Andando un po’ oltre il profilo patologico individuale e sociale delle due protagoniste, vediamo sprigionarsi dallo schermo un messaggio essenziale per il nostro secolo povero di etica, una richiesta d’aiuto che estende il suo raggio all’intera comunità. È il bisogno di affetto e di amicizia, una posta in gioco, un sottofondo vitale per tutti noi, frustrati da modelli di vita egoistici aridi e frettolosi. Gli stessi mali psichici derivano o si aggravano per le chiusure, freddezze e carenze familiari. Seguono le incongruenze e spesso incompetenze delle istituzioni curative, che danno il colpo finale ad esistenze in bilico.
La commedia amara e sorridente di Virzì, regista sempre interessato a un ritratto senza sconti dell’odierna società, scoperchia nella sua narrazione questa esigenza fondamentale dei singoli destinata ad influire sul benessere generale. Vediamo Beatrice Morandini Valdirana e Donatella Morelli ospiti di villa Biondi, un centro terapeutico di recupero per malati mentali in Toscana, dove medici e operatori fanno quel che possono per ottenere un reinserimento delle assistite nella normalità.

Entrambe devono sottostare ad ordinanze del tribunale.
La prima appartiene a una famiglia “bene” altolocata; ha lasciato il banale marito borghese, un avvocato, per uno sfruttatore drogato che l’ha “scaricata”. In preda alla passione lei ha prosciugato per il “poco di buono” il patrimonio di famiglia ed è vista come un disastro dai familiari, una matta da legare che il coniuge si premura di internare. Questa bipolare, logorroica e scatenata, ha appreso nel giro aristocratico le maniere per destreggiarsi.
Il curriculum dell’altra, appartenente agli “umiliati e offesi”, è invece fragile fin dall’infanzia. Ha in corso un’incriminazione per tentato omicidio e suicidio essendosi gettata a mare col figlioletto. Il padre del bimbo, il solito uomo che sfugge alle conseguenze delle sue scappatelle, l’ha ripudiata cinicamente. La giovane non ha potuto contare neppure sui genitori: la madre, che lavora come badante da un vecchio generale, ha rifiutato l’adozione del piccolo. Pensa solo a sé puntando tutto sulla futura eredità di quest’ultimo. Il padre, squattrinato pianista e cantante di serie C, ha lasciato da tempo la famiglia, è un pover’uomo inaffidabile. Così il bimbo è finito in mano d’altri. I suoi pianti alla fine di ogni visita materna ci rimandano a una triste cronaca, diffusa e ben nota. Ormai convinta di perdere la sua creatura affidata ad estranei, la giovane non ha trovato altra soluzione che cercare di annegare col figlio. Il raptus è ben rappresentato dalla brutale sventagliata visiva di quel treno in corsa lungo la linea costiera. I due vengono salvati, ma per lei si apre l’iter della reclusione.
La regia, coadiuvata dalla valida sceneggiatura di Francesca Archibugi, sa descrivere con efficacia i momenti drammatici, mostrando la debolezza e insieme la forza nell’altalena dei due caratteri femminili in cerca spasmodica di felicità. La comunicazione si fa strada tra loro, fra litigi ed intese malgrado le differenze culturali, grazie alla loro stessa contrapposizione.
Il viaggio concitato non svela soltanto gli sbalzi psichici dei due personaggi femminili ma anche le fisionomie dell’habitat toscano. Come un termometro, i frammenti narrativi misurano la temperatura umana della città, dove alla febbre della follia corrisponde più spesso il gelo dell’indifferenza e dell’insensibilità. A volte si scoprono anche la ragionevolezza e la pietà, come dimostrano la figura del tassista che prende le difese della simpatica mitomane e la madre adottiva che viene incontro al diritto biologico di Donatella. Il dialogo consentito di mamma e bambino in riva al mare è una scena forte, emotiva e struggente.
Il film attraversa anche gli interni terapeutici e l’ospedale psichiatrico, fotografa i meccanismi applicati, giusti o sbagliati, con una visione attuale ed autentica. Tra gli addetti, medici, assistenti, monache, sfilano gli sbrigativi, gli impassibili, i burocrati ma anche i più rari ippocratici. C’è chi non capisce e chi invece offre una mano.
Le note divertenti di certe sequenze spezzano poi il clima dolente, quando l’obbiettivo si muove agile ed è beffardo nei luoghi della ricchezza e dell’effimero. Virzì non rinuncia a ridicolizzare situazioni, modi di essere, abitudini, linguaggi: i tipi umani all’interno della banca, del ristorante a cinque stelle, del club notturno, della villa nobiliare affittata per riprese cinematografiche, della residenza con piscina dell’avvocato di stile berlusconiano sono illuminanti. Ovunque le due fuggitive portano lo scompiglio, sono rivelatrici, fanno a pezzi l’ipocrisia. Ma devono anche confrontarsi con gli esterni cupi, con la strada, le prostitute, i barboni, i tossici.
Il ritorno finale alla comunità indica una meta. L’evasione ha causato più guai che gioie alle due ribelli. Il loro legame però si è irrobustito fino a divenire un sostegno per le scelte future che dovranno essere pazienti e ragionate. Anche Donatella sceglie di curarsi e la sua decisione apre un auspicio di rinascita. Due fotogrammi intensi ci mostrano il suo arrivo al cancello della clinica come un figliol prodigo e l’amica che dietro il vetro della finestra le sorride e la incoraggia. Nel mare tempestoso dei rapporti passati è apparso un faro per continuare a navigare.
Serena D’Arbela, scrittrice, traduttrice, giornalista
Pubblicato venerdì 17 Giugno 2016
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