Con questo nuovo film tratto dal romanzo omonimo di Eshkol Nevo, Nanni Moretti ci mette di fronte a un racconto nero, feroce, scomodo e tagliente. La storia, ambientata a Tel Aviv nel libro e qui trasportata in un quartiere “bene” di Roma, è una metafora sullo stato dei rapporti umani contemporanei ammalati di indifferenza ed egoismo.
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Un incidente stradale, all’alba, è l’evento scatenante e catalizzatore dell’azione. Andrea (Alessandro Sperduti), diciottenne su di giri perché ubriaco, arrivato sotto casa, un palazzina di tre piani, investe e uccide una donna che sta andando al lavoro. È il figlio di due giudici, (Vittorio, Nanni Moretti e Dora, Margherita Buy) un figlio di papà ma – come vedremo – educato con severità forse asfissiante.
Non è la prima volta che il cinema inquadra figli viziati e incoscienti e padri complici e pietosi che schivano le responsabilità. In questo caso, però, nel film scritto da Moretti con Federica Pontremoli e Valia Santella, Vittorio, giudice noto e inflessibile, non intende coprire il figlio scriteriato e vuole che la giustizia faccia il suo corso. Il fatto rimbomba sui pianerottoli del condominio del quartiere Prati e ci permette di conoscere tre famiglie. Come reagiscono?
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In ogni piano troviamo adulti che pensano solo ai fatti propri. La narrazione condotta con freddezza e piglio realistico da Moretti, che rinuncia all’ironia per il dramma, squarcia il velo sulla disumanità e assenza di valori. Il quadro sconfortante filtra attraverso personaggi refrattari alla solidarietà, chiusi nei problemi personali o di lavoro, in difficili relazioni o nei battibecchi familiari.
Lucio (Riccardo Scamarcio), non ha tempo per pensare alla morte della povera passante. Ha un’ossessione: sospetta che l’anziano vicino di casa, Renato (Paolo Graziosi) a cui aveva affidato la figlioletta Francesca abbia molestato la bambina. E ribadisce le accuse anche quando ha piena contezza dell’errore. E ingrato verso quel vicino, un babysitter disponibile come un nonno, si lascia attrarre dalla minorenne nipote di Renato, Charlotte (Denise Tantucci). Sarà denunciato, portato in giudizio e lasciato dalla moglie. Si difende nel solito modo: “Ero ignaro della sua età, sono stato circuito dalla ragazzina. Era invaghita di me e mi aveva promesso delle prove sull’accaduto al parco”.
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Al secondo piano con il personaggio di Monica (Alba Rohrwacher), incinta di sei mesi e testimone del sinistro stradale, si entra nella sfera della solitudine. La giovane donna di animo poetico e bisognosa d’affetto subisce l’incubo della follia della madre. Il marito Giorgio (Adriano Giannini) la trascura, è sempre assente per lavoro. L’isolamento aggrava la tendenza visionaria e porta Monica alla dipendenza dai sogni e dalle fantasie. Dopo il secondo parto fugge di casa nel tentativo di trovare in altri mondi il calore dell’affettività. Solo allora il partner comprende le proprie mancanze e i doveri familiari, ma forse è troppo tardi.
Nel frattempo Andrea, condannato a cinque anni per omicidio colposo, accusa delle sue insicurezze ed errori i genitori troppo chiusi e assillanti. Il ragazzo si considera il risultato di un’educazione sbagliata e autoritaria, avara di sentimenti. Odia il padre manicheo che non lo ha aiutato a schivare sottobanco il verdetto e lo ha rinnegato. Non assolve neppure la madre Dora, divisa tra lui e Vittorio, Queste figure e contraddizioni sono quelle che incontriamo ogni giorno nel quotidiano e nella cronaca. Non credo siano elementi superati ma tipici di una triste attualità.
I condomini non hanno una parola di pietà per la passante investita e uccisa, non ne parlano affatto. Partecipano tutt’al più all’ipocrita balletto del funerale. E il film sottolinea il vuoto morale e la cecità verso l’altro.
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Maschilismo, violenza e prepotenza spiccano nei protagonisti uomini. Nello stesso intransigente Vittorio, che vieta alla moglie qualsiasi rapporto col figlio colpevole; in Giorgio, sciatto di fronte ai bisogni di Monica, geloso e litigioso col fratello Roberto (Stefano Dionisi). Il vizio di possesso della donna e la sua svalorizzazione traspare come un meccanismo abituale. Tra le figure delle mogli emergono passività, distrazione, subordinazione ai modelli in voga, o fuga nell’irrazionale. Moretti sembra però cogliere germogli diversi nelle nuove generazioni. È il sottile motivo di un contrappunto: le reazioni ingenue e limpide dei bambini appaiono nella trama fin dall’inizio, sono estranei ai pregiudizi e ne soffrono, sono capaci di amare.
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Li rivediamo dopo dieci anni quando, divenuti grandi, imboccano strade più libere e consapevoli. L’abbandono della routine borghese suona come un auspicio uscendo dalle pareti familiari, e andando all’estero o cercando in campagna socialità e creatività. Charlotte – rivedendo le proprie responsabilità nella storia con Lucio – rinuncia all’appello contro di lui, già assolto in primo grado. La presenza di una festa di strada, il Tango illegal che invade il quartiere benestante, sembra rinfrescante, un invito a liberarsi dalle convenzioni. Anche Andrea, prototipo di negatività giovanile dopo l’esperienza carceraria, comincia a ricostruirsi. Espiata la pena, si oppone a un ritorno in famiglia e farà da solo il suo percorso, occupandosi di attività agricole insieme a Francesca, nel frattempo divenuta sua moglie, e divenendo padre. Eccoci all’uscita degli intrecci bui.
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Per questo film, Moretti trova un lieto fine, rarità nel suo stile: con lo spiraglio dell’accoglienza, incoraggia le risorse del femminile. Il personaggio di Dora diviene la chiave del cambiamento, piombata nella solitudine dopo la morte improvvisa del marito giudice e respinta ancora dal figlio, trova la serenità fuori di sé, scoprendo l’importanza degli altri. Si libera di tutti gli oggetti della casa ormai inutili e si dedica ai migranti. Accanto a loro, poveri e spogliati di tutto, soli più di lei ma uniti, ritrova la capacità di dare.
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Nelle ultime sequenze si riaccende il timido sorriso di Andrea che perdona la madre. C’è una via, o meglio, un viottolo per rinnovarsi. Il fiorire della natura e la presenza del neonato segna l’inizio di un semplice rapporto umano, una collaborazione capace di rinsanguare gli aridi schemi anagrafici del passato.
Serena d’Arbela, giornalista e scrittrice
Pubblicato sabato 23 Ottobre 2021
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