In una sua straordinaria canzone, Francesco De Gregori racconta il valore fondamentale del prendere parte alla Storia e sottolineava la necessità di farlo prendendo posizione, anche soltanto se siamo quelli “che scriviamo le lettere”. La storia; e noi che viviamo in uno dei suoi scampoli, nel frammento che circostanze e casualità ci consegnano. Quella storia che sembra più grande di noi e pare comunque avere il potere di inghiottirci e distruggere i nostri sogni.
Eppure questa stessa storia in certi passaggi consegna a donne e uomini il potere di affrontarne gli esiti, indirizzarne le prospettive, contrastarne le logiche quando sono ingiuste e violente. Nel corso dei secoli lo strumento del Diritto continua a tenere viva la speranza che non sia possibile far prevalere il dominio dei violenti e le loro logiche di ingiustizia e di morte. Alcune vicende ci ricordano che è bene tenere vivo questo senso di resistenza, che giustifica la nostra coerenza, la nostra dignità personale.
Il cinema raccoglie alcune di queste vicende e ne fa narrazioni, più o meno riuscite: talvolta gli autori sono in assoluto stato di grazia e ne fanno film epici. Non mi viene altro aggettivo per quello di cui vorrei parlarvi.
1983: dopo anni oscurissimi della dittatura della giunta militare presieduta dal generale Jorge Rafael Videla, in Argentina si torna alla democrazia. Il presidente Raul Alfonsin dà l’egida del governo al lungo percorso di ricostruzione degli eventi criminali che avevano caratterizzato gli anni della dittatura, la terribile sequela delle violazioni dei diritti umani, negli anni dal 1976 al 1983. Il risultato delle indagini mostrava già chiaramente le responsabilità atroci dei nove membri che avevano costituito le tre giunte militari avvicendatesi al potere in quegli anni. Di fronte al rifiuto della corte marziale di processare i generali coinvolti, Alfonsin ne affidò il giudizio a una corte di sei giudici civili.
Della pubblica accusa venne incarico il procuratore Julio César Strassera, coadiuvato dal giovane Luis Moreno-Ocampo. In pochi mesi avrebbero dovuto istituire il processo, raccogliendo prove, identificando testimoni, il tutto in un clima assolutamente ostile da parte dei militari e delle forze politiche di destra che avevano sostenuto il regime.
Il film racconta questa storia, dicendoci cos’è davvero la Storia: il primo procedimento giudiziario in cui una democrazia porta alla sbarra un regime dittatoriale, un processo chiamato a determinare gli orrori delle violazioni dei diritti umani. Come a Norimberga, che peraltro aveva avuto caratteristiche diverse. Non furono i tedeschi a giudicare i gerarchi nazisti: qui gli stessi argentini portavano alla sbarra i colpevoli, dovendoli giudicare non solo nell’aula del tribunale.
Il regista Santiago Mitre ha deciso di impostare la sceneggiatura sulla figura del procuratore Strassera, avendo a disposizione per interpretarlo un attore straordinario come Ricardo Darin, già grande in molti altri film, tra cui “Il segreto dei suoi occhi”, ma ha tradotto una opzione di soggetto che sembra usuale – il cosiddetto cinema processuale imperversa ormai da anni sugli schermi, raccontare la storia di un processo senza andare sul già visto è praticamente impossibile – in una narrazione assolutamente non retorica, evitando topoi scontati con grande abilità.
Una chiave del film è sicuramente il rapporto con il suo assistente Moreno-Ocampo, ma anche con la famiglia, i figli, la moglie, che diventano la sua interfaccia, a volte dolcemente irridente e contestataria, a volte di sostegno senza riserve, definendo carattere e scelte del protagonista. Tutti i personaggi sono consapevoli che fare questo processo sembra scalare una montagna troppo alta per le forze di chiunque: Strassera spera fino all’ultimo di poter evitare l’incarico, ma quando sarà il momento non si tirerà indietro, unico insieme a Moreno-Ocampo ad accettare l’incarico.
Sospeso tra la delega da parte della presidenza a levare le castagne dal fuoco di un esito processuale che potrebbe scatenare un nuovo golpe e le pressioni intimidatorie delle forze politiche di destra (che si traducono in una serie nutritissima di minacce, anche direttamente da parte delle forze armate), il procuratore e il suo assistente devono affrontare anche i loro demoni personali. Strassera durante i lunghi anni di dittatura poco ha potuto fare per evitare la repressione e ciò gli resta come un’ombra sull’anima; Moreno-Ocampo viene da una famiglia che appartiene all’élite politico militare argentina e staccarsi da una storia del genere ha il suo peso (i dialoghi con la madre sono una delle chiavi di lettura del film).
Con uno staff molto giovane (le scene della selezione di chi ne farà parte sono assai gustose) che deve al contrario prendere coscienza di una storia collettiva per loro in parte ignota, il processo si inquadra anche in questa prospettiva su come le generazioni apprendono i termini del proprio collocarsi politico.
Ma il fulcro del film, e ancor più della vicenda reale, sono le deposizioni dei torturati e dei familiari dei desaparecidos: qui la narrazione, pur asciutta e non indulgente al particolare ad effetto, commuove e indigna. Questo è propriamente il valore di questa opera: la memoria dell’orrore passato, per rimanere viva e di ammonizione, deve essere segnato di oggettività, con la parzialità di chi mette al di sopra di tutto il rispetto dei diritti umani, a partire dai più urgenti e immediati: tutela della vita e dell’integrità, rispetto della dignità. Ma al contempo ci deve essere passione per la tutela delle vittime e, in fondo, della Legge stessa.
Del resto come afferma Nanni Moretti in una scena cult (almeno per me) del suo documentario sul golpe in Cile del 1973, “Santiago Italia”, «io non sono imparziale». Non lo si deve mai essere: tra il potente e le vittime una pregiudiziale a favore di queste ultime fa parte del senso reale del Diritto, che nasce principalmente per dare garanzie al debole e al marginalizzato.
Don Lorenzo Milani lo dice con chiarezza in una frase celeberrima: «Nulla è più ingiusto che far parti uguali tra disuguali».
Le scene delle deposizioni più drammatiche trovano il controcanto nell’atteggiamento degli imputati, con il particolare inquietante del cattolicissimo Videla che legge la Bibbia ostentando distacco da quanto ha intorno. Occorre fare due notazioni: nessuno degli inquisiti ha mai mostrato il minimo segno di pentimento, ergendosi comunque a difensori della democrazia contro il pericolo marxista. Tra i generali a giudizio c’era Eduardo Massera, che aveva comprovati rapporti con Licio Gelli e la P2, la criminale massoneria deviata italiana. Certi circoli viziosi si chiudono sempre così: su Gelli si può commentare che non è mai stato messo del tutto di fronte alle sue enormi responsabilità come sarebbe dovuto accadere.
Un solo appunto al film di Mitre. Sembra mettere in secondo piano l’azione delle associazioni umanitarie, che in realtà fecero il previo lavoro di identificazione delle vittime e delle testimonianze, talora pagando caro e in prima persona. Le stesse Madri e Nonne di Placa de Mayo rimangono un po’ sullo sfondo. Per il resto, averne di lavori così.
Capace anche di negarsi un finale convenzionale: è una delle rare volte che un film su di un processo rinuncia alla scena topica della sentenza in aula. Ne prospetta così uno ancora più incisivo, che tra l’altro attiene a quanto Strassera e Moreno-Ocampo fecero dopo il 1985, proseguendo il loro lavoro nei vari livelli successivi di giudizio e allargandone le competenze alla giurisprudenza internazionale sulle violazioni dei diritti umani. Dopo aver saputo della decisione dei giudici, il procuratore si mette subito alla macchina da scrivere per redigere l’appello. Infatti non tutti i generali vennero condannati, alcuni furono assolti, altri non ebbero pene adeguate. Videla sì, ergastolo. Fatemelo dire, per favore: grazie a Dio.
Un passaggio di quelli inevitabili Mitre non se lo risparmia, e del resto non glielo avremmo concesso: l’arringa finale di Strassera, riproposta fedelmente è interpretata magistralmente da Darin. Questa la conclusione: «Desidero rinunciare a qualsiasi pretesa di originalità nel chiudere questa mozione. Vorrei usare una frase che non è mia, perché appartiene già a tutto il popolo argentino. Con il vostro rispetto: Nunca mas!».
Perché “la storia siamo noi, Bella ciao, che partiamo”.
Andrea Bigalli, docente di Cinema e teologia all’Istituto superiore di scienze religiose della Toscana, referente di Libera per la Toscana
Pubblicato sabato 15 Aprile 2023
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