L’ ultimo film di Ken Loach sceneggiato da Paul Laverty riconferma la fedeltà ai temi brucianti della società. The old oak si svolge nel 2016 in un villaggio minerario sulla costa della contea di ‎Durham nell’Inghilterra settentrionale, ma ci riporta a ciò che avviene anche nelle nostre periferie. Fotografa un mondo in crisi privo di ideali e di solidarietà dove si fa strada il malessere verso gli stranieri, l’indifferenza verso i rifugiati di Paesi lontani come la Siria, di cui ben conosciamo l’odissea di luogo in luogo per la sopravvivenza. La visione filmica inquadra infatti una comunità che dopo lo smantellamento delle miniere deciso già negli anni 80 dalla Thatcher e la sconfitta delle lotte dei minatori ha risentito del degrado, del disagio e della delusione ed è divenuta spietata anche nei rapporti personali.

Entriamo fin dall’inizio nel cuore emblematico della guerra tra poveri. L’arrivo di un gruppo di famiglie di migranti siriani a cui sono stati assegnati alloggi in un quartiere popolare del paese è accolto malamente dai residenti. Mentre i nuovi arrivati esausti dalle peregrinazioni hanno finalmente un lampo di gioia, i vicini per ignoranza ed esasperazione li maltrattano come intrusi dimenticando il proprio passato di proletari e le dure esperienze vissute.

Tom lo tiene aperto con pazienza e ostinazione.

Le sequenze iniziali rispecchiano la crisi morale del quartiere dove regnano le difficoltà economiche, la vita alla giornata, l’incertezza del posto di lavoro e i conseguenti rancori e aggressività. Gli abitanti assistono con sgomento alla vendita per pochi soldi dei loro appartamenti alle agenzie d’affari e al sopraggiungere dei rifugiati. Molti giovani sono disoccupati. La rabbia trova un bersaglio facile nei deboli in cerca d’asilo. Sono musulmani, diversi, estranei, quindi nemici. E così che s’insinua il razzismo.

TJ parla però con Jara. La prende a cuore aiutandola ad aggiustare la macchina fotografica. Lei lo convince con la sua civiltà. Il personaggio testimonia la varietà dei rifugiati. Tom si unisce al gruppo di volontari e apre una mensa gratuita nella sala interna del pub per i nuovi venuti e i residenti bisognosi. Lo scopo è quello di integrare i primi nella comunità. Gli piace la massima citata da Jara secondo cui “se si mangia insieme si resta insieme”.

Il film segue passo passo il ricupero della speranza nel maturo minatore. È un uomo deluso dalle vicende personali e sociali che ha per amica solo la cagnetta, che lo ha salvato prodigiosamente dal suicidio. L’episodio del cane apparentemente casuale ha qui un significato non solo animalista ma emblematico. Significa l’alterità. Il cane ha risollevato in Ballantyne i sentimenti solidali sepolti.

I fotogrammi simbolici illuminano il racconto. La k. dell’insegna del pub che non si regge più e pencola simboleggia una più ampia decadenza. I piatti offerti dai siriani riflettono solidarietà e amicizia, pace e rispetto. ll cagnaccio dei giovani balordi che assalta e uccide quello piccolo spiega la cattiveria. La memoria indistruttibile è rappresentata dal cinturino del cane con la medaglietta, dalle immagini del papà di Jara morto in prigione, dalle foto degli scioperi che evocano il passato dignitoso. Il coro nella cattedrale ascoltato da Jara con rispetto ci parla dei contatti fra religioni. Le immagini e i manifesti sulle battaglie passate che la ragazza esplora con interesse nella sala interna del locale riflettono pagine di storia e di resistenza esemplare. TJ la incoraggia a documentare con i suoi scatti la vita di ogni giorno del quartiere e lei intesse rapporti umani riprendendo le donne dal parrucchiere, i compleanni, la gente per strada.

Ma un gruppetto di avventori, frequentatori usuali del pub, affezionati alle pinte di birra è ostile ai migranti e mugugna continuamente contro “quelli di fuori”. Ballantyne non ha concesso loro la sala interna per una riunione familiare, in mancanza di attrezzature adeguate e autorizzazioni necessarie. L’apertura della mensa solidale quindi non va giù ai bevitori, che riescono a manomettere col buio l’impianto elettrico vecchio e facilmente vulnerabile. Questo salta in aria e la sala si allaga. Un disastro.

Non è stato un incidente ma un attentato e ha collaborato anche Charlie (Trevor Fox) vecchio compagno di lotte di TJ. Il colloquio con il traditore. esprime l’amarezza e il disgusto di Tom per l’odio che ormai ha invaso gli animi. Si rende conto Charlie di come sono diventati? E ora? Il pub dovrà chiudere? Tom si avvia verso il mare come anni prima quando voleva togliersi la vita per disperazione ed era apparsa a dissuaderlo la cagnetta in corsa verso di lui. Ora gliela hanno uccisa i balordi. Arriva Jara a salvarlo, ricordando le proprie vicissitudini in Siria, i bombardamenti la fame. gli eccidi. Ma – dice – bisogna resistere. Senza la speranza non batte più il cuore.

Il punto di partenza del film era l’abbandono, la chiusura della collettività. La conclusione è l’apertura alla solidarietà. La gente del quartiere ravveduta sfila portando fiori e ricordi in omaggio al padre di Jara, estinto. Sono in tanti. Sembrano essersi risvegliati dopo gli incontri alla mensa e le fotografie. Sembra tornata a piccoli passi la fiducia e il riconoscimento dell’umanità al di là dei confini. Il corteo è come una marcia trionfale, con lo stendardo rinnovato della vecchia quercia e dell’antica unità sindacale. Una nuova targa.

Finale utopico? La speranza è oscena? come dice una battuta del film alludendo alla realtà penosa di sconfitte sociali generali e trionfi delle politiche reazionarie. No, le sequenze portano in piccolo l’auspicio del futuro possibile. La Storia è dinamica, ricorda Loach in un’intervista. I regimi mutano nel tempo. Il cambiamento non verrà dall’alto, ma dal basso, dalla volontà, dall’aiuto reciproco. Occorre ricomporre la forza del mondo del lavoro. È l’unica risorsa per risalire la china. Il film è sentito, leggibile, emozionante, basato su storie semplici ma illuminanti, in cui è visibile l’apporto di Laverty e l’ausilio di interpreti veridici, non professionali, accanto ad attori legati all’ambiente. Come Fox che in passato fu vigile del fuoco.

Il regista Ken Loach

Ancora una volta Loach, regista lucido, graffiante e protestatario che non si è mai lasciato tentare da Hollywood induce il pubblico ai confronti e rassomiglianze con l’attualità, con la cronaca di ogni giorno e gli imperativi di rinnovamento, nel panorama europeo. Il suo segreto è l’obbiettivo ad altezza d’uomo.

Serena d’Arbela, giornalista e scrittrice, per Bordeaux edizioni ha pubblicato il libro “Lo sguardo acuto del cinema”