Trap in inglese significa “trappola”, ma è anche il genere musicale erede di rap e hip hop che prende il nome dalle “trap house”, caseggiati abbandonati e piazze di spaccio di Atlanta. Un genere che, negli ultimi anni, ha riscosso grande successo, diventando vero e proprio fenomeno giovanile, attirando su di sé attenzioni e un elevato numero di critiche.
Il concetto di “soundscape”, paesaggio sonoro, fu teorizzato a inizi anni Settanta da Raymond Murray Schafer, compositore e ambientalista canadese che, con questo studio, definì il rapporto tra l’individuo e l’insieme dei suoni che popolano l’ambiente in cui gravita. Volendo allargare il significato di questo concetto, si potrebbe quasi considerare la musica “del momento” come sommatoria delle dinamiche sociali e culturali che abitano il tempo. E così, supponendo che la musica sia una sorta di “semilavorato sociologico”, capace di restituire fotografie accurate di ciò che accade nell’hic et nunc, diventa anche lo strumento di decodifica dei linguaggi giovanili.
Musica e sottoculture giovanili sono due elementi storicamente imparentati: dai primissimi vagiti del rock’n’roll, essi hanno naturalmente piantato la bandierina su un terreno nuovo, facendolo immediatamente proprio. Accadeva con i teddy boy e i e i mods negli anni Sessanta, continua ad accadere fisiologicamente anche oggi. La musica nuova riesce sempre a veicolare ciò che una (impropriamente detta) generazione ha da dire.
I venti-venticinque anni necessari al formale riconoscimento di una generazione, infatti, sono eoni, se rapportati alle turbolente e quotidiane trasformazioni adolescenziali. Di cosa parliamo quando parliamo di generazione, quindi, si potrebbe domandare, parafrasando uno scrittore – Raymond Carver – che su linguaggi fondativi e generazioni (impropriamente dette) avrebbe qualcosa da dire. È possibile accomunare ventenni e trentacinquenni? Le statistiche e le ricerche di mercato spesso lo fanno, ma è come forzare un elefante a entrare in un’utilitaria. E a starci anche comodo, vista la presunzione di attendibilità dei suddetti sondaggi, che ambiscono a essere rappresentazione fedele dello stato dell’arte.
Una generazione, probabilmente, non ha un limite temporale fisso: si contrae e si dilata in base agli accadimenti del periodo e, quindi, gli ultimi vent’anni non hanno fatto altro che accelerare tutte le dinamiche.
Mercati e globalizzazione, comunicazioni sempre più rapide e capaci di coprire distanze sempre maggiori, fino ad annullarle (sui riverberi morali e umorali di questo aspetto, si potrebbe aprire una parentesi molto corposa): il terzo millennio ha aperto nuovi scenari, imponendo sempre maggiore velocità. Tuttavia, anche se con “pesi specifici” diversi o cicli temporali più contratti, la post-modernità non ha rinunciato ad affidare alla musica la sua missione comunicativa, per assurgere a ruolo di megafono di disagio e incertezze giovanili e, insieme, leva del marketing. L’avvicendarsi di rock, grunge, pop da classifica e rap suggerisce che le nuove generazioni sono sempre state oggetto e soggetto attante nel mondo della musica. In questa fenomenologia, la fascia tardoadolescenziale o dei poco-più-che-ventenni continua a essere interlocutore ideale di un mercato discografico che sta ridisegnando (anche dolorosamente) i propri confini.
E la trap, croce e delizia della scena musica degli ultimi anni, ha spinto al massimo sull’acceleratore, diventando fenomeno visibile a tutti e davanti al quale molti hanno storto il naso. I detrattori ne parlano come di un non-genere, vacuo, senza tecnica, deleterio, privo di una parte strumentale pensata e sensata, ridicolizzato per la sovrabbondanza dell’utilizzo della tecnica dell’autotune e per i testi, spesso nonsense. Aggiungiamo a questo fardello anche la povertà di contenuti che – stando ai critici più severi – riflette quello degli interpreti e degli ascoltatori e che sfocia in aberranti luoghi comuni. Dall’altra parte, i sostenitori: i quali hanno individuato il facile parallelismo con il punk, genere musicale di protesta, che dimostrava che la tecnica non fosse tutto e il messaggio dovesse colpire come un pugno nello stomaco una società di benpensanti.
La verità, si sa, sta nel mezzo. Inutile glorificare tout court un genere che certamente è meritevole di attenzione (se non fosse per la sua componente artistica, almeno per le rifrazioni sociologiche) ma che è nuovo e, in quanto tale, fa gola a molti. Al punto da vedere accumularsi produzioni e autoproduzioni di dubbia qualità, o vedere la trap serpeggiare tra i brani del pop studiato a tavolino per strizzare l’occhio al pubblico più giovane. E quindi, addentrandosi con passo malfermo in quella che rischia di essere una selva oscura, si arriva ad alcuni dei capisaldi che questo genere, già tentacolare, è riuscito a imporre.
Ci sono dei nomi di riferimento, noti sia agli affezionati, che agli ascoltatori distratti: Tha Supreme e Sfera Ebbasta – il primo, giovanissimo talento che si nasconde dietro l’avatar di un diavolo-emoji, l’altro, che della sua immagine vistosa e festosa ha fatto un tratto distintivo. A loro si aggiungono Ghali, Dark Polo Gang, Massimo Pericolo, Tedua, Capo Plaza e un numero molto elevato di donne: Priestiess, Madame, Chadia Rodriguez, Beba… e l’elenco potrebbe continuare.
Ciascuno con la propria particolarità: chi tiene un piede nel rap e l’altro nella trap, chi invece si lascia investire completamente da questa nuova corrente, chi racconta il disagio giovanile, la rabbia, l’amore e chi biascica litanie senza senso – valutazione, quest’ultima, non di valore, ma data dal connubio tra un modo di cantare trascinato e una concentrazione di neologismi (di cui “bibbi” e “bufu” sono i più noti) talmente alta da rendere l’ascolto di un brano criptico, quasi alchemico. Questo, aspetto, probabilmente, è la più prossima conseguenza dell’aver espiantato un genere, originario dei Paesi anglofoni, in un contesto che, per retaggio musicale e per musicalità linguistica, è estremamente distante da Gran Bretagna e Usa. La necessità, propria dei linguaggi giovanili, di fondare un glossario esclusivo, poi, ha fatto il resto, mescolandosi con l’adesione a un beat nuovo e importato.
I testi trap, in sostanza, ereditano la necessità già sdoganata da rap e hip hop di traslare in musica il parlato “di strada”.
Le rime, le espressioni colloquiali e i campionamenti di suoni quotidiani legati alla comunicazione online, come le notifiche Whatsapp, sono gli elementi che emergono immediatamente. Inoltre, numerosissimi sono i prestiti dall’inglese, sia quelli necessari, che colmano o perfezionano una parziale lacuna della nostra lingua, che quelli totalmente superflui, dettati da esigenze di rima e tempo («Portati tutti gli ori, i money e le bigiotterie» – Madame o «Ti prego non mi uccidere il mood, dai» – Ghali). Trovano ampio spazio anche i calchi, costruiti adeguando alle regole della grammatica italiana parole straniere: ad esempio, coniugando verbi come swish («Swisho un blun7 in Swishland» – Tha Supreme). Per arrivare a uno svuotamento di senso quasi futurista, come quello di Young Signorino che, nella sua hit Mmh ha ha ha (31 milioni di visualizzazioni solo su Youtube), declama un improbabile alfabeto, alternato a onomatopee e termini gergali, e che quasi potrebbe far pensare a La fontana malata di Aldo Palazzeschi. Parallelismo, questo, non richiesto e, cosa più importante, probabilmente nemmeno ricercato dagli autori, in molti casi lontanissimi da velleità citazioniste, ma che sottolinea come la musica continui a essere fortemente legata a un simultaneo ascoltare e sentire, sia di suoni che di rimandi e sensazioni da parte del fruitore. In questo panorama linguistico già frammentato, si aggiungono le combinazioni alfanumeriche e il munifico uso di maiuscole.
Mutuando un’abitudine già propria del rap e dell’hip hop degli ultimi dieci anni, infatti, la tendenza è di pubblicare le canzoni con i titoli tutti in maiuscolo o in minuscolo. Vezzo puramente estetico, trucco per attirare l’attenzione o prassi che aderisce agli stilemi della scrittura online? Non è dato sapere, ma rappresenta un elemento (nemmeno troppo marginale) di rottura con le consuetudini. Interessante, poi, è notare come la trap abbia simultaneamente avvicinato anglismi e regionalismi, per arrivare addirittura ad attingere a piene mani dal dialetto. È il caso di Liberato, un unicum nel panorama musicale e performativo per diverse ragioni. A partire dal suo anonimato, per arrivare al legame fortissimo con la città di Napoli. Il (t)rapper canta in napoletano, infarcendo i suoi testi di geolocalizzazioni partenopee («Scennim’ a Mergellin’/Nun ne parlamm’ cchiu’» – Tu t’è scurdat’ ‘e me) e mescolando nei suoi testi regionalismi obsoleti come sciantosa ed espressioni idiomatiche straniere («Cu’ na’ funa n’gann, my heart will go on» – Nunn’a voglio ‘ncuntra’).
Se la trap sia un fenomeno dannoso o una nuova avanguardia musicale, ancora non è dato sapere: si tratta di materiale troppo recente e, dunque, “infiammabile”. L’inadeguatezza di critici e ascoltatori, quando la trap è diventata un fenomeno di massa, non è dissimile da quella palesata all’avvento del prog, genere che oggi gode di dignità artistica e compositiva ineguagliabili ma, mentre si dipanava in Italia e nel mondo, veniva liquidato come una sottocategoria del pop e “maneggiato” in quanto tale. Ciò che si può dire sulla funzione trasversalmente sociale della trap è che, nella sua accezione più mainstream, è stata il cavallo di Troia per dare ai genitori l’idea di entrare a gamba tesa nelle camerette dei figli, espugnare l’inespugnabile cortina adolescenziale e illudersi di aver annullato il generation gap.
Questo fenomeno musicale, poi, si accompagna alle nuove modalità di fruizione, che ne moltiplicano esponenzialmente la portata e ampliano il bacino di utenza. Le ricerche di mercato dimostrano come i servizi di streaming siano determinanti nell’ascesa della trap, a differenza dei dati di vendita dei prodotti discografici “offline”. Le classifiche sono consacrate dai download (legali e, quindi, tracciabili) dei brani sulle piattaforme, dai singoli ascolti a cui fa eco la risonanza sui social. E la fascia dei più giovani è quella che separa di misura le altre fasce d’età per consumo di prodotti in streaming: stando all’Indagine statistica su musica e video nelle abitudini dei cittadini (Istat, aprile 2018), oltre il 70% nella fascia 14-24 anni lega il consumo quotidiano di musica alle piattaforme streaming, mentre la percentuale cala vertiginosamente del 20% circa accedendo allo scaglione di età successivo.
Quindi, è nato prima l’uovo o la gallina? È stata la trap ad aver sdoganato certi atteggiamenti di consumo o, piuttosto, si è fatta carico di un cambiamento già in nuce? Come sempre, dare una risposta definitiva è cosa ardua e forse richiederebbe una quantità di energie superiore rispetto alla validità della sentenza finale. La trap si è, probabilmente, insinuata in un panorama in evoluzione e, a sua volta, ha tracciato anche delle linee guida che hanno inciso sulla fruizione di questo genere. In qualsiasi caso, è un passaggio naturale (anche se, a volte, non proprio indolore) che la musica diventi linguaggio e forgi anche una propria lingua e proprie categorie di consumo, entrambe specchio del tempo che rappresenta. E, d’altro canto, l’atteggiamento più sano che potrebbe avere l’ascoltatore adulto, potrebbe essere di curiosa osservazione di questo fiume carsico rappresentato dalla musica e dall’adolescenza. Pretendere di sapere o spiegare è più ingenuo che arrogante, visto che ogni generazione (impropriamente detta) ha i suoi momenti e linguaggi; sarebbe, piuttosto, sano e rispettoso responsabilizzare le nuove generazioni e non inciampare nel cliché in stile «questa non è musica, è rumore». E se, poi, non saranno rose e non fioriranno… pazienza! Perché l’orecchio si allena ascoltando musica di qualità, certo, ma anche le voci dei più giovani.
Pubblicato martedì 14 Luglio 2020
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