Nei racconti e nelle memorie sugli anni dell’occupazione tedesca in Italia e della Resistenza non è infrequente imbattersi nelle narrazioni di una quotidianità divisa tra la realtà di un dramma in pieno svolgimento e un’affannosa ricerca di normalità, così che nella tempesta della guerra potessero riemergere frammenti del tempo di pace, suscitatori insieme di nostalgia e di speranza per un futuro diverso. A Roma, capitale in guerra e poi “città aperta”, come in altri grandi centri urbani, cinema e teatro agirono da catalizzatori di stati d’animo diffusi e, come spesso capita in situazioni di grande oppressione politica, riuscirono anche stabilire con il pubblico un rapporto più intimo e più complesso di quanto non accadesse in altri momenti, assumendosi il compito di utilizzare il palcoscenico o lo schermo per veicolare in forma più o meno coperta, il dissenso e l’opposizione che il regime fascista prima e poi l’occupazione impedivano di esplicitare.

Un’edizione in italiano del “L’opera dello straccione” di John Gay
Un’edizione in italiano del “L’opera dello straccione” di John Gay

Chissà, ad esempio, che cosa avranno pensato i censori di regime, nel febbraio del ’43, nell’assistere all’eterodosso saggio finale di regia dell’allievo dell’Accademia, Vito Pandolfi, il quale aveva messo in scena al Teatro Argentina una provocatoria Opera dello straccione di John Gay, ispiratrice della brechtiana Opera da tre soldi, avvalendosi della scenografia di Toti Scialoja, delle musiche di Roman Vlad e di interpreti tra i quali apparivano i nomi di Vittorio Gassman, Carlo Mazzarella, Luigi Squarzina e Luciano Salce. Di certo, i rappresentanti dell’autorità avranno colto la trasparente allusione dello striscione preparato da Toti Scialoia, sul quale campeggiava una frase inequivocabile: Le cose ormai hanno preso una cattiva piega; e forse anche qualche funzionario del fascio se ne sarà perfino compiaciuto, e non senza ragione, visto che di lì a poche settimane si sarebbe affrettato a gettare il distintivo del Pnf nella spazzatura.

La provocazione di Vito Pandolfi, che di lì a poco avrebbe militato coraggiosamente nelle file della Resistenza, cadeva, peraltro, in un momento di profonda crisi della politica teatrale del regime: la populistica operazione di decentramento operata con i Carri di Tespi dell’Opera Nazionale Dopolavoro si andava ormai esaurendo senza lasciare particolari rimpianti e la stessa sperimentazione avviata dal teatro dei Guf sotto la direzione di Giorgio Venturini (che avrebbe aderito alla Repubblica sociale) da giovani registi come Gerardo Guerrieri, Enrico Fulchignoni, Orazio Costa, Giulio Pacuvio, Ruggero Jacobbi, oltre al citato Pandolfi, si era gradualmente spenta sia per mancanza di risorse sia per il sospetto che destavano alcune posizioni di aperto dissenso. Del resto, il 1943 è l’anno della chiusura della stessa compagnia del Teatro delle Arti, diretta da Anton Giulio Bragaglia, mentore della giovane generazione di registi e autori, e punto di riferimento del teatro “colto” negli anni del regime.

Eppure, nonostante la crisi e l’infuriare della guerra, il tormentato 1944 romano vide circa 68 debutti teatrali, un terzo circa dei quali rientra nel genere leggero della rivista e dell’avanspettacolo, mentre, in assenza delle direttive del regime, una programmazione meno condizionata dava largo spazio alla commedia prevalentemente di genere comico-sentimentale, vero e proprio porto franco, insieme ai rimasugli della cinematografia dei “telefoni bianchi”, dove si rifugiava un pubblico stremato dai problemi della sopravvivenza quotidiana e terrorizzato dall’occupazione tedesca, in cerca di uno svago di poche ore e delle immagini di un mondo che sembrava perso per sempre.

 

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Wanda Osiris ed Erminio Macario (foto da http://www.xedizioni.it/archivio-epoca/)

Così, proprio nei giorni di via Rasella e delle Fosse Ardeatine, all’Eliseo andava in scena Il quieto vivere, commedia di Alfredo Testoni (autore della fortunata pièce, Il cardinale Lambruschini) e al Quirino si rappresentava Il Re del Bridge pubblicizzato come commedia “brillantissima” in tre atti di Armont e Machard. Nei nove mesi di occupazione, la protesta, la satira, la semplice manifestazione di insofferenza o di anticonformismo sembravano avere abbandonato il teatro ufficiale per rifugiarsi nel più accogliente riparo offerto della rivista e dell’avanspettacolo, dove autori come Metz, Marchesi e Galdieri non risparmiavano frecciate ai padroni del momento, complice un pubblico la cui solida affezione era anche garanzia di immunità rispetto a possibili ritorsioni. Grazie a questa solidarietà tra pubblico e palcoscenico, nella fortunata rivista Che ti sei messo in testa firmata dallo stesso Galdieri, Anna Magnani poteva concludere il suo numero inneggiando alla libertà, malgrado le apostrofi minacciose dei pochi repubblichini presenti in sala, e Totò, nell’interpretare il pastore Aligi risvegliatosi in piena guerra, recitava questa eloquente strofetta: “io penso che le pecore / son stufe di belar”. Del resto, è proprio durante gli anni dell’occupazione che il teatro scopre il gusto della satira d’attualità, genere destinato a larga diffusione nel dopoguerra, che traccia immediatamente una netta linea di demarcazione con gli spettacoli di pura evasione, che pure avevano reso popolarissimi comici come Macario e vedettes come Wanda Osiris.

 

Roma città aperta

 

Anche durante l’occupazione, il cinema contese con relativo successo al teatro la maggioranza del pubblico; e, d’altra parte, il grande schermo rispondeva efficacemente alla diffusa domanda di evasione e di svago disimpegnato; durante il fascismo, aveva dominato la commedia sentimentale e il film storico, e l’intrattenimento era nettamente prevalso sulla propaganda, ma già negli ultimi anni del regime si era fatta strada tra i registi e gli autori più giovani l’orientamento antiretorico che si sarebbe poi affermato appieno con il neorealismo. Resta il fatto che nonostante il coprifuoco alle ore 18, il pericolo dei rastrellamenti e la paura dei bombardamenti, le circa sessanta sale romane funzionano a pieno ritmo, con una programmazione non certo esaltante, costretta a riciclare vecchi film, soprattutto italiani, mentre si era fermata completamente la produzione: gli stabilimenti di Cinecittà erano stati smantellati e saccheggiati dai tedeschi, il poco che restava della cinematografia fascista si era rifugiato a Venezia, e a Roma registi, autori, attori e tecnici, rimasti quasi del tutto senza lavoro, vivevano alla giornata, ed alcuni di loro si erano dati alla macchia. Con la Liberazione di Roma, cinema e teatro ritrovarono rapidamente il loro pubblico, anche grazie alle decisioni delle autorità alleate che spostarono alle ore 21 del coprifuoco, autorizzarono di nuovo la circolazione delle bicicletta (vietate dai nazifascisti perché utilizzate nelle audaci azioni dei Gap), e rivolsero un esplicito appello a riprendere gli spettacoli pubblici. Un effetto non secondario del nuovo clima sarebbe stato l’arrivo delle prime pellicole americane, da tempo agognate da un pubblico autarchicamente stremato da insignificanti prodotti nazionali: si trattò di una concorrenza stimolante per l’industria cinematografica italiana che riprese la sua attività con prospettive completamente rinnovate. È in questo clima di ritrovata libertà che Roberto Rossellini e Sergio Amidei, coadiuvato dal giovane Federico Fellini, iniziano a preparare la sceneggiatura del film-manifesto del neo-realismo italiano, Roma città aperta le cui riprese iniziano nel gennaio 1945 e si concludono in tempi strettissimi, emblematici della volontà di molti artisti di restituire all’Italia ed al mondo intero il senso della grandiosità e tragicità degli eventi di pochi mesi prima.