Negli anni 70, ancora abbacinati dai bagliori della contestazione, ci parve troppo amara la visione di C’eravamo tanto amati. Oggi riconosciamo in quella fiction molti elementi di “come eravamo”.
L’amicizia narrata da Ettore Scola, nata nei giorni di fuoco della Resistenza e lacerata dalle vicende politiche e dai vissuti personali del dopoguerra si specchia nella storia italiana di un trentennio.
Come in altre opere intense e significative del regista che ci ha lasciato qualche giorno fa, quali Una giornata particolare, Brutti sporchi e cattivi, La terrazza, La famiglia, Concorrenza sleale, egli ha il talento di trovare tipi e modi, personaggi e immagini adeguate a colpire gli handicap della nostra società: l’ignoranza populista, la tentazione razzista, il degrado della povertà, l’indifferenza ed egoismo borghese, la crescita mastodontica del profitto, il massimalismo inconcludente di certa sinistra, le illusioni e delusioni dei puri, sempre perdenti.
Nel film, sceneggiato da Age e Scarpelli (Gran premio al Festival di Mosca del 1975) i tre amici, Gianni, Nicola, Antonio e le donne Luciana, Elide, sono figure simili a quelle che abbiamo conosciuto, incontrato, amato o giudicato tra il ’45 e il ’70, nelle trattorie romane con la pasta e ceci, sulla scalinata di piazza di Spagna teatro di incontri e chiacchierate, nelle piazze notturne della capitale. E poi, durante le nottate davanti alle scuole per ottenere l’accesso a tutti i bambini. Ritroviamo la gente intenta a seguire “Lascia o raddoppia?”, la grande illusione della Rai che fece balenare il miracolo della ricchezza, il tutto immerso nel riflusso di un’epoca dalle grandi speranze rinnovatrici tradite, mentre imperversava la censura del ministro Scelba contro le verità del cinema neorealista.
Quest’ultimo è presente nelle sequenze, con le sue evoluzioni, i suoi maestri inseriti felicemente nella trama, ripresi nel vivo dell’azione in momenti di incontro e dialogo. C’è Vittorio De Sica, con gli indimenticabili fotogrammi di “Ladri di biciclette’’, ci sono Federico Fellini e “La dolce vita’’, Monica Vitti e Michelangelo Antonioni.
I tre amici che hanno condiviso le battaglie in montagna contro i nazifascisti (le vediamo scorrere sullo schermo in bianco e nero e ci danno il senso palpabile di un’epoca), si ritrovano a Roma nel ’46. Si abbracciano, litigano, si dividono e si rappacificano incapaci di dimenticare quel legame più forte dei fatti personali e delle idee, radicato nei grandi eventi di lotta comune.
Antonio (Nino Manfredi) fa il portantino in ospedale; Gianni (Vittorio Gassman), dopo la laurea in legge, è tirocinante, alle dipendenze di un avvocato importante; Nicola (Stefano Satta Flores) insegna in un liceo ginnasio di Nocera Inferiore. Antonio è invaghito di Luciana (Stefania Sandrelli), una ragazza friulana conosciuta in ospedale che sogna di fare l’attrice. Gianni gliela “soffia”.
Nicola, attaccato per le sue idee progressiste dalle autorità scolastiche reazionarie, lascia l’insegnamento, moglie e figlio per dedicarsi al giornalismo. La scena del dibattito al cineforum dove egli difende le ragioni di “Ladri di biciclette” suscitando l’indignazione del preside, ci riporta al clima di intolleranza di stampo democristiano del ’50.
Seguiamo i protagonisti fino all’ultima rimpatriata in cui non cessano l’antico affetto e gli accesi battibecchi. Per un equivoco Antonio crede che Gianni, dopo dissesti finanziari, tiri a campare come guardamacchine. L’altro sta al gioco, ma più tardi cerca di confessare la verità agli amici. Non ci riesce perché questi non lo lasciano parlare, in nome di quella amicizia considerata un mito. Difficoltà di lavoro e delusioni politiche, sconfitte amorose, difformità di opinioni non possono intaccarla. Su una cosa sono d’accordo. Sono tutti perdenti. Volevano cambiare il mondo e il mondo ha cambiato loro.
A parte i caratteri particolari, i personaggi di questa commedia all’italiana, ironica e intelligente, condita di momenti di leggerezza, ma anche d’impegno civile, sono esempi di tipologie e di problematiche che hanno segnato una generazione. Tutti hanno connotati riconoscibili nella società. L’infermiere proletario rappresenta l’apertura positiva di chi crede nella giustizia e agisce per la solidarietà, incurante di smacchi e umiliazioni. Luciana è la donna che comincia ad emanciparsi. È tornata accanto ad Antonio dopo varie esperienze negative per realizzarsi in un’esistenza più concreta e altruista. L’ambizioso Gianni invece si è “venduto” cedendo l’anima al palazzinaro Romolo Catenacci (Aldo Fabrizi) figura mefistofelica un po’ forzata nel grottesco, che gli appioppa la figlia Elide (Giovanna Ralli) in cambio delle sue consulenze negli affari truffaldini. Il cafone arricchito è l’esempio della corruzione, della truffa, del riciclaggio, insomma rappresenta l’avanzata nel nostro Paese di una logica capitalista truce e spietata.
Gianni ha venduto la propria coscienza all’agiatezza, rinunciando al vero amore per Luciana. La moglie Elide, semianalfabeta, ma sincera e volonterosa di migliorare per piacere a lui, rappresenta la condizione femminile subalterna, vittima del mondo maschile e della propria rassegnazione. Non reggerà all’indifferenza e alla finzione coniugale del compagno, scontento e conscio del proprio fallimento. Hanno messo su famiglia, hanno due figli, ma lei si strugge perché lui non la “vede” come persona e continua a non scordare Luciana. La donna si schianterà con l’auto, forse si tratta di suicidio.
Il verboso Nicola è l’intellettuale piccolo borghese astratto e individualista, un po’ presuntuoso un po’ parolaio, che si ribella a vuoto, incapace di comprendere e incidere concretamente sui rapporti umani e sulla realtà. Si trincera su posizioni indifendibili, perde per i suoi discorsi cavillosi il premio di Mike Buongiorno malgrado abbia ragione, finisce oscuro scribacchino di un giornale. Ci ricorda molti inutili settari del panorama politico.
Vediamo molte scene significative introdotte dalle voci narranti. I ricordi di battaglia sono un motivo ricorrente a cui seguono le scene elettorali del ’50. Poi i locali affollati dai fan per le puntate di Mike Buongiorno.
Più avanti la riunione notturna davanti alla scuola in cui riaffiorano canti ed echi antifascisti. Qui Antonio propone ai genitori presenti un comitato di lotta e di azione. È sempre lo stesso combattente che avevamo visto ribellarsi al tradimento di Gianni gridando “Se semo stufati de esse boni e generosi!”.
Invece l’amico avvocato si allontana depresso dal sit-in. Luciana gli ha appena detto chiaro e tondo che quel loro amore con l’A maiuscola è del tutto sepolto. Ha dimenticato presto il suo abbandono. Ora ha altro a cui pensare, una nuova esistenza, con Antonio, due figli, gli impegni sociali.
Nel finale malinconico e nostalgico che si riallaccia a quello iniziale con le note indovinate del commento sonoro di Armando Trovajoli, assistiamo alla sorpresa di Antonio, Nicola e Luciana che hanno scoperto per caso la villa in cui abita l’avvocato. L’hanno visto tuffarsi nella piscina e hanno capito. Il grande amico ha mentito, non è un guardamacchine, ma un riccone, diverso da loro.
Divisi dal cancello dell’abitazione del vip e lontani dalla sua vita, discutono animatamente fra loro. Sono i compagni di sempre che bisticciano sull’espressione “e vabbè”. Con i loro progetti ridimensionati, ma onesti e fraterni, li vediamo poi scomparire dallo schermo nella utilitaria scassata.
È interessante rileggere oggi questi fotogrammi, per il bilancio di sentimenti e opinioni che proiettano nel nostro presente. Le difficoltà a realizzare il rinnovamento della società italiana promesso dalla guerra di Liberazione sono un assillo che suscita ancora speranze e scoramenti. Il richiamo alla costante degli idealisti che non si arrendono alla débacle, forse patetici, confusi, ma vivi, è come un arcobaleno in una storia umana che ci appartiene.
Serena D’Arbela, scrittrice, traduttrice, giornalista
Pubblicato martedì 2 Febbraio 2016
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