Pubblichiamo in esclusiva per Patria Indipendente il ricordo del grande regista da parte del presidente del Centro Sperimentale di Cinematografia.
È stato l’enfant prodige del cinema italiano e, credo, anche della cultura italiana. Aveva solo poco più di 20 anni, Bernardo Bertolucci, quando vinse il Premio Viareggio per la poesia con la raccolta di versi In cerca del mistero. E a quel tempo il “Viareggio” era davvero un premio importante, era l’“altro” premio insieme allo “Strega”. Certo, Bernardo nasceva bene, culturalmente parlando. Era il figlio di uno dei nostri poeti più illustri, Attilio Bertolucci, del quale cominciava a ripercorrere le orme: anche suo padre aveva vinto il Premio Viareggio, e per ben due volte. E in casa il giovane poeta s’era ritrovato a frequentare alcune delle maggiori personalità della cultura del tempo. Fra gli altri Alberto Moravia, Dacia Maraini, Cesare Garboli, Elsa Morante, Enzo Siciliano e – incontro fatale – Pier Paolo Pasolini. «Il mio primo incontro con Pasolini, amico di mio padre, fu a 14 anni – ha ricordato Bertolucci nella lezione di cinema che tenne il 28 aprile scorso al Teatro Petruzzelli di Bari in occasione del Bif&st, il Bari International Film Festival –. Una domenica sentii suonare alla porta di casa, a Roma; andai ad aprire, lui si presentò ma io lo lasciai lì davanti, chiudendo nuovamente la porta. Dissi a mio padre che c’era un tale che chiedeva di lui, che aveva un’aria strana, quasi da ladro, e che si chiamava Pasolini. E mio padre: “Ma come, è un grande poeta! Fallo entrare subito!”. Qualche anno dopo Pier Paolo scrisse la poesia A un ragazzo, in cui parlava del fratello partigiano, partito con un libro di Montale e una pistola nella valigia. La poesia finisce con due versi che recitano: “Ah, ciò che tu vuoi sapere, giovinetto, finirà non chiesto, si perderà non detto”. Quei versi racchiudevano qualcosa di molto doloroso per lui. Passarono degli anni e un giorno mi propose di fargli da aiuto regista. Gli dissi che non ero mai stato su un set, e lui: “Se è per questo, neanch’io!”. Ricordo che fu molto bello preparare Accattone, fare i sopralluoghi nelle borgate che Pier Paolo conosceva bene. Abitavamo vicini e ogni giorno salivo sulla sua Giulietta e andavamo sul set. Era molto scherzoso e a volte mi raccontava pezzi di sogni che faceva. Vidi nascere altri suoi film. Diversamente da me, non aveva fra i suoi modelli i registi della Nouvelle Vague, ma i primi piani de La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer. Ricordo ancora l’emozione del giorno in cui mise la macchina da presa sulle ruote per una carrellata: fu qualcosa di estraneo al suo stile, perché lui diceva di volersi ispirare ai Primitivi toscani, alle feste dei Santi, che per lui erano le feste dei barboni, degli accattoni».
Pasolini non l’aveva solo voluto come assistente nel proprio film di debutto, Accattone (1961), ma scriverà il soggetto e la sceneggiatura del film di debutto di Bernardo, La commare secca (1962). Bertolucci aveva 21 anni, che è poi l’età minima in cui gli allievi vengono ammessi a frequentare i corsi di regia alla Scuola Nazionale di Cinema del Centro Sperimentale di Cinematografia. Nessuna scuola di cinema, dunque, ma una rapida gavetta per il giovanissimo letterato, regista e sceneggiatore, una gavetta che lo porterà un paio d’anni dopo, quando di anni ne avrà 23, a realizzare il suo secondo film, Prima della rivoluzione (1964), ispirato alla stendhaliana Certosa di Parma (città natale di Bernardo), che fin dal titolo anticipa quel che avverrà di lì a poco: Partner, il suo terzo film, anch’esso di ispirazione letteraria (Il sosia di Dostoevskij) e godardiana (La cinese, 1967, ma soprattutto Fino all’ultimo respiro, 1960, film-manifesto della Nouvelle Vague), viene realizzato in pieno Sessantotto, con matura consapevolezza del tempo storico-politico in atto. «Io allora avevo già 27 anni, non ero un 18enne nel fiume della protesta – ha ricordato Bertolucci –. Osservavo dall’esterno ma mi piaceva molto assistere a quello che stava succedendo in Italia e in Francia. Credo che se c’è stato Ultimo tango a Parigi è anche grazie al Sessantotto, un momento di grande apertura, qualcosa di straordinariamente fresco che mi ha permesso di andare lontano nella libertà di fare film. In quel momento c’era infatti quasi un bisogno fisiologico di svecchiare, di allontanarsi da un cinema monologante, una sorta di autoconfessione personale, per passare a uno più aperto al pubblico, più dialogante, come fu appunto per Ultimo tango a Parigi. Il ’68 è stato la straordinaria elaborazione collettiva di un sogno: quello di cambiare il mondo, dell’immaginazione al potere, del ‘proibito proibire’».
Prima della rivoluzione e Partner sono film sperimentali sui quali lo stesso Bertolucci esprimerà più tardi una serie di riserve ma che serviranno al giovane autore per impadronirsi dei mezzi espressivi e delle tecniche della narrazione cinematografica che di lì a poco gli consentiranno di realizzare uno dopo l’altro i suoi primi capolavori: i meravigliosi Strategia del ragno (1970), mirabilmente ispirato a un racconto di Jorge Luis Borges, e Il conformista (anch’esso del 1970), dal romanzo di Moravia, studiato nelle università americane di cinema come “film di testo”. “Un’esperienza sontuosa, emotivamente piena”, scrisse Pauline Kael, la prestigiosa critica cinematografica del New Yorker. Pressoché tutti i film finora da lui realizzati verranno selezionati dai festival più prestigiosi: Venezia e Cannes.
Nessun festival internazionale, invece, per l’opera che segna l’affermazione a livello mondiale del trentunenne regista: Ultimo tango a Parigi. Il 14 ottobre del 1972 il film venne proiettato per la prima volta al Lincoln Center di New York. Pauline Kael profetizzò che l’opera avrebbe rappresentatoper la storia del cinema “una pietra miliare”, ciò che La Sagra della Primavera di Stravinskij aveva rappresentato per la storia della musica. Ma quel film segnò anche l’esplodere di uno scandalo giudiziario che in Italia non avrà più eguali.
A fine dicembre 1972 Ultimo tango fu sequestrato per “esasperato pansessualismo fine a se stesso”. Il 2 febbraio 1973 si ebbe una sentenza d’assoluzione in primo grado che permise che il film venisse dissequestrato e proiettato nelle sale italiane e internazionali. Ma una prima condanna a qualche mese di carcere per il produttore Alberto Grimaldi, per Bernardo e per Marlon Brando sopraggiunse nel secondo processo d’appello il 20 novembre 1974. Infine, il 29 gennaio 1976, una definitiva sentenza della Corte di Cassazione condannò la pellicola alla distruzione, e addirittura al rogo. Bertolucci si industriò per bruciare provocatoriamente la sua copia personale del film sotto la statua di Giordano Bruno in Campo dei Fiori. Soltanto nel 1987 arrivò la sentenza di dissequestro e di proscioglimento per tutti gli imputati perché il reato non sussisteva. «Fu un’esperienza surreale. Alle elezioni del ’76 – ha raccontato il regista – non ricevetti il certificato elettorale. Pensai a un disguido burocratico per cui andai all’anagrafe elettorale a richiedere il documento; l’impiegato cercò il mio nome su una sorta di librone e venne fuori che mi era stato tolto il diritto di voto in conseguenza della condanna. Mi sentii per la prima volta profondamente ferito e umiliato. Oggi per fortuna nel nostro Paese questo tipo di censura non esiste più». Nel frattempo il film aveva battuto, anche grazie alla stupidità della censura, il record degli incassi di tutti i tempi: a fine sfruttamento Ultimo tango fece registrare la più alta cifra mai incassata da un film italiano: 150 miliardi di lire (adeguata alla rivalutazione). Ma non per questo la tv italiana ha mai ancora proiettato l’edizione integrale non censurata del film.
È questa una delle ragioni per cui chi scrive ha deciso, quale presidente del Centro Sperimentale di Cinematografia che governa la Cineteca Nazionale insieme alla Scuola Nazionale di Cinema, di procedere al (pur costoso) restauro integrale in 4K dell’opera di Bertolucci, restauro curato dal Premio Oscar Vittorio Storaro per la fotografia e dal grande tecnico del suono Federico Savina per la colonna sonora e presentato in anteprima mondiale il 28 aprile scorso al Bif&st che ha conferito al regista, per mano di un altro Premio Oscar, Giuseppe Tornatore, il prestigioso Premio Fellini. In quella occasione Bernardo ha narrato all’immenso pubblico che affollava il Teatro Petruzzelli per la sua Lezione di cinema qualche retroscena legato al film. «All’inizio, per la parte del protagonista, avevo pensato a Jean-Paul Belmondo, ma dopo aver letto la sceneggiatura mi cacciò dal suo ufficio dicendomi che non aveva alcuna intenzione di girare un porno, tale essendogli sembrato a causa delle scene di sesso previste dal copione. Decisi quindi di rivolgermi a Jean-Louis Trintignant che però rifiutò ammettendo con molto rammarico di non riuscire a stare nudo davanti alla macchina da presa. Fu quindi la volta di Delon a cui invece l’idea del film piacque al punto da volerlo coprodurre. Era evidente che intendeva acquisire un suo controllo, ma stavolta fui io a declinare la proposta, volendo preservare la mia libertà creativa. Così una sera, mentre ero a cena con amici a Piazza Navona, qualcuno suggerì il nome di Brando. Riuscii a far venire Brando a Parigi all’hotel Raphael, dove era solito andare Rossellini [“Non si può vivere senza Rossellini”, ha sempre amato dire BB, NdR]. Gli raccontai la storia del film in un minuto e mezzo e in un inglese improbabile, mentre lui in silenzio guardava in basso senza mai alzare gli occhi. Poi mi disse che stava cercando di capire quando avrei finito di agitare il mio piede per il nervosismo! Mi chiese quindi di vedere Il conformista, il mio film reduce da un grande successo internazionale e, terminata la visione, si alzò sorridendo e mi invitò ad andare qualche giorno a Los Angeles, dove avremmo parlato più a fondo della sceneggiatura, prima di passare alla realizzazione. Fu la mia prima volta in quella che, più che una città, mi sembrò un immenso parcheggio, ma ne rimasi subito affascinato. Arrivato a Los Angeles, mi trovavo al Beverly Hills Hotel in preda al jet lag, quando Brando mi chiamò per avvisarmi che sarebbe passato a prendermi entro mezz’ora. Così fu: ci dirigemmo a casa sua, a Mulholland Drive, per una strada sterrata lungo la quale ricordo che incontrammo una femmina di coyote con i suoi cuccioli. Sono andato da lui tutti i giorni per un mese e abbiamo parlato di tutto – dell’eternità, della vita, della morte – tranne che del film, segno che non c’era alcun pregiudizio da parte sua». E accettò di interpretarlo.
Anche per l’incredibile vicenda giudiziaria e soprattutto per i suoi giganteschi incassi al botteghino, Ultimo tango a Parigi ha comunque contribuito a determinare la fama internazionale di Bertolucci e ad aprirgli le porte di Hollywood. E infatti nel 1976 egli può girare il costosissimo e lunghissimo Novecento con grandi nomi del cinema italiano e internazionale fra i quali Robert De Niro, Burt Lancaster, Gérard Depardieu, Donald Sutherland, Sterling Hayden: grandiosa e potente epopea che racconta cinquant’anni di storia padana, di lotta di classe, di fascismo e antifascismo, di lotta partigiana di Liberazione. Film destinato anch’esso a suscitare non solo ottimi incassi in Italia ma anche accese polemiche politiche fra i dirigenti del Pci, partito al quale Bernardo aveva aderito e dal quale ritenne di doversi allontanare, ma senza alcuna diatriba.
A questo capolavoro del cinema contemporaneo faranno seguito due film considerati ingiustamente minori, anche se effettivamente non all’altezza delle opere precedenti: La luna (1979), che narra un ambiguo e difficile rapporto fra una madre (Jill Clayburgh) e il suo figlio adolescente, e La tragedia di un uomo ridicolo (1981), con Laura Morante e Ugo Tognazzi che otterrà a Cannes il premio per il miglior attore.
Il definitivo trionfo internazionale arriva nel 1987 quando Bertolucci conquista ben nove Oscar, fra i quali quello per la migliore regia (unico regista italiano), con un film straordinario, epocale, inimitabile qual è L’ultimo imperatore. Il film fu un grande successo a livello mondiale e permise a Bernardo di approfondire ulteriormente i suoi interessi e le antiche curiosità per il mondo dell’estremo Oriente con la realizzazione, nel 1993, dopo Il tè nel deserto del 1990 tratto dal celebre romanzo di Paul Bowles, di un altro kolossal d’autore, il discusso Piccolo Buddha, con Bridget Fonda e Keanu Reeves.
Nel frattempo Bertolucci comincerà ad avvertire i primi sintomi di quella grave forma di patologia che lo costringerà negli ultimi anni, progressivamente, prima al bastone, poi al deambulatore e infine alla carrozzella. Ma questa condizione fisica non gli impedirà di realizzare, l’uno dopo l’altro, altri quattro film, produttivamente meno impegnativi ma non per questo meno importanti: Io ballo da sola (1996), il prezioso L’assedio (1998), scritto, come altri suoi film, con sua moglie, la sofisticata e intensa regista e sceneggiatrice Clare Peploe, The Dreamers (2003) e infine, ormai obbligato alla carrozzella, Io e te (2012, dal romanzo di Niccolò Ammaniti), quattro opere intimistiche e in qualche modo “private”.
Con Bernardo Bertolucci scompare uno dei più grandi e importanti autori della storia del cinema di tutti i tempi. Un geniale regista, un coraggioso produttore, un intellettuale di rara eleganza, sagacia, cultura, ironia e spirito d’osservazione. E un militante politico e coltissimo che nei suoi ultimi mesi di vita dichiarava, senza giri di parole, la propria angosciosa consapevolezza della disastrosa situazione politica che il nostro Paese sta vivendo.
Felice Laudadio, presidente del Centro Sperimentale di Cinematografia, giornalista professionista, critico di cinema e televisione, produttore e sceneggiatore, manager culturale, ideatore e direttore di manifestazioni e festival cinematografici
Pubblicato lunedì 3 Dicembre 2018
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