Per il lavoro che svolgo per un’associazione, Libera, e varie riviste, tra cui Patria Indipendente, una domanda mi resta di competenza e di volta in volta si riafferma prepotente: che nesso c’è tra memoria e storia? Sapendo bene che la questione non si semplifica, provo con un pensiero sintetico. La memoria è studio serio e accurato della storia, a cui si aggiunge la passione, il riferimento concreto alle donne e agli uomini che hanno tessuto tale storia con l’attenzione alle loro gioie, alle speranze, alle sofferenze. Questo rapporto tra rigore e sentimento rende ragione dell’esigenza di ricordare per agire e prendere posizione.
L’estate del 1984 si sarebbe rivelata – per motivi personali – un passaggio fondamentale della mia esistenza. Mentre il 13 giugno risalivo a nord, verso l’Emila Romagna, i treni in stazione erano stracolmi di gente con le bandiere rosse del Pci: era parte della massa dei militanti che si recava a Roma per il funerale di Enrico Berlinguer, a cui avrebbe partecipato un milione e mezzo di persone.
Certe storie non le si pensa al sicuro in mani qualsiasi. Quando ho letto del progetto di un film per il 40° della morte di Enrico Berlinguer, e ho saputo che lo avrebbe diretto Andrea Segre, ho pensato che ne sarebbe potuto uscire un’opera efficace. Segre, veneto, classe 1976, viene da studi e da insegnamento in sociologia della comunicazione e, in particolare, dalla ricerca etnografica, che lo ha condotto a diventare un documentarista militante, con attenzione particolare alla tematica delle immigrazioni nel nostro Paese. Realizza documentari di grande forza ed impatto: in particolare Come un uomo sulla terra (2008) e Sangue verde (2010). Nel 2011 realizza il suo primo film, Io sono Li, con al centro la vicenda di una immigrata cinese in Italia: seguiranno altri lavori dedicati alle migrazioni, La prima neve (2013) e L’ordine delle cose (2013).
Con Welcome Venice (2021) passa a raccontare la dispersione culturale di chi abita Venezia e il complesso cosmo che questa città rappresenta, inchiodata nel rapporto impossibile tra arte, storia e mercato.
Con Berlinguer. La grande ambizione, sceglie un argomento sicuramente impegnativo, vista la memoria grata che riguarda un uomo molto amato, che ha vissuto un ruolo politico fondamentale in un una stagione difficile. L’approccio di Segre e del cosceneggiatore Marco Pettenello si muove su due binari: da un lato centrare la narrazione riportando Berlinguer nell’ambito su cui era più riservato, quello famigliare.
La moglie Letizia Laurenti, le figlie e il figlio Biancamaria, Maria Stella, Marco e Laura, definiscono il contesto in cui l’uomo politico deve esporre e giustificare, confrontandosi in questa dimensione intima su quello che sta vivendo sul grande proscenio della politica italiana. Sull’altro piano, Segre fa un uso del tutto appropriato del repertorio, raccordando lo stile visivo di quanto gira con gli attori, al materiale documentativo dell’epoca. Ne scaturisce una sintesi ben riuscita tra la realtà storica e la descrizione del personaggio in prospettiva più personale, perché ne risulti la compiutezza del focus sull’uomo in quanto tale. Una didascalia finale ringrazia i figli per aver collaborato al film: e in effetti quel che si ricava dai quadri familiari è la sensazione di una verità diretta, espressa da fonti di primo piano.
Su di un livello propriamente storico, la sceneggiatura si concentra sugli anni dal 1973 al 1978. Dal fallito attentato a Berlinguer avvenuto a Sofia, in Bulgaria, ad opera dei servizi segreti bulgari, al sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, dal referendum sul divorzio ai primi tentativi di smarcarsi dall’autorità sovietica da parte del Partito, creando un soggetto politico capace di trasformarsi in chiave pluralista, fino alla drammatica stroncatura del cosiddetto compromesso storico, la possibile alleanza tra Dc e Pci per il governo del Paese.
Lungo il percorso narrativo, si racconta il rapporto del segretario con i vertici del suo partito, ma soprattutto con la sua base elettorale, nelle feste dell’Unità, gli incontri nelle sezioni, i grandi comizi. Qui Segre trova la poesia dei volti dei e delle militanti, quelli interpretati e quelli del repertorio, per raccontarci (o ricordarci) quel che davvero è stato il Pci: non semplicemente un partito, ma la concretizzazione di un sogno, un progetto sociale di vera aggregazione culturale, i cui militanti erano consapevoli della volontà e della possibilità di cambiare la storia. Le fragilità dell’uomo Enrico, il peso del ruolo, ma anche coraggio e determinazione, in una fase che transita, tra l’altro, dalla stagione del terrorismo nero a quella delle Brigate Rosse, con la crisi epocale dell’inizio del declino della democrazia italiana. E di quanto sia grave questa crisi, il film trasmette tutta la portata, pensando a un oggi in cui ogni sogno sembra appassito e preda dell’oblio.
La grande ambizione – lo spiega una didascalia iniziale, citando Antonio Gramsci – è quella di edificare una società solidale, in cui le piccole ambizioni personali si relativizzano, mettendosi al servizio di un progetto enorme, quello di combattere nella storia l’ingiustizia. Il filo degli eventi che percorre il film si conclude con la morte di Moro, uno dei misteri più fitti del dopoguerra italiano: sappiamo molti nomi, la dinamica di molti fatti, ma non del tutto la loro logica.
Al film non spetta prendere posizione rispetto al valore possibile o negativo del compromesso storico, su cui io stesso ho varie perplessità. Quel che credo interessi agli sceneggiatori è cogliere il senso di un cambiamento interrotto, nella domanda inquietante se la democrazia in questo Paese sia stata reale o fittizia, visto come certi processi siano stati interrotti in maniera così drammatica ed oscura.
Ho scritto questo articolo nel giorno del quarantanovesimo anniversario di un altro omicidio devastante, quello di uno dei più grandi intellettuali europei, Pier Paolo Pasolini: il 2 novembre 1975 è un’altra data da segnare nella storia di un Paese in cui sappiamo degli esecutori, ma mai abbiamo avuto la possibilità di portare alla luce i mandanti.
Viene da pensare che, stretto tra le contraddizioni e la negatività del sistema sovietico (le scene al Congresso dei Comunisti a Mosca e degli incontri con Breznev sono al riguardo molto eloquenti) e parte di un sistema politico che non avrebbe mai tollerato che il suo partito andasse al governo, Enrico Berlinguer sia davvero una delle figure tragiche della storia nazionale. Il film ci fa capire questo pesantissimo onere, ma ricorda come l’uomo fu sorretto dalla sua famiglia e godette dell’amore della sua gente e del rispetto dei suoi avversari. Uno dei passaggi finali ci riporta le parole scritte da Enrico alla moglie Letizia, un testo molto bello: la scena in cui comunica ai figli che, in caso fosse stato sequestrato a sua volta come Moro, non avrebbe voluto assolutamente si trattasse con i terroristi, è particolarmente intensa.
Nel finale, tutto di repertorio, scorriamo quanto accadde dopo il 1978: la crisi del sindacato con la marcia dei 40.000 a Torino, l’avvento del neoliberismo con le vittorie della Thatcher e di Reagan, fino alle immagini del funerale a Roma, nel 1984. È l’arco storico sotteso dal film, che fa una scelta precisa nel raccontare un periodo determinato, lasciando allo spettatore il compito di rileggersi quanto accaduto successivamente.
Resta fuori infatti ovviamente molto: i difficili rapporti del Pci con i movimenti e i partiti alla sua sinistra, il passaggio della cosiddetta questione morale (forse il momento politico più difficile: la constatazione che se il Pci non avesse cambiato la sua identità non avrebbe mai potuto governare, ma che questo cambiamento avrebbe snaturato il Partito fino alla sua dissoluzione etica), la questione del rapporto con il mondo cattolico (mi piace citare il carteggio del 1976/77 tra il segretario e il vescovo Luigi Bettazzi, un documento straordinario) e i difficili rapporti con il Psi di Bettino Craxi, nei termini di quella che molti politologhi definiscono la sconfitta del partito, la sconfitta di Berlinguer. Un partito che nonostante abbia rappresentato a lungo un terzo dell’elettorato italiano, governato molte città, provincie e regioni, e avuto come picco massimo quasi due milioni e mezzo di iscritti, non è mai riuscito a governare questo Paese.
Alcune delle formazioni partitiche che deriveranno dal suo scioglimento nel 1991 arriveranno a far parte di governi di coalizione, ma il quadro politico si è così radicalmente modificato che la domanda è quanto sia rimasto della tradizione comunista, del senso di appartenenza culturale e sociale al Pci che si poteva constatare nei suoi militanti, se si può o no parlare non tanto della sua sconfitta, quanto della vittoria definitiva dell’ultracapitalismo neo liberista, che fa da sponda alla destra suprematista, sovranista, di radice sovente nazifascista, al governo in molte nazioni, europee e non.
L’eurocomunismo è archiviato da tempo, anche per la dimensione minima dei sopravvissuti partiti comunisti rimasti nel nostro continente: la terza via indicata da Berlinguer come si colloca nel panorama economico attuale, visto che di socialismo non si parla più e l’unica alternativa al capitalismo sembra rimasto un liberalismo riformista di sinistra? Sono domande che non intendo realmente introdurre in questo articolo. So solo che l’afflato di solidarietà militante e politica a milioni di poveri, di esseri umani a cui sono negati diritti sociali e civili fondamentali, di classi ancora più subalterne che in passato è quanto mai necessario. Non è però il caso di crogiolarsi nella nostalgia: c’è solo da fare e che sia qualcosa di nuovo e adeguato.
Annotazioni strettamente cinematografiche. Il cast mostra la grande valenza del cinema italiano: abbiamo attori e attrici di grande livello. Il lavoro di Elio Germano è davvero ottimo: non punta a una verosimiglianza da trucco o imitazione, ma incarna da interprete la persona, traducendo fisicamente la personalità dell’uomo. Si deve citare la bravura di Citran che interpreta Moro (libero dal fantasma di Gifuni…), Pierobon che rende benissimo Andreotti (è bravo in questo, ma non condivido la chiave un po’ farsesca: la pericolosità di quell’uomo non si redime nemmeno nei suoi tratti più umani), Radonicich notevole nel ruolo di Letizia Laurenti. Ma tutto il cast merita elogio. Riflettendo su altro cinema a riguardo, pensavo non tanto ai documentari – ne stanno uscendo diversi dedicati alla figura di Berlinguer – quanto al Nanni Moretti di Palombella rossa e Il sol dell’avvenire. Si possono rivedere un po’ in sinossi a questo film. Come pure, vi dico che mentre scrivevo mi sono riascoltato Qualcuno era comunista di Giorgio Gaber.
È vero, non è stato solo un partito: è stato un popolo. Sicuramente ha commesso i suoi errori (nel rapporto con i movimenti e con il cattolicesimo; il 1989 lo ha trovato non del tutto pronto). Però non ha mai rinnegato la democrazia, ha provato sul serio a tutelare il bene comune, ha promosso ambiti di evoluzione sociale di cui abbiamo goduto tutti quanti. È da tempo che non adopero più le categorie vittoria/sconfitta, se non per lo sport. Se è stata davvero una sconfitta, come taluni gioiscono nel dirlo, è stata una sconfitta migliore di tante altre vittorie. È questione di dignità, tutto sommato.
Andrea Bigalli, docente di Cinema e teologia all’Istituto superiore di scienze religiose della Toscana, referente di Libera per la Toscana
Pubblicato venerdì 15 Novembre 2024
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