Il regista Matteo Garrone con il cast del film “Io capitano” a Venezia (Imagoeconomica. Leonardo Puccini)

Questo film verità sui giovani migranti che partono sfidando la morte merita di essere visto da tutti. Premiato col Leone d’argento alla regia alla 80ª Mostra di Venezia, è stato candidato come miglior film straniero ai Golden Globe 2024. La messa a fuoco attenta e partecipe di Garrone viene a proposito, ispirata a racconti e testimonianze reali, sceneggiata insieme a Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini e Andrea Tagliaferri.

È una messa a punto contro chi tratta il problema dei drammi dell’Africa con leggerezza e indifferenza o crede ai luoghi comuni, alle fake-news e a certa propaganda politica. La regia inquadra dal basso la vita grama dei protagonisti dei villaggi con le madri coi fratelli, le ristrettezze, la povertà, l’illusione di essere accolti a braccia aperte in un’Europa felice, quell’eden offerto dalle immagini bugiarde dei media e della pubblicità. Chiarisce le ragioni dei disperati costretti a cercare lavoro o asilo dall’indigenza o dalle guerre, spinti dal bisogno, a spostarsi fra mille incognite e pericoli in cerca di una vita migliore.

L’attore senegalese Seydou protagonista del film di Garrone. (Imagoeconomica, Leonardo Puccini)

Li rappresenta il giovane Seydou (Seydou Sarr) insieme a Moussa (Moustapha Fall) suo cugino. I due ragazzi pieni di ingenue speranze sono decisi più che mai a partire da Dakar. Qualcuno che è tornato e ha già vissuto l’odissea dei barconi tenta di scoraggiarli  ma non riesce a liberarli dall’illusione e dal desiderio di realizzarsi. C’è anche l’euforia giovanile e una buona dose di incoscienza che suggerisce “ce la farò”.

Non immaginano le difficili prove che li attendono. Il film mostra come dovranno affrontarle giorno per giorno e superarle con coraggio restando insieme. Verranno defraudati a poco poco del piccolo gruzzolo accumulato con lavori extra. Verranno imbrogliati da trafficanti su di un’auto fantasma che dovrebbe traversare il deserto e scaricati invece in mano a dei ladroni. Poi torturati in un carcere mafioso e sempre seviziati umiliati e abbindolati con la speranza di arrivare a Tripoli. Vi è tutta una rete di abusi e di trappole per i migranti che scorre sotto i nostri occhi.

Una delle scene oniriche del film

Accanto ai crudi fatti Garrone inserisce nella narrazione un parallelo di presenze naives che rimandano all’immaginario africano. Sono visioni di Seydou, orchi, apparizioni, personaggi in volo che tramutano in sequenze surreali gli incubi del vissuto quotidiano.

Il cammino travagliato del protagonista con l’incisiva interpretazione di Seydou Sarr (Premio Marcello Mastroianni a Venezia) procede fino al colpo di fortuna. Venduto come schiavo e improvvisatosi muratore al soldo di uno sceicco del luogo riesce a costruire con l’aiuto dell’anziano Mohammed (Hichem Yacoubi) una pretenziosa fontana kitsch. Assecondata la mania di grandezza del nuovo ricco, ottiene la libertà e il viaggio pagato per raggiungere la meta tripolina.

Intanto sventure e avversità lo hanno separato da Moussa e Seydou lo ritrova solo grazie alla sua ostinazione. Il ragazzo è disabile per una grave ferita alla gamba. Non c’è più traccia di fiducia in lui, che era agli inizi il più entusiasta. Ora vorrebbe solo andare in ospedale o tornare a casa. Il cugino sa che nel nosocomio tripolino il malato farebbe una brutta fine, perché i neri vengono ignorati. Lo incita ad imbarcarsi. Potrà curarsi in Italia.

Uno dei tanti barconi naufragati nel Mediterraneo ribattezzato “cimitero dei migranti”

Un trafficante gli offre un facile imbarco se farà lui lo scafista. All’inizio rifiuta, perché non ha mai guidato un’imbarcazione e non se la sente di rischiare. Ma non ha soldi e l’altro lo convince. È facile, dice, ti mostrerò come. Anzi alla fine lo costringe. Seydou ha paura è pieno di dubbi vedendo il carico di donne e bambini a lui affidato sullo sgangherato battello. Non ha perduto la sua umanità ma ormai deve accettare.

Malta. Porto de La Valletta

Ha inizio così un altro ciclo di avventure marine. Lui, comandante improvvisato, chiede aiuto invano a tutte le organizzazioni. Viene respinto da Malta. Dovrà anche sedare una rissa dentro la barca per la carenza d’acqua, curare una donna incinta che gli ricorda sua madre. È un vero miracolo se alla fine riesce ad approdare in  Sicilia, portando in salvo tutti i passeggeri.

Gli episodi ci coinvolgono per la loro verosimiglianza con la cronaca reale e ne evocano tanti altri. Il film da racconto diviene quindi anche documento. Rispecchia quello che veramente accade. Smaschera molti luoghi comuni sugli scafisti: più disperati che colpevoli. Chi si arricchisce e organizza non è mai a bordo.

Ci colpisce particolarmente la visione del paesaggio offerta dalla fotografia di Paolo Carnera. È densa di valori estetici ma anche di opposti messaggi. La calma bellezza della superficie del deserto e quella del mare raccontano il pericolo, gli ostacoli mortali contro l’uomo impotente. La distesa sabbiosa pittoresca e misteriosa disseminata di cadaveri narra la morte e così le onde increspate e azzurrine del vasto mare che inghiottono centinaia di vite.

Il grido finale imperioso di Seydou “Io capitano” è anche un premio. È riuscito a portare in salvo tutti. Quell’io rivendica la forza della giovinezza e la lotta per contare per sé e per la propria gente. Non possiamo scordare le atrocità attraversate e subite, i morti nel deserto, le violenze dei campi libici, veri lager organizzati in combutta con le autorità locali, la fame, le percosse. Tutto questo avviene veramente con la tolleranza indifferente dell’Europa e degli interessi e affari coloniali.

Il giovane capitano ha guadagnato duramente il suo ruolo  sul campo. Non è solo sopravvissuto, è maturato e ha salvato esseri umani. Lui ce l’ha fatta. Ma quanti altri soccomberanno?

Serena d’Arbela, giornalista e scrittrice, per Bordeaux edizioni ha pubblicato il libro “Lo sguardo acuto del cinema”