Con Dogman, al recente Festival cinematografico di Cannes, Marcello Fonte ottiene la Palma d’oro di miglior attore. È un interprete strepitoso non professionale che ha alle sue spalle un’esperienza esistenziale di baracche e di fatica, ma anche di passione per la lettura e per il cinema. Il suo volto vissuto emana forti emozioni e credibilità. È merito di un regista impegnato come Matteo Garrone aver scoperto questa risorsa per il cinema italiano.
Il racconto filmico di atmosfera inquietante è una rappresentazione di ciò che si svolge sotto i nostri occhi nelle zone più emarginate delle periferie romane e un’interpretazione d’autore che rafforza le immagini. Al centro Marcello (Fonte), un personaggio vero, dalla disarmante mitezza. Ma anche il “cattivo” Simone, è assai convincente. Edoardo Pesce interpreta ottimamente l’ottusità del maciste prepotente. Entrambi sono avvolti dal degrado locale fatto di ignoranza ed abbandono.
Marcello è calmo, svolge il mestiere di tolettatore di cani che lo mette a confronto anche con animali ringhiosi e bulldog dalle fauci spalancate. La remissività però lo rende preda del dispotismo di Simone, temuto da tutti gli abitanti dell’ambiente. Un gruppo di questi si trova spesso a discutere al bar della necessità di liberarsi dello scalmanato, delle sue risse e ricatti. Francesco il portoricano (Francesco Acquaroli) gestore della sala giochi, vorrebbe attivare gente di fuori, altri, come Franco (Adamo Dionisi), piccolo commerciante d’oro sono per l’attesa: «Tanto è “segnato” – dice –. Qualcuno prima o poi perderà la pazienza e si deciderà ad eliminarlo».
Per la sua storia Garrone prende le mosse da un fatto di cronaca nera del 1988 a Roma, clamoroso e orripilante. Pietro De Negri, detto “il canaro”, fu accusato e confessò di aver ucciso al colmo dell’esasperazione per le ripetute sopraffazioni, nel suo negozio della Magliana, Giancarlo Ricci ex pugile, suo persecutore, cliente di cocaina e debitore, dopo averlo rinchiuso in una gabbia e sottoposto a inaudite torture. L’uomo era noto nel quartiere per le violenze e i numerosi soprusi.
Da questa ispirazione nasce però una trama originale. Il regista l’ha ripensata in anni successivi e il distacco temporale e l’approfondimento hanno dato spazio a una complessità che va oltre i meccanismi dell’azione.
L’intreccio, un distillato di rabbia e desolazione, offre una puntuale caratterizzazione dei personaggi, ma svela anche l’emblematicità degli eventi individuali. Ci rimanda all’attualità, al clima impietoso delle nostre città, all’escalation dei crimini, al ricorso montante al grilletto e al coltello e di lì alla crisi dell’etica. Marcello, sorprendente per l’affetto verso gli animali e l’amore per la figlioletta Alida, si fa perdonare i cedimenti verso Simone che usa la superiorità fisica come arma contro la comunità. La legge del più forte li contamina entrambi come vittime del decadimento sociale più generale. Anche Marcello non è perfettamente in regola. Spaccia cocaina per offrire alla figlia adorata il lusso di qualche vacanza al mare. Quando i due si immergono nell’azzurro dei fondali la loro illusione sembra un riscatto dal buio del quotidiano. Questa intesa tra padre e figlia è descritta in modo intenso e tenero. È tra le più indovinate la scena in cui Alida guida il padre nella cotonatura di una buffa cagnolina dal pelo gonfio e con una cresta.
Ma Marcello è plagiato da Simone, non riesce a dirgli di no e si lascia trascinare in imprese illegali. Prima fa da palo nella rapina di un appartamento. La ricompensa è scarsa e quando Marcello risentito spacca la moto del compare, l’altro lo picchia di santa ragione. Poi però, quando viene ferito in un improvviso regolamento di conti, il bullo viene curato dall’amico con la stessa premura con cui tratta i suoi cani.
Si profila un altro colpo. Simone per svaligiare il locale adiacente del “compra-oro” esige da Marcello, dapprima riluttante, le chiavi del suo appartamento. Il furto viene scoperto, ma Marcello non parla alla polizia, non si sente di tradire l’amico, che le stesse forze dell’ordine segnalano come colpevole. Preferisce farsi un anno di galera e perdere la stima dei vicini.
L’esperienza bruciante della prigione lo cambierà. Pesano ormai su di lui la parola “infame”, l’isolamento e il disprezzo dei conoscenti. Per di più Simone lo insulta e lo aggredisce quando lui chiede una parte della refurtiva o almeno delle scuse. Marcello decide così di farsi giustizia da solo. Riacquisterà – crede – il rispetto di coloro che da tempo meditavano di eliminare il violento senza riuscirci.
Attira Simone nel suo negozio con la promessa di un grande carico di cocaina e grossi guadagni. Lui dovrà nascondersi in una gabbia e poi saltar fuori atterrando i fornitori. Simone non ci vede chiaro, esita ma alla fine accetta il piano ed entra nella trappola mortale.
La narrazione filmica di Garrone trae l’essenza dai sentimenti e dai gesti glissando sui molti orrendi particolari dell’evento passato. Solo il tramestio sinistro di latrati, urla e sconquassi del prigioniero nella gabbia ci dà l’idea di quel massacro. Sotto l’effetto della cocaina vediamo Marcello infierire sul corpo tumefatto del nemico e finirlo. Marcello non è più l’uomo dalle parole rassicuranti che accarezza gli animali, il papà dei momenti magici con la figlia il paziente incassatore di soprusi. La vittima si è trasformata in carnefice.
Nel finale allegorico appare il deserto della speranza. Gli esterni del villaggio Coppola nel Casertano, ripresi in una livida luce dalla efficace fotografia di Nicolai Bruel, caricano la scena di un penetrante squallore espressivo. È l’alba e Marcello, dopo il delitto e il rogo del cadavere di Simone, si rivolge come allucinato verso il prato dove, con i vicini, era solito giocare a calcetto. Crede di vederli, li chiama, grida loro che ha fatto finalmente giustizia ma poi si accorge di avere di fronte il vuoto. Anche questa assenza immaginaria resa concreta e palpabile è simbolica. Racconta la solitudine di Marcello, circondato dall’indifferenza globale dello stesso paesaggio, governata dal silenzio e dalla paura.
I due caratteri contrapposti infine si ricongiungono in un’unica sconfitta. La mansuetudine di Marcello, non ha trovato risposta, né la troverà tramutata in omicidio. Anche Simone è una vittima. Schiavo della propria aggressività bestiale è il prodotto di una condizione sociale irrisolta, imbarbarita dalla droga. È chiara l’allusione alla violenza che sta dilagando come un cancro nel tessuto sociale. Non solo nelle periferie malate, ma nel cuore delle relazioni contemporanee.
Serena d’Arbela, scrittrice, traduttrice, giornalista
Pubblicato venerdì 1 Giugno 2018
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