Dicendogli addio, vediamo scorrere i suoi 18 film, conditi di premi, confluire e scontrarsi tutti gli elementi della sua idea cinematografica: la trasgressione, la passione rivoluzionaria, la sensualità e la raffinatezza, lo sguardo poligonale. Ci accorgiamo che la sua visione dietro l’obiettivo ha colto il movimento della realtà che all’improvviso scompone ogni programma, mirando a ricomporsi in una lontana armonia. Non si ferma, passa di tema in tema cogliendo l’apertura relativistica del tempo e della vita, il collettivo e il privato in una perenne inquietudine.
È indubbio che nel suo racconto filmico e nella cura della forma del linguaggio cinematografico c’è quel lirico punto di partenza legato alla biografia familiare: il padre Attilio illustre poeta e una famiglia satura di cultura.
Il fermento istintivo e quella formazione gli suggeriscono ancora adolescente l’amore per i versi e l’immagine. Vi si lega il cinema, nuova attrazione per lui adolescente a Parigi: la Nouvelle Vague, Jean Luc Godard, FrançoisTruffaut e poi in Italia Pier Paolo Pasolini, le sue inquadrature frontali e sacrali ispirate a Dreyer. Di là partirà, rovesciando la staticità con un originale dinamismo, inseguirà le forme della bellezza, il corpo femminile e maschile, l’espressione, il dialogo col paesaggio nelle sue diverse vibrazioni, dalla grigia piattezza della pianura padana alle distese misteriose del deserto africano, catturando come messaggi il canto degli uccelli delle cicale e dei grilli, i muggiti dei buoi, ma anche i rumori del lavoro quotidiano sulle aie contadine. E poi rievocherà il fascino dei tesori eterni, i capolavori artistici orientali, templi, statue, riti che imprigionano drammi e poi scoverà i misteri profondi dell’intimo, degli sguardi, delle parole, dei silenzi, gli enigmi della natura, il leitmotiv della nebbia parallela allo scorrere delle sue storie e dei personaggi.

Ma c’è anche nel suo filmare l’inquietudine sanguigna della sua terra, la bassa parmense, il fremito rivoluzionario congenito, l’anelito contadino di giustizia, le lotte sociali, il rosso delle bandiere, le promesse del comunismo battagliero. Quel rosso che nel suo film Novecento (1970) contrasta col colore terreo dei volti poveri dei mezzadri sui carretti traballanti, cacciati dagli agrari dai loro poderi il giorno di san Martino, col nero dei gendarmi a cavallo e delle divise fasciste, materia epica del racconto nazional-popolare del film.
Una memoria vissuta che diviene fervore e complessità della sua ispirazione. Lo porterà a cogliere in modo altrettanto autentico l’umanità lacerata delle periferie romane disastrate degli anni 60 osservata con lente esistenziale, le capanne di cartone e le “lucciole” giovanissime e vecchie che si vendono tra le rovine, i ragazzi di vita squattrinati ne La commare secca, suo primo film affidatogli da Pier Paolo Pasolini. C’è nel suo cinema la lezione di Marx, che spinge alla lotta le masse lavoratrici: il “fantasma” del comunismo che è arrivato fin nelle campagne. Le vite parallele dei due protagonisti di Novecento Alfredo ed Olmo, il padrone e il contadino illustrano i contrasti secolari tra profitto e lavoro. E c’è quella di Freud, che scava nel subconscio per sollevare le parti occulte del singolo, c’è la libido svincolata dal sessantotto che insorge contro gli steccati secolari (Ultimo tango a Parigi, 1972) e c’è lo spiritualismo profondo, la saggezza implacabile dell’oriente in cui annega la disperazione individuale (L’ultimo imperatore, 1987).
Bertolucci è maestro nel cogliere soprattutto l’imprevisto, l’anomalia, l’ambiguità, il relativo della verità, i segreti del subconscio che turbano la vita umana e la società con le sue ipocrisie e le ragioni del potere. Qui devono leggersi le discordanze umane, le sfasature tra donna e uomo, tra padri e figli, tra amici e compagni, i tradimenti, i sensi di colpa, la Storia. Così nel film Il conformista (1970) il protagonista Marcello Clerici, uomo mediocre divenuto agente segreto, incaricato dall’OVRA di eliminare a Parigi un importante fuoruscito, non rappresenta solo il volto del regime e il dominio psicologico della dittatura, ma la problematica irrisolta di un omosessuale dilaniato da un’identità sepolta.
Ed ecco in Novecento, affresco di tre generazioni impegnate nella lotta di classe, la banda paesana che suona l’Internazionale e il coro dei contadini in rivolta contro gli sbirri a cavallo creare il clima e i sentimenti di un tempo burrascoso fondendo il contenuto documentario con la fiction. Contribuiscono all’energia dell’azione che si sviluppa sul piano visivo sommandosi al grido di battaglia “Basta con san Martino!”. La forza del gorgo ideologico che ci riporta nel cuore delle lotte nelle campagne sembra alla fine pacificarsi nella presenza lirica dal colore impressionista dei campi e della natura.

Si dovrebbero riempire pagine per analizzare un percorso cinematografico vario come quello di Bertolucci ma ne ritroveremmo sempre un dato comune: la dialettica problematica tra istinto e ragione e le ossessioni dell’infanzia anche quando si cimenta con grandi epopee. Nell’ultimo film Io e te (2012) come negli storici e sontuosi L’ultimo imperatore e Il piccolo Buddha (1993), si riaffacciano tra uragani e speranze i suoi singolari motivi intimistici, il richiamo della carne, la solitudine, le prigionie familiari, il destino.
Serena d’Arbela, giornalista e scrittrice
Pubblicato venerdì 7 Dicembre 2018
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