Il film, dai molteplici spunti, esempio di valori autentici e non di compromesso politico e produttivo, ha attratto molti consensi in una competizione conclusasi con un verdetto discusso. Protagonista è una coppia unita, del ceto medio, costretta ad un trasloco per l’improvvisa inagibilità del palazzo. Dopo le fatiche dello sgombero, piomberà nella loro esistenza un drammatico episodio che turberà profondamente la serenità familiare.
Questo thriller avvincente e di innegabile interesse ci porta dalla realtà quotidiana di Teheran alla tensione del giallo permeato di introspezione psicologica, di rimandi sociologici culturali e di costume. Al centro la solitudine della donna, sempre vittima di un secolare maschilismo, presente nelle istituzioni e nelle coscienze. Ma anche la fragilità maschile, il senso dell’onore, proiezione del possesso, che ispira al protagonista un irrefrenabile desiderio di vendetta.
Emad e Rana sono persone normali e appassionate di teatro. Li vediamo intenti a rappresentare su un modesto palcoscenico la celebre pièce di Arthur Miller “Morte di un commesso viaggiatore”. La situazione drammaturgica newyorkese è un legame allusivo per il regista, un paragone tra la società americana in travaglio tra vecchio e nuovo e l’attuale, turbolenta, evoluzione iraniana. Per Fahradi la New York di allora somiglia alla Teheran odierna: una città in movimento vorticoso che abbatte il patrimonio del passato e costruisce palazzi al posto di orti e giardini.
Ma ecco la storia.
Il caso si complica con la figura del cliente, che in qualche modo richiama il Willy Loman del dramma di Miller. È un perdente, un venditore al tramonto (Farid Sajjadihosseini) protetto da familiari affettuosi, ignari della sua segreta relazione. La misteriosa partner del “latin lover” non si vedrà mai. Della sua presenza resta solo un cumulo di valigie e vestiti.
Quando Emad scopre l’identità del colpevole e lo inchioda brutalmente alla verità dei fatti, l’anziano libertino, malato di cuore, si trasforma in una vittima, logorata da un affanno interiore oltre che fisico. Ha un malore e si lamenta del proprio fallimento esistenziale, racconta le sue peripezie, implora il perdono. Egli teme più di ogni cosa il giudizio dei suoi, il torto alla moglie premurosa. L’escalation della vicenda presenta così un nuovo bivio. Di fronte all’autoambulanza che preleva il reo si fronteggiano la voglia punitiva di Emad ben rappresentata da Shahab Hosseini (premiato a Cannes come miglior attore nel 2016) e la rinuncia di Rana.

Fahradi sviluppa con maestria, senza forzature, in crescendo, le diverse chiavi filmiche, le fasi coinvolgenti della trama con suspence alla Hitchcock e, con raffinata penetrazione, le diverse angolazioni, il femminile e il maschile. Sullo sfondo, una società in via di cambiamento, dotata di cellulari e smaniosa di cemento, ma ancora pesantemente antica.
È spontanea in noi la memoria di periodi superati della nostra stessa storia, legata a pregiudizi, muliebre inferiorità e moralistici divieti mai completamente sconfitti.
Le sequenze evidenziano che i progressi di civiltà della classe media iraniana sono frenati dal contesto repressivo e dalla censura. Lo stesso racconto filmico, come riconosce Fahradi, deve tenere conto di strette regole e ricorrere spesso alla narrazione indiretta. Il termine prostituta, ad esempio, si pronuncia raramente ed è sostituito da definizioni più vaghe. I particolari del presunto stupro nel bagno restano oscuri.
Vi è poi una certa indulgenza verso il presunto violentatore che si sviluppa nei fatti e appartiene allo sfondo ambientale e culturale. Sembra che l’offesa della donna sia sommersa dallo status quo, dall’ipocrisia e dai muri che la circondano e la opprimono. Rana (Taraneh Alidoosti, molto brava nella delicatezza della parte) si schiera contro la furia vendicativa del marito, ma che cosa la guida? Sembra un fatalismo, fatto di pudore e mestizia. Vuole dimenticare, andare avanti. Siamo ben lontani da una protesta, da una risposta femminista. Ricordiamo che queste cose avvengono ancora anche da noi.
Nella recita finale si sdoppia la crisi coniugale non risolta, proiettata nel futuro. L’inserimento del teatro di Miller nel percorso filmico, ha svelato l’intenzione relativistica di Fahradi: mostrare il contrasto fra l’immagine ideale dei personaggi sul palco e la perdita di valori evidente nella realtà. Emad e Rana, ancora attori sulla scena, affidano la soluzione delle loro vicende di vita alla nostra interpretazione di spettatori.
Serena D’Arbela, scrittrice, traduttrice, giornalista
Pubblicato mercoledì 8 Marzo 2017
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