Il caso Bracco: riprendo il titolo di un bel libro di Francesco Soverina uscito nel 2017 perché mai titolo fu più appropriato. Roberto Bracco fu veramente un “caso”, sotto diversi aspetti.

Agli inizi del Novecento fu un “caso letterario”, famoso e apprezzato come autore teatrale in Italia e all’estero, e ancora oggi le sue opere sono presenti in molte biblioteche straniere, dagli Usa agli Emirati Arabi Uniti. Se così è, perché in Italia sembra che Bracco non sia mai esistito?

Roberto Bracco

Perché quel “caso letterario” era anche un “caso politico” e, cosa impensabile nella storia del premio Nobel, la sua opera non fu premiata per l’opposizione del suo governo.

Nel 1926 Bracco scrisse in una lettera a Lucio D’Ambra: “Venne a Napoli un membro dell’Accademia del premio Nobel. Mi confermò la notizia della mia trionfante candidatura”. Il suo interlocutore, però, qualche mese dopo gli scrisse: “Il di lei stato politico impedisce le sottoscrizioni. Per noialtri questa combinazione artistico-politica è incredibile, una cosa grave, una vergogna”.

Plinio Nomellini, ritratto di Grazia Deledda

Il Nobel andò a Grazia Deledda (10 dicembre 1926) con gli entusiastici complimenti del Duce.

Il “caso politico” di Bracco era nato nel 1919 quando, contro nazionalismi razzismi e bellicismi, aderì con Albert Einstein, Benedetto Croce e altri all’appello per la fratellanza umana di Romain Rolland, “Dichiarazione dell’indipendenza dello spirito”. Nel 1924, più che sessantenne, si candidò nella lista “Opposizione costituzionale” perché, scrisse a un amico, “Il fascismo è una setta. Il fascismo è una profanazione dell’Italia Vittoriosa. Per salvare l’Italia Vittoriosa, bisogna odiarlo, bisogna maledirlo, bisogna averne ribrezzo”. Fu eletto, ma nel 1925 decadde dal ruolo e firmò il Manifesto degli intellettuali antifascisti.

Il regime, però, vista la grande popolarità di Bracco in Italia e fuori, aveva bisogno di un segno di accettazione e compromissione. Il rapporto fra cultura e regime funzionava con il sistema delle sovvenzioni fisse, che di solito si aggiravano fra le 300 e le 500 lire. Nel 1945 Ungaretti dichiarò: “Era una sovvenzione che si usava dare a scrittori e artisti bisognosi, perché potessero seguire con tranquillità il loro lavoro”. Sembrerebbe un gesto di illuminata liberalità ma Bracco, l’intellettuale intransigente, come fu definito nel titolo di un libro di Pasquale Iaccio, dimostrò il contrario.

Da sinistra: Irma ed Emma Gramatica, Clara Calamai e Massimo Serato nel film Le sorelle Materassi

Alla fine del ’36, a 75 anni, confidò alla grande attrice Emma Gramatica, sua sincera amica anche se venuta a patti con il regime, le sue dolorose condizioni di salute e le sue gravissime difficoltà finanziarie. L’attrice scrisse a Dino Alfieri, ministro della Cultura popolare, esponendogli il caso e chiedendo di “alleviare la vita che si spegne di quest’uomo d’ingegno”. Su questa lettera si legge una nota a matita: Il Duce dispone d’urgenza diecimila lire. Della consegna di tale somma fu incaricata la Gramatica, forse perché non avrebbe potuto rifiutarsi di testimoniare che anche Bracco era sul libro paga del fascismo con una somma del tutto eccezionale. Ma Bracco scrisse al ministro: “Eccellenza, la mia coscienza di galantuomo mi avverte che quel danaro non mi spetta. Io posso affrontare con tranquillità le spese non lievi cui mi costringe il mio male, ahimé, inguaribile. La nostra Emma Gramatica mi ha fatto l’onore di assumere il delicato incarico della doverosa restituzione”.

Da sinistra: Roberto Bencivenga, Roberto Bracco, Enrico Presutti, Giovanni
Amendola

Nel fascicolo d’archivio è conservata la seguente nota: Il Duce ha detto che è andata male. Bracco, privo della possibilità di far rappresentare le sue opere, escluso dalle collaborazioni giornalistiche, con i suoi investimenti esteri bloccati, aveva vinto su Mussolini.

Non erano bastati a piegarlo gli attacchi fisici, l’invasione della sua casa e la distruzione delle sue carte nel ’26, il tentato omicidio, l’assalto dei fascisti alla recita de I pazzi, a Roma, nel 1929. Non era bastato svilirlo come autore. Silvio D’Amico scriveva di lui che era piatto, senza spessore, che le sue opere erano la negazione della tecnica teatrale; Adriano Tilgher, altro critico allora eminente, contrapponeva il teatro nuovo di Pirandello a quello vecchio di Bracco, che avrebbe addirittura imitato l’altro.

Eduardo De Filippo (sorvegliato dall’Ovra) e Luigi Pirandello

A parte lo scarto temporale – Pirandello si dedicò al teatro quando Bracco era già un autore maturo – Bracco prestò sempre, senza rischi oleografici, un’accorata attenzione alle realtà popolari e alle “vite degli altri”, non maschere ma carne, sangue e passioni, esseri alla ricerca di un loro intimo punto di equilibrio o di rottura tra la parola e il subconscio (Il piccolo santo, I pazzi…).

Un’altra immagine di Roberto Bracco

Il teatro vecchio, quando Bracco cominciò, era quello del mattatore o del capocomico. Il regista non esisteva, i copioni erano quelli che mettevano in luce il grande attore oppure attiravano il pubblico con situazioni sceniche ben collaudate. In questo clima il teatro di Bracco, tra l’intreccio nuovo dei personaggi e l’esplorazione delle trame interiori (il “teatro del silenzio”) che chiedeva agli attori alte prestazioni e un lavoro corale ben diretto, aprì nuove prospettive. Nasceva il nuovo “teatro di regia”.

La forte tensione verso le “vite degli altri”, degli ultimi, avrebbe dovuto fare di Bracco un’icona del dopoguerra, all’epoca di Roma città aperta, di Ladri di biciclette, di Riso amaro, di La terra trema, de L’albergo dei poveri di Gor’kij con cui nel ’47 fu inaugurato il Piccolo di Milano. In quell’anno, poiché il neorealismo sembrava avere le sue radici nel dramma Sperduti nel buio di Bracco e nell’omonimo film muto del 1914 diretto da Nino Martoglio, Camillo Mastrocinque ne fece una nuova versione che andò a Cannes con la sceneggiatura, dicevano i titoli, di Zavattini e Bracco. Ma nessuno fece caso a quel nome. Perché?

Perché continuava a pesare su di lui l’ostracismo fascista e sulla sua opera, bisogna aggiungere, era rimasta incollata la falsa etichetta di “teatro vecchio” che durò anche dopo la sua morte, avvenuta a Sorrento il 20 aprile 1943.

Come nel suo “teatro del silenzio”, un vecchio scrittore solitario, in un angolo della scena, trovando in sé la forza di difendere la sua dignità, aveva retto fino all’ultimo il peso di un’enorme ingiustizia.