconto partigiano. Il dolore per l’addio alla famiglia e all’amata, prima di partire verso le montagne a guerreggiare, lascia il posto alla volontà di riscatto e di rivalsa sul nemico oppressore (da Ildeposito.org). Versione corale: Mia casa il bosco, mio tetto la bufera, mio letto un sacco, mio cibo pane duro, sporco fascista ma stattene sicuro, che anche questo te lo farem pagar.

Negli stessi anni, si scrivono e producono spettacoli teatrali, film, colonne sonore che portano in primo piano fatti accaduti nel passato recente di un’Italia che voleva riscattarsi dall’oppressione nazifascista.

Dario Fo e Franca Rame, con le musiche di Paolo Ciarchi, nel 1970 mettono in scena Vorrei morire stasera se dovessi pensare che non è servito a niente. All’interno, la canzone La G.A.P. racconta del leggendario Giovanni Pesce detto anche “Visone” Comandante della 3° GAP “Rubini” dei Gruppi di Azione Patriottica operante a Torino e Milano. Insignito di medaglia d’oro, venne proclamato eroe nazionale dal comando delle Brigate Garibaldi, per le sue azioni contro i militari tedeschi. La canzone testimonia di come una forma di resistenza avvenne anche nelle fabbriche, dove gli operai, rischiando carcere e morte, impedivano in ogni modo lo smantellamento dei macchinari. I tedeschi, infatti, prima di ritirarsi piuttosto che lasciare le fabbriche ai liberatori le facevano esplodere. Nel finale, l’amarezza degli operai, per i quali la Liberazione è ancora da fare. In fabbrica fanno retate torturano gente non parla nessuno/ e trenta operai deportati li chiudono nei vagoni piombati/ diretti a Dachau. /Ma gli operai sparano difendendo la fabbrica/ e salvano le macchine che sono il loro pane/ e molti si fanno ammazzar.

Nello stesso spettacolo messo in scena dalla compagnia del Teatro la Comune, anche Ecco s’avanza uno strano soldato. Racconta del sacrificio di un partigiano che decide di consegnarsi ai tedeschi, facendosi uccidere per salvare gli altri combattenti.

Nel 1973 Ennio ‎Morricone compone la colonna sonora del film di George P. Cosmatos Rappresaglia, incentrato sull’attentato partigiano di Via Rasella e il successivo eccidio alle Fosse Ardeatine. Tra le musiche vi è la canzone Via Rasella, con le parole di Gabriella Ferri.

Benché contenuta nell’album Ritorno al futuro, pubblicato nel 1997, il penultimo prima della morte della grande artista romana (2004), è in realtà composta precedentemente. Il fatto narrato è quello avvenuto il 23 marzo 1944 in via Rasella a Roma: uno studente di medicina e ‎partigiano del Gruppo di Azione Patriottica azionò un ‎ordigno ad alto potenziale che uccise sul colpo trentadue militari tedeschi dell’11ª Compagnia del III Battaglione Bozen (un altro soldato morì il giorno successivo). L’esplosione uccise anche due civili italiani, Antonio Chiaretti, partigiano della formazione Bandiera Rossa, e il giovanissimo Piero Zuccheretti. Fu un legittimo atto di guerra condotto contro una pattuglia di poliziotti altoatesini appartenenti al terzo battaglione Bozen, che si era formato nel settembre 1943, subito dopo che i Tedeschi, a seguito dell’armistizio, avevano costituito la Zona di Operazione delle Prealpi, che comprendeva le province di Belluno, Trento e Bolzano. La maggior parte dei suoi membri, a seguito della opzione del 1939, avevano preso la cittadinanza tedesca. La rappresaglia nazifascista ‎fu immediata e feroce: più di dieci italiani per ogni tedesco ucciso. Antifascisti, partigiani, militanti che avevano scelto la Resistenza, ebrei in carcere per motivi razziali, detenuti comuni. (Istituto Nazionale Ferruccio Parri).

La canzone racconta soprattutto lo sconforto e la disperazione che seguì a quei fatti atroci. È una canzone sul silenzio che si abbatté sulla città vittima di un così grave delitto. Gabriella Ferri con le parole e i modi dialettali dà voce al popolo di Roma, alla mortificazione che subì, senza capacità di reagire a tanta violenza. Come la città, così avvilita, ridotta a un silenzio attonito, umiliata da quella tragedia. Nella canzone i morti sono fratelli, ogni vittima un fratello. Bisogna avere il coraggio di ricordare, rammenta, il coraggio della memoria è necessario, come tenere la luce sempre accesa su fatti così disumani. La voce carica di sfumature della Ferri rende il dolore, la pena, la rabbia, lo sconforto, il pianto, tutte le emozioni possibili che una voce possa comunicare, perfino il sussurro e il silenzio. Maledetto maledetto ’sto dolore‎./Maledetto maledetto ’sto silenzio..Chiudi l’occhi e strigni er core/mi’ fratello e n’antro ancora..Esci, giorno, fatte onore/aricontela ‘sta storia.

Lo stesso fatto sarà rievocato nel 2003 da Giovanna Marini che compone e interpreta Le Fosse Ardeatine. Cronaca puntuale e tragica dell’eccidio in cui furono assassinate 335 persone, una ballata che è una cronaca cantata di fatti, accompagnata con lo stile del talkin’ blues. Stile che Marini conobbe in America quando vi andò giovanissima: un cantare parlato al tempo ritmato della chitarra, appreso ascoltando musicisti come Woody Guthrie e Leadbelly. La canzone è una narrazione oggettiva dei fatti che riporta i nomi delle persone, la loro identità (nome e cognome delle vittime perché resti di loro memoria, come fece anche Amodei in I morti di Reggio Emilia, come tipico del canto partigiano), i dettagli su come vennero sottratti per essere ammazzati. Nell’ultima parte la voce diventa quella di chi ha perso un familiare e che si domanda: che cosa si poteva fare? Sopraggiunge il senso di impotenza, non si poteva fare niente. Strazianti le voci di coloro che hanno perso padri, sorelle, che si chiedono quali pensieri abbiano avuto, quali parole abbiano pronunciato i loro familiari prima di essere uccisi. La disperazione di non averli potuti salvare.

Nel 1974 esce il capolavoro di Ettore Scola, C’eravamo tanto amati, che racconta le vicissitudini di alcuni giovani, Gianni, Antonio e Nicola, tre partigiani divenuti amici durante la guerra di Liberazione che, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, si separano: Nicola ritorna a Nocera Inferiore, dove diventa insegnante, Antonio riprende il lavoro di portantino in un ospedale romano, e Gianni termina gli studi di giurisprudenza a Pavia. Negli anni successivi si ritroveranno a fare i conti con un’Italia senza valori, in cui un fascismo strisciante condiziona le loro vite. Antonio viene discriminato in ospedale, perché non rinuncia a combattere le sue battaglie con gli stessi ideali nei quali aveva creduto da partigiano. Nicola viene discriminato dalla classe dirigente locale, filo-democristiana perché professore attivo nell’attività di cineforum sui temi del neorealismo. Gianni, invece, avvocato spregiudicato, sposa Elide, figlia di un ex capomastro disonesto e senza scrupoli, nostalgico fascista divenuto ricco palazzinaro. Farà carriera e avrà una vita agiata.

Il commento musicale venne affidato ad Armando Trovajoli, con cui Scola collabora fin dall’esordio registico e che poi scriverà la colonna sonora di quasi tutti i suoi film successivi. Per il tema portante della colonna sonora, come si racconta nel volume di Paola e Silvia Scola, Chiamiamo il babbo Ettore Scola. Una storia di famiglia, Paola, figlia del regista, scrive un testo a tema resistenziale che si sente cantare in un paio di scene del film.] Il brano è conosciuto come E io ero Sandokan. Marciavamo con l’anima in spalla/nelle tenebre lassù/ma la lotta per la nostra libertà/ il cammino ci illuminerà /Non sapevo qual era il tuo nome/ neanche il mio potevo dir/ il tuo nome di battaglia era Pinin/ ed io ero Sandokan./ Eravam tutti pronti a morire ma /della morte noi mai parlavam/ parlavamo del futuro/ se il destino ci allontana /il ricordo di quei giorni /sempre uniti ci terrà. /Mi ricordo che poi venne l’alba e poi /qualche cosa di colpo cambiò/ il domani era venuto /e la notte era passata/ c’era il sole su nel cielo/ sorto nella libertà.

E tra le interpretazioni recenti vi è quella della Banda Bassotti.

Nell’anno delle stragi neofasciste, quella di piazza della Loggia, attentato terroristico compiuto il 28 maggio 1974 a Brescia, e quella dell’Italicus, compiuto nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1974 sul treno Italicus, mentre transitava presso San Benedetto Val di Sambro, di nuovo la voce di Amodei si leva per cantare Non è finita Piazza Loreto. Perché ancora occorreva rinnovare i valori dell’antifascismo e della Resistenza. Continuare a difenderli, perché ci sarà sempre qualcuno pronto a metterli in discussione. Non è finita Piazza Loreto, perché anche se Mussolini, e i gerarchi fascisti rimasti a lui fedeli, furono ammazzati e i loro corpi (insieme a quello di Claretta Petacci) esposti in quella piazza, il 29 aprile 1945, il fascismo ancora si macchiava di crimini, condannando a morte la vita di gente comune, uomini e donne inermi. Non basta stare a contare /le nostre medaglie/ ricordo dei nostri morti/ caduti allora / bisogna affrontare tante/ nuove battaglie per togliere il marcio che/ ci avvelena ancora. (…) noi gli dobbiam gridare/ più forte e uniti/ che non ci può più bastare /piazza Loreto.

Erede di Amodei e di Cantacronache è il gruppo milanese Stormy Six. L’album Un biglietto del tram (L’Orchestra, 1975), uno dei più riusciti di musica politica mai prodotti in Italia, concepito come un continuum musicale, merita un ascolto per intero

Ci sono canzoni come Dante di Nanni, dedicata al giovane gappista che, la notte del 17 maggio 1944, resistette alla cattura da parte della polizia fascista, a seguito di un attentato a un’antenna radio. Solo alla fine, stremato, dovette arrendersi, ucciso a soli diciannove anni. Il ricordo di questo giovane diventa un monito, un richiamo alle responsabilità, alla difesa delle libertà democratiche. Così, Dante di Nanni sarà sempre vivo: Trent’anni son passati, da quel giorno che i fascisti/Ci si son messi in cento ad ammazzarlo/E ancora non si sentono tranquilli,/perché sanno che gira per la città, Dante di Nanni.

Un biglietto del tram, è scritta a ricordo dei quindici martiri di Piazzale Loreto, trucidati dai nazifascisti per rappresaglia il 10 agosto 1944. Prelevati dal carcere di San Vittore e portati in Piazzale Loreto, furono fucilati da un plotone di esecuzione. Ma chi ricorda più quel fatto? «Non bastava un biglietto,/un biglietto del tram/per tornare in piazzale Loreto?»

Canzoni che diventeranno inni di piazza, intonati durante gli scioperi nelle fabbriche, nelle manifestazioni, nei comizi, a misura di una nuova generazione di giovani che nella canzone andava cercando una “rassicurazione storica e di bandiera ideologica” (Roberto Màdera, Ma non è una malattia). Canzoni che conquisteranno una valenza epica. Incoraggiavano, di nuovo, all’azione politica. A vincere, come nella battaglia di Stalingrado quando, il 2 febbraio 1943, si arrestava l’avanzata dei nazisti in Unione Sovietica.

Fatto evocato dalla canzone Stalingrado: erede delle canzoni di lotta, uscita in prossimità delle Giornate antifasciste militanti dell’aprile ’75: Fame e macerie sotto i mortai/Come l’acciaio resiste la città/Strade di Stalingrado di sangue siete lastricate/Ride una donna di granito su mille barricate/Sulla sua strada gelata la croce uncinata lo sa/D’ora in poi troverà Stalingrado in ogni città

La fabbrica, invece, raccontava gli scioperi nel nord Italia poco prima della caduta del regime fascista, un episodio preparatorio che avviava il processo resistenziale e che, nel violento dissenso delle proteste, manifestava una forte natura politica, di rifiuto. Ma soprattutto la voglia di reagire all’oppressione fascista e all’inutilità della guerra che aveva provocato solo morte. La narrazione di un fatto legato alla storia passata del Paese suggeriva di nuovo molteplici affinità con il presente, celebrando, nel desiderio di rivalsa di allora e nella meritata vittoria dei lavoratori sulla boria delle camicie nere, la voglia di tornare a scacciare i nuovi fascisti e prepotenti a suon di scioperi e mattonate: Cento operai in ogni officina/aspettano il suono della sirena/rimbomba la fabbrica di macchine e motori/più forte è il silenzio di mille lavoratori./E poi quando è l’ora depongono gli arnesi/comincia il primo sciopero nelle fabbriche torinesi. […] Arriva una squadraccia armata di bastone/fa dietro-front subito sotto i colpi del mattone/e come a Stalingrado i nazisti son crollati/alla Breda rossa in sciopero i fascisti son scappati.

E poi 8 settembre, che ricostruiva il clima inquieto all’indomani della firma dell’armistizio e l’orrore che si mostrava agli occhi dei soldati, incerti se salvare la pelle o tornare a combattere tra le fila dei partigiani. Ritornava la stessa tematica, la difesa dei valori della Resistenza e il ricordo del sacrificio di giovani vittime: In un paese è passata in divisa la morte:/la gente in cerchio sul sagrato,/nella piazza sale un grido soffocato./Ammazzati come cani,/un cartello appeso al collo:/“PARTIGIANI”.

La struggente Gianfranco Mattei, è dedicata al chimico e docente partigiano che, per aver realizzato sofisticati ordigni esplosivi, venne sorpreso e rinchiuso in carcere. Picchiato e torturato dalle SS, sceglierà di suicidarsi, impiccandosi nella sua cella, per non tradire i propri compagni. Ma il suo sacrificio non sarà mai dimenticato. Gianfranco Mattei, la tua cattedra è rimasta là: Gianfranco Mattei, la lezione non si perderà.

Nuvole a Vinca, invece, riporta un fatto reale, riferendosi all’eccidio nazista di Vinca e in altre frazioni ai piedi delle Alpi Apuane, zona nord-ovest della Toscana. Avvenne il 24 agosto 1944, per mano delle brigate nere e delle SS di Walter Reder già responsabile degli eccidi di Nozzano, Sant’Anna di Stazzema e San Terenzo Monti, e che nelle settimane seguenti compirà le stragi di Marzabotto e Bergiola Foscalina. Nella chiesa un grappolo/ stretto sotto il pulpito:/ donne che non pregano,/ ma in silenzio pensano/ dove sono i giovani./ Prigionieri in Africa,/ deportati a Buchenwald/ o sui monti, liberi./ Passa un’ombra sulle piane,/ stanno zitte le campane, /vira il sidecar sulla ghiaia:/ che pilota, signor Meier! /Fanno il tiro a segno, cani macellai./ Ma che bella mira! Non la sbaglian mai.

Centosessanta vittime accertate, una carneficina e più di milleseicento civili rastrellati e destinati come forza lavoro coatta in Germania. La strage è evocata anche nella canzone Cannoni del Sagro di Davide Giromini (album Apuamater, 2005) che cita il titolo di Stormy Six: Nuvole a Vinca, i cannoni del Sagro,/sparano ancora a chi passa di là,/e nessuno si senta lontano ed escluso/dall’ombra latente della civiltà.

Beppe Chierici, nel disco con Daisy Lumini, Il paese dei bambini con la testa (1975), è autore di Tarantella per uno scugnizzo di tanti anni fa, a ricordo del sacrificio dei ragazzi e bambini di Napoli che, durante la guerra partigiana, furono impegnati nel portare munizioni, armi, bombe a mano da gettare come sassi. Bambini che spesso restavano uccisi.

A partire dagli anni Novanta la Resistenza trova una potente celebrazione in una serie di album realizzati dai gruppi più significativi del panorama folk rock in Italia.

AA.VV. Materiale Resistente 1945-1995, (1995) è album uscito in occasione del 50º della Liberazione, a cui seguì un concerto tenutosi a Correggio il 25 aprile 1995, diventato poi un film dallo stesso titolo, a cura di Davide Ferrario e Guido Chiesa. Al disco hanno partecipato diversi gruppi, che hanno reinterpretato brani scritti e cantati durante la Resistenza, ma soprattutto brani originali.

Mau Mau, gruppo folk rock italiano formatosi a Torino nel 1990, canta Resistenza, marzo ’95: la Resistenza può sopravvivere solo se non resta silenzioso e statico monumento: E verrà l’estate e verrà la neve/sentirò la tua mancanza/So che riprenderò/il mio giusto tempo/per non sopravvivere/solo/monumento.

Hanno crocifisso Giovanni di Marlene Kuntz, gruppo rock di Cuneo, è un’interpretazione musicale del testo tratto da una poesia della poetessa marchigiana Lea Ferranti, da Spoon River partigiano del 1975. Raccolta nata per il trentennale della liberazione, a ricordo delle battaglie e dei massacri ancora vivi nelle voci dei sopravvissuti. Nella canzone, immagini fortemente simboliche restituiscono il martirio di alcuni partigiani: Giovanni crocifisso alla porta / come un cane bastardo, o di Mario il pilota le cui ossa sono sassi bianchi di luna mentre riposano per sempre nel settembre adriatico, di Toni, Io scugnizzo di porta Capuana il cui profilo gocciola di sangue / automaticamente, o, per concludere, delle ragazze fucilate per rappresaglia.

Lo pal di Lou Dalfin (Album Gibous, bagase e bandì, del 1995) è la traduzione occitana di una famosa canzone catalana, in cui il franchismo viene visto come un palo a cui le genti delle etnie comprese nello stato spagnolo sono incatenate. Ma è anche un canto sulla memoria da tramandare da generazione in generazione, dai padri ai figli, dai nonni ai nipoti. Il palo che incatena, se lo si tira tutti insieme, cadrà e tutti saranno liberi. (Mio nonno) Mi portò a vedere il palo/a cui siamo tutti legati/non possiamo più liberarci,/non siamo più liberi di andare/Se tiriamo tutti insieme cadrà/non può durare a lungo/cade di sicuro,/è già piegato/E se tu tiri forte di qui/e io tiro forte di là,/cade di sicuro/e ci ritroviamo liberi.

Il partigiano John di Africa Unite, pubblicato nell’album Un sole che brucia del 1995, è dedicata a chi è stato partigiano allora e ha combattuto per la libertà, ma che di nuovo è pronto a imbracciare il fucile per affrontare i nuovi fascismi che si nascondono nelle false narrazioni, negli inganni. La Resistenza è ormai una cosa che fa parte del nostro passato/Una cosa che fa parte della nostra storia/Non ce lo dobbiamo assolutamente dimenticare/Ma quello che abbiamo oggi è questo nuovo fascismo, celato e non/E assolutamente non dobbiamo farlo passare.

Altro straordinario lavoro realizzato negli anni Novanta è La terra, la guerra, una questione privata, concerto spettacolo del 1996 di CSI, Consorzio Suonatori Indipendenti, gruppo tosco-emiliano nato dalle ceneri dei CCCP – Fedeli alla linea. Un live tenutosi ad Alba, nella Chiesa di san Domenico in onore e a memoria dello scrittore partigiano Beppe Fenoglio e a celebrazione del cinquantaduesimo anniversario della conquista di Alba da parte dei partigiani, uscirà come registrazione dal vivo nel 1998. Da quest’album, Guardali negli occhi, inserita anche in Materiale Resistente, racconta la guerra e la Resistenza attraverso un collage delle sue canzoni più rappresentative: Bella Ciao, Per i morti di Reggio Emilia, La Badoglieide e Il bersagliere ha cento penne.

Anche Linea Gotica, testo di Giovanni Lindo Ferretti e musica di Gianni Maroccolo, Francesco Magnelli, Giorgio Canali e Massimo Zamboni, pubblicata nell’album omonimo del 1996, fa riferimento al libro I ventitré giorni della città di Alba di Fenoglio, e alle vicende connesse, di cui cita l’incipit “Alba la presero in duemila il dieci ottobre e la persero in duecento il due novembre dell’anno 1944”, e ricorda l’importanza di saper scegliere sempre da che parte stare.

Intenso il contributo delle voci femminili. Dall’album Tempo di vento, (1998) la cantautrice astigiana Lalli, dedica al padre ex partigiano la canzone Brigata partigiana Alphaville in cui il canto è strumento potente per ricordare e divulgare storie di resistenza e liberazione. Oggi sono vecchio e stanco,/è aprile e vento, ho più paura,/così sono venuto a chiederti, fammi questo piacere,/ti prego, questo piacere/Canta la mia canzone preferita,/ti prego, cantala,/cantala in questa mattina/appena appena impazzita,/cantala dove la mia mano potrà vedere,/cantala dove anche il mare si può riposare.

Montesole (Album Canti, richiami d’amore, 2002) testo di Giovanni Lindo Ferretti, è scritta per Ginevra Di Marco voce di CSI e poi di PGR (Per Grazia Ricevuta). Montesole è uno dei villaggi coinvolti nella strage di Marzabotto. Il 29 e 30 settembre 1944 gruppi nazifascisti uccisero 1830 persone, soprattutto donne e bambini. La canzone, non è una cronaca cantata, non è una restituzione oggettiva dei fatti, è una riflessione di una giovane donna, appartenente a una generazione che non ha vissuto la guerra, ma dalla guerra e dai suoi dolorosi eccidi trae, a distanza di tempo, delle considerazioni. Sulla morte, sulla vita che rimane, sulla libertà che va sempre difesa, mai data per scontata. Sulla forza di accettare il dolore a superarlo, sulla forza della pietà che porta alla pacificazione. Canzone che obbliga a un ascolto attivo, alla riflessione, all’interpretazione, a cercare un senso. C’è la consapevolezza di una memoria che va mantenuta viva, e che dalla memoria di un fatto atroce debbano rinascere la vita, l’amore. L’amore, che è esperienza naturale, in dote a tutti gli uomini, da praticare, perché è ciò che salva. Non serve che lo si inneggi, che lo si evochi con gesti grandiosi o parole esaltanti, l’amore è nella vita comune degli uomini. E la libertà, che non va data per scontata, va sempre difesa.

La Di Marco è inoltre autrice di Madre severa (Album Disincanto, 2005) canzone ispirata all’eccidio partigiano di Montalto di Cessapalombo, in provincia di Macerata, nel 1943. È una riflessione sulla memoria di chi ancora oggi vive in un territorio che fu martoriato dalla guerra e che porta con sé segni indelebili: la memoria è come una madre severa che ci consegna intatti alla nostra storia. Madre severa ci veglia la memoria ci consegna intatti alla nostra storia

Nel 2004, il gruppo Zuf de Žur nato a Gorizia, nel 1994 pubblica Partigiani!, album interamente dedicato alla Resistenza. Comprende brani partigiani rivisitati dal gruppo con i cori sloveni e altri originali. Come Zog nit keyn mol, inno della resistenza del ghetto di Vilnius, interpretato da Moni Ovadia;

La Brigata Garibaldi, brano che unisce tre canzoni resistenziali: Le chant des Partisans, La Brigata Garibaldi e Bella ciao con la voce femminile di Zuf de Žur Gabriella Gabrielli e del musicista sloveno Vlado Kreslin. E poi Madonuta, testo di Pierpaolo Pasolini, cantata da Giovanna Marini. Tratta da I Turcs tal Friúl, 1976, opera teatrale in dialetto friulano, è stata musicata dalla cantautrice romana per la Cantata per Pier Paolo Pasolini e reinterpretata in questo album. Spunto centrale dell’atto unico è l’episodio storico dell’invasione turca in Friuli del 1499, che lambì anche Casarsa, paese natale di Pasolini, metafora dell’occupazione nazista che avvenne nel 1944, nello stesso territorio.

Il canto è una preghiera accorata alla Madonna perché allontani la morte dal paese: Salva il nostro paese,/salvalo/E tieni lontana la morte/dai poveri giovani,/che tanto ancora hanno da vivere/ancora/e godere, e cantare, e/lavorare, e ballare.

Ivan della Mea, è invece autore di Se il cielo fosse bianco, di carta, canzone scritta nel 1965 e riproposta in questo album da Gabriella Gabrielli. È la lettera di addio di un bambino, Chaïm, prigioniero nel campo di Pustkòv, uscita dal lager grazie all’aiuto di un contadino.

Il suo nome: bandito, brano originale che nasce dal testo tratto dai “Canti clandestini” di Carolus L. Cergoly, poeta e scrittore triestino, musicato da Mauro Punteri e interpretato dalla voce femminile del gruppo. Storia di un partigiano, il suo nome bandito, torturato e ucciso. Quando trovarono il suo corpo gli misero sul petto un cartello: Con la benzina sabotò la Decima M.A.S.”/o bella ciao, o bella ciao/viva la libertà.

Nel 2005 i Modena City Ramblers, incidono l’album Appunti partigiani 1945-2005: “L’idea degli Appunti Partigiani – si legge – non nasce solo dalla voglia di ricordare e celebrare i sessant’anni della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo. (…) Ricordare e raccontare le piccole e grandi storie dei partigiani, di chi ha lottato a rischio della propria vita e delle vittime innocenti, deve contribuire alla costruzione di una società con una forte coscienza civile, di libertà e solidarietà”. Nell’album sono presenti brani riarrangiati da MCR e altri composti in tempi recenti e successivi alla Liberazione.

Come Auschwitz, di Francesco Guccini o La guerra di Piero, di Fabrizio De André.

Ma soprattutto Al Dievel, cantato in dialetto modenese dai Modena City Ramblers insieme al Coro delle Mondine di Novi. [https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/pentagramma/il-canto-collettivo-dellemancipazione/] La canzone è dedicata a Germano Nicolini, detto “il comandante Diavolo”, prima comandante partigiano e poi, subito dopo la guerra, sindaco comunista di Correggio (RE). Si legge che nel 1947 Nicolini fu accusato, insieme ad altri dell’omicidio di don Umberto Pessina, avvenuto nel giugno del 1946. Accusa infondata poiché i tre risultarono estranei alla faccenda, e i veri assassini avevano già confessato. Al Dievel trascorse in prigione dieci anni. Nel 1990 il processo fu riaperto e nel 1994 il caso si chiuse definitivamente con l’assoluzione dei tre innocenti. La voce del Dievel si ascolta alla fine del brano.

Il sentiero, è un altro brano inedito dei MCR, ispirato al primo romanzo autobiografico di Italo Calvino Il sentiero dei nidi di ragno (1947). Ambientato all’epoca della lotta di Liberazione partigiana vede il piccolo Pin protagonista di un viaggio di iniziazione alla vita. Lungo il sentiero dei nidi di ragno/nasce la storia, questo paese/Nasce dal fuoco, dalla rivolta/e dal sogno di chi non si arrese.

Sempre nel 2005 Casa del vento, gruppo combat folk di Arezzo, pubblica Sessant’anni di Resistenza, album dedicato alla memoria dei partigiani e delle genti cadute in quel tempo, ma anche alle ragazze e ai ragazzi di ogni epoca, per sensibilizzarli sui temi di giustizia, diritti ed equità. Le canzoni ripercorrono soprattutto episodi della lotta di Liberazione nella provincia di Arezzo. Ogni brano è la tessera di un puzzle che disegna la mappa di un territorio martoriato. Alcuni fondono memoria collettiva e vicenda personale e biografica. Come Notte di San Severo, interpretata anche da Cisco nell’album 900 di Cisco e la Casa del vento. Racconta del borgo ormai disabitato di San Severo, abbarbicato sulle colline di Arezzo. Davanti alla chiesa cadente resta solo un monumento con nomi e foto ingiallite di diciassette uomini fucilati dai nazisti il 16 Luglio del ’44, il giorno prima della liberazione della città. Tra questi vi era Silvestro, padre di otto figli e nonno di Luca e Sauro, voce e fisarmonica della Casa del vento. Noi, saremo soli/A portare la croce e la storia/Noi, saremo soli/Contro uomini senza memoria, dice amaramente il testo, a rammentare quanto sia doloroso il peso da portare e quanto importante sia, in questo ricordare, non essere soli.

L’album va ascoltato per intero, nel susseguirsi di storie che vedono protagonisti partigiani come Renzino, Il comandante Licio, e fatti come L’assassinio di Pio Borri. Intero album

I partigiani Santi e Salvatore, è la storia di Santi Piperni e Salvatore Vecchioni, partigiani che tentarono di sventare un eccidio nel loro paese di Partina, provincia di Bibbiena. Salvatore, grazie all’intervento e al sacrificio dell’amico si salvò. In quella zona vennero uccise ventinove persone e fucilati sette giovani a Moscaio. La voce del narratore è quella di Salvatore.

In I cinque fiori della Speranza si racconta di cinque partigiani impiccati col filo di ferro lungo la strada che da Arezzo conduce ad Anghiari. Restarono appesi per un mese, esposti come monito per i ribelli. Il luogo però portava un nome particolare: Speranza.

Lettera dal campo di concentramento di Renicci ricorda il luogo in cui vennero deportati uomini e donne dalla Slovenia e dalla Croazia raccolti da truppe italiane. Situato a Renicci di Anghiari, nella frazione di Motina in provincia di Arezzo, venne costituito nell’ottobre 1942 e restò in funzione fino al settembre 1943. Chi da quel luogo scrive chiede di non essere dimenticato. Ti scrivo amore mio/Con un pezzo di carbone/Salvato da questo fango/Di questa prigione./Mi hanno portato via/Dopo la loro invasione/Colpevole di resistenza/Perché non voglio un padrone.

Insieme alla voce di Giovanna Marini, si narra di donne vittime della violenza fascista come Modesta Rossi, moglie del partigiano della Banda Renzino, Dario Polletti, madre di quattro figli maschi, alla quale, il 29 giugno 1944, con una coltellata alla gola un fascista uccise il bambino più piccolo, di pochi mesi. Poi, con un colpo al ventre, lo stesso aguzzino uccise anche lei, dando poi fuoco ai corpi. (Dal libretto).

Chiude l’album Fuochi sulla montagna che passa in rassegna luoghi lontani e diversi dove furono assassinati donne, fidanzate, fucilati compagni partigiani dei quali l’autore si assume l’incarico di tenere viva la memoria: Che porterò con me/Per tutta la mia storia/È l’aria del presente/Domani di memoria.

Il 25 aprile del 2005, Yo Yo Mundi, gruppo folk rock di Acqui Terme, pubblica Resistenza, album dal vivo registrato il 15 gennaio 2005 durante lo spettacolo La Banda Tom e altre storie partigiane tenutosi al Teatro Municipale di Casale Monferrato. Evento a ricordo, a sessant’anni di distanza, dei tredici partigiani della Brigata Tom di Casale Monferrato trucidati il 15 gennaio 1945.

La canzone Tredici, in particolare, è un omaggio alla memoria dei partigiani appartenenti a quella banda. Attiva tra il Monferrato Casalese e l’Astigiano, formatasi nell’inverno ’43, era diventata una delle più temute della zona. I tredici, catturati durante un rastrellamento, vennero incarcerati, processati, obbligati a sfilare per le vie cittadine, e infine trucidati. I corpi, sorvegliati dai soldati per impedire la celebrazione dei funerali, che avvennero solo dopo la Liberazione. Amici e compagni in cerca di fortuna lottando il presente desiderando un domani giovani e belli, ribelli e partigiani erano i tredici della Banda Tom, della Banda Tom

L’ultimo testimone, è la lettera di un figlio che scrive alla madre durante una delle tante notti insonni prima di una battaglia, in cui le annuncia che probabilmente non la rivedrà più. Ma è meglio un figlio morto partigiano gappista che uno ancora vivo traditore e fascista.

Francesco Guccini, nel 2007 incide Su in collina, canzone tratta dalla poesia in bolognese Môrt in culéńna di Gastone Vandelli, sulla musica di Juan Carlos “Flaco” Biondini. Incisa nell’album L’ultima Thule (2012), della guerra partigiana sottolinea la solidarietà tra i protagonisti che si chiamano con nomi di battaglia: Pedro, Cassio, il figlio del Biondo, il Brutto e che, nel gelo di una mattina d’inverno, scoprono che uno di loro è stato torturato a ucciso dai fascisti. Lo seppelliscono e vi posano sopra un bastone, che tutti possano vedere e ricordare. Sotto la neve che cadeva fina/In gran silenzio ogni partigiano/Guardava quel bastone su in collina.

Altro album collettivo è La Rossa Primavera (2011) di Gang, gruppo rock marchigiano particolarmente attento alle tematiche sociali e che alla Resistenza ha dedicato canzoni di grande valore civile.

Come La pianura dei sette fratelli, brano composto per l’album del 1995 Una volta per sempre, cantata insieme ai Modena City Ramblers in Appunti Partigiani (2005) e interpretata dal Coro delle Mondine di Novi, in Il seme e la speranza (2006). La canzone è la storia di una violenza indicibile che si abbatté su un’intera famiglia, la famiglia Cervi, tutti fortemente antifascisti, partigiani e democratici, e sul mondo contadino che essa rappresentava. Fatto di duro lavoro, sacrificio, fatiche, lotte per i diritti, ma anche di pane e miele. Invece, Gelindo (classe 1901), Antenore (1906), Aldo (1909), Ferdinando (1911), Agostino (1916), Ovidio (1918), Ettore (1921), tutti nati a Campegine (Reggio Emilia), furono fucilati il 28 dicembre 1943 nel poligono di tiro di Reggio Emilia da un plotone d’esecuzione fascista.

“Tu sei una quercia che ha cresciuto sette rami – dissero al padre Alcide, che riuscì a salvarsi, in occasione delle commemorazioni -, quelli sono stati falciati, e la quercia non è morta (…) Guardate il seme – rispondeva lui -. Perché la quercia morirà. Se volete capire la mia famiglia, guardate il seme”. Così, “la quercia non c’è più, ma il seme è rimasto e noi non dimentichiamo”, scrivono Marino e Sandro Severini, nel volume “Banditi senza tempo”. La leggenda (…) dirà di sette fratelli, fratelli a tutta la terra/ che sognarono un mondo senza fame /senza guerra, senza paura.

Anche 4 maggio 1944 – In memoria, canzone originale di Gang, ricorda un eccidio, quello del 4 maggio, quando le orde nazifasciste assediarono la località di Sant’Angelo di Arcevia (Monte Sant’Angelo), nella provincia di Ancona. Vennero uccise barbaramente sessantatré persone, partigiani e civili. Fra questi i componenti della famiglia Mazzarini, contadini che avevano offerto rifugio e riparo ai partigiani che operavano in quella località. All’alba del 4 di Maggio/arrivarono le orde assassine/portavano croci uncinate/la feccia del terzo regime […] All’alba del 4 di Maggio/ci bucarono gli occhi e le mani/perché nostra colpa era quella/di esser fratelli dei partigiani/Ma il sangue nostro versato/è quello che inizia la terra/nell’ora della promessa/ora e sempre Resistenza.

Eurialo e Niso (Storie d’Italia, 1993) su musica di Gang, nel testo vede l’intervento di Massimo Bubola che scrive la ballata per una promessa fatta al padre, comandante della Brigata partigiana “Adige” di Giustizia e Libertà. Per l’amore del padre verso la cultura classica e di Virgilio in particolare, l’autore mette in relazione una storia ambientata nel 1943, di due partigiani che vogliono far saltare il ponte a Serravalle e muoiono nell’azione, con l’episodio dell’Eneide che ha per protagonisti i due soldati troiani Eurialo e Niso, giovani guerrieri profughi di Troia, le cui morti costituiscono un esempio di lealtà e coraggio.

Aprile (Corpo di guerra, 2002) è una canzone di condanna di tutte le guerre, e di memoria di quel giorno di aprile in cui tutti “ci siamo fatti storia”. E abbiamo compreso che la memoria va tenuta sempre viva: Venite su al confine/nell’ora del tramonto/voi che siete stati/siete il sale del mondo/voi che vi siete fatti vivi/e viva è la memoria/del giorno che in aprile/ ci siamo fatti storia.

Nell’album, oltre alle canzoni del gruppo marchigiano sono raccolte quelle di altri autori. Come Claudio Lolli, con la canzone Poco di buono. Scritta per il cantautore bolognese e interpretata assieme a lui, da Lino Ricco e Fabrizio Zanotti (Foce Carmosina), e inserita nel suo ultimo album, La scoperta dell’America (2006). Il brano è dedicato al sabotaggio del ponte ferroviario di Ivrea, compiuto la notte del 24 dicembre ’44 da tredici ragazzi partigiani che salvarono la città da un bombardamento. Han visto il ponte l’han visto saltare/Poco di Buono l’ho visto volare/han visto il ponte l’hanno visto cadere/Ivrea ha tremato e stanotte è Natale.

Massimo Priviero, con Pane, giustizia e libertà (dall’album Dolce Resistenza, 2006) racconta invece la storia dello scrittore e partigiano cuneese Nuto Revelli. Il ragazzo camminava, dove le Langhe sono un fiore/Il sole tramontava piano per il soldato e lo scrittore,/per il soldato e lo scrittore.

Nel maggio 2018, Sambene, gruppo di musica popolare e folk marchigiano, pubblica Sentieri partigiani tra Marche e memoria. Opera collettiva che mette insieme voci e strumenti di diversa provenienza: da Michele Gazich a Marco Sonaglia, ai fratelli Severini, alle voci di Roberta Sforza e Veronica Viviani. Il gruppo compone un atlante sonoro di fatti, luoghi, ma soprattutto di uomini e di donne protagonisti della Resistenza antifascista nelle Marche. Combattenti, vittime, o “staffette” che sono ricordati nella loro identità anagrafica e nelle loro imprese, come Nunzia Cavarischia a cui sono dedicate le undici canzoni del disco.

Nunzia, la staffetta, Nunzia il coraggio e la coscienza che ai fascisti non fa riverenza, che resiste agli insulti squadristi e non teme neanche la morte. L’Italia è sempre in guerra – ricorda la canzone – e c’è bisogno di Nunzia, perché la sua memoria sia a difesa dei nuovi insulti contro Resistenza e libertà. La voce di un partigiano introduce il canto.

Poi c’è Nenè Acciaio, giovane comandante carismatico a capo del gruppo “201 volante”, che si arruola nella Rsi per svolgere propaganda antifascista e favorire la fuga dei soldati dalla caserma.

Eraclio Cappannini, capo di stato maggiore a soli venti anni, invece, viene catturato dopo un rastrellamento e prima di morire scrive una lettera: Siate forti come lo sono stato io.

Il partigiano Bebi Patrizi, perde la vita insieme ad altri giovani, ricordati da ventuno pini che sorgono nel luogo dell’uccisione, nei pressi di Montaldo.

Ruth e Augusto, in cui Ruth Wartski, profuga ebrea di Danzica, fuggita dalla Polonia e Augusto Pantanetti, sottotenente di fanteria, sono un simbolo di speranza, dell’amore che nasce anche sotto la guerra.

In Elvio e Ivan, uccisi insieme dalle mitraglie fasciste il 2 maggio 1944, la canzone rammenta a chi attraversa quei luoghi, di non dimenticarli: A Fabriano le mura del cimitero/portano ancora i segni degli spari/Viandante rivolgi il pensiero/Non tradirne, amico, il ricordo.

E poi c’è Achille Barilatti, fucilato contro il muro di cinta del cimitero di Muccia, mentre grida “Viva l’Italia libera!

Derna Scandali, operaia, staffetta e dopo la Liberazione è attivista per i diritti delle donne e dei lavoratori.

Erich, lo straniero racconta di Erich Klemera, soldato della Wermacht che durante uno scontro nelle Marche viene soccorso e ospitato da contadini, curato insieme al padre partigiano di Nunzia Cavarischia. Erich e Nunzia, che dopo la guerra sono diventati amici e raccontano di un futuro possibile. Ogni uomo è straniero/in terra straniera/Nessun uomo è straniero/se lo guardi negli occhi.

Il vento della memoria, narra dello sterminio di cinquantanove uomini il 24 giugno nelle frazioni di Letegge, Pozzuolo, Capolapiaggia a Camerino, provincia di Macerata.

In chiusura del disco un pensiero alle donne che hanno combattuto per i diritti e la libertà. E a quelle che tuttora combattono. Bella ciao, versione mondina (1952).

Del 2019, edizioni Nota, è Per amore odio o un ideale di Mauro Punteri, frontman dei Zuf de Žur, che realizza un album incentrato sulla Resistenza in Friuli a partire dal diario del padre partigiano, Angelo “Lauro” Punteri. Gorizia, città di frontiera e multiculturale (anche i testi sono scritti in lingue diverse: l’italiano, lo sloveno, il friulano) è lo scenario in cui tra l’11 e il 26 settembre 1943, si contrapposero le truppe tedesche che stavano occupando il Friuli e una brigata di partigiani monfalconesi insieme a partigiani sloveni. Quei luoghi conservano la memoria delle tragedie delle foibe, della Risiera di San Sabba, della Zona d’Operazioni del Litorale Adriatico. Luoghi che hanno visto sparire una molteplice e vasta umanità. Per amore, odio o un ideale. Lidia Nino Ottavio Giacuzzo Bruno El Morto, Lauro Milanesi Prati Julo Enea Ulisse, Giù, giù, lungo il fiume, per amore odio o un ideale.

Tra le “Tredici canzoni urgenti” di Vinicio Capossela, album uscito proprio per questo 25 aprile e che si apre con La crociata dei bambini, un brano contro tutte le guerre, c’è anche Staffette in bicicletta, un omaggio al fondamentale ruolo delle donne nella lotta contro l’occupante. Dettato dall’attualità in un momento storico complesso, il disco guarda proprio alla Resistenza e alle tante figure femminili che vi hanno operato per costruire il futuro e la pace. La staffetta baluardo di civiltà/testimoni di umanità voi che passate il testimone. Perché arrivi più avanti/ perché arrivi fino a noi,/che ancora abbiamo da resistere al mostro e alle sue fauci sepolte ai nostri piedi. Per fermare la guerra,/per fermare ogni guerra. Insegnateci, voi madri, figlie, sorelle, compagne dell’umanità.

Quante altre canzoni, già scritte, potrebbero rientrare in questa raccolta e comporre un più vasto atlante sonoro sulla Resistenza. E quante, nuove, potrebbero aggiungersi in futuro, aggiornando e ampliando questa antologia tematica. Perché molteplici sono le storie da ricordare. Innumerevoli le imprese di uomini e di donne che hanno dato il loro contributo alla causa della Liberazione. Storie vere, che ci appartengono e ci richiamano a una partecipazione attiva. Ascoltando, cantando, tenendo a mente. Ricordando. Oggi e sempre.

Chiara Ferrari, autrice del libro Le donne del folk. Cantare gli ultimi. Dalle battaglie di ieri a quelle di oggi, Edizioni Interno 4, 2021; coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli