Quasi ricordando La storia siamo noi di De Gregori, lo storico Carlo Greppi nel suo libro La storia sei tu ci dà un esempio di storia divulgativa giocata su una cronologia che parte dal presente e procede verso il passato. Attarverso il dialogo tra un nonno e una nipote lo storia ci porta dal crollo del muro di Berlino fino all’anno 1050. Come scrive Greppi: “questo libro nasce dalla voglia di aiutare i giovani lettori a orientarsi nel tempo, a percepire la storia come un percorso che, passo dopo passo, ha portato fino a noi”.
In effetti il libro di Greppi è una singolare mappa per orientarsi non solo nello spazio ma anche nel tempo. Se le generazioni di oggi hanno compresso il senso del tempo a un presente fuggevole e instabile, con questo tentativo Greppi prova a percorrere una sua strada per riacquisire la profondità del tempo storico e le radici di cui è fatto il nostro presente. Lo abbiamo intervistato.
Come è venuta l’idea di un libro di storia per ragazzi così particolare, dato che parte dal presente – la caduta del muro di Berlino nel 1989 – e procede a ritroso, fino all’XI secolo? Cosa ne può guadagnare, così facendo, la didattica della storia?
I bambini – e poi i ragazzi – fanno sempre molta fatica a “orientarsi” nel tempo: è naturale. E non appena approdano a scuola vengono immediatamente sbalzati in epoche lontanissime, “preistoriche” e poi remote, che poco o nulla hanno a che vedere con il mondo in cui viviamo. Allora ho pensato che avrebbe potuto essere utile e (spero) appassionante provare a fare il percorso inverso: raccontare la nostra storia a partire da quello che ci è più familiare e “vicino” per poi, passo dopo passo, procedere all’indietro.
Un nonno dopo l’altro, risalendo i secoli. Questo credo che ci permetta di avvicinarci meglio al mistero della percezione del tempo, rendendoci conto che lo studio del passato altro non è che un modo per scoprire quello che siamo e come siamo arrivati fin qui, navigando tra le diramazioni di una genealogia popolata da esseri umani non troppo diversi da noi. La storia è, appunto, lo studio dell’uomo nel tempo. O, per dirla con Ivan Jablonka (lo ha scritto nel suo manifesto La storia è una letteratura contemporanea), il «cercare di comprendere quello che gli uomini fanno».
Che valore aggiunto danno le illustrazioni di Marco Paschetta?
Un valore inestimabile. Il rapporto con Marco è stata una delle esperienze professionali più entusiasmanti che mi siano mai capitate. Lui si è innamorato del progetto e ci ha dedicato un’immensa energia, e abbiamo impostato il lavoro in tandem: man mano che io ultimavo due o tre capitoli glieli mandavo, lui abbozzava le sue strepitose illustrazioni, ne discutevamo, e così si procedeva. Credo di avergli fatto due, al massimo tre annotazioni di sostanza (e pure minime): Marco faceva le sue ricerche in parallelo, documentandosi con grande competenza, e riusciva sempre a trovare un’angolatura particolare, che dava profondità e ricchezza a quello che avevo scritto. Lo completava, in un certo senso: abbiamo realizzato davvero un progetto a quattro mani, affiancati costantemente dalla nostra editor, Stefania Di Mella, e da tutta la redazione di Rizzoli.
Il suo lavoro si è talmente “integrato” con le parti scritte che abbiamo deciso di far precedere il testo dalle illustrazioni, e non viceversa, per permettere ai lettori – più o meno giovani – di immergersi nel “quadro” di Marco prima di procedere nella lettura. E andare avanti così, antenato dopo antenato, tra le immagini che svelavano il quadro successivo e le parole che lo raccontavano. A un certo punto del lavoro, Marco ha iniziato a chiamarmi “Carlo delle generazioni”, e mi è venuto istintivo fare altrettanto. E ora, per me, lui è “Marco delle generazioni”.
Nel dialogo tra il nonno Dodo e la nipote si avverte il passaggio delle generazioni, la trasmissione della memoria storica ai giovani che, spesso, appaiono schiacciati sul presente. Questo scambio generazione è venuto a mancare? Come potrebbe essere recuperato?
Non saprei dire se sia venuto a mancare un rapporto tra le generazioni o se un allontanamento dalla storia di determinati periodi sia, nello scorrere del tempo, fisiologico – propenderei più per la seconda ipotesi. Certo è che la storia è troppo spesso percepita come una “materia” noiosa, un inutile rito che si ripete stancamente negli anni di scuola per poi finire in soffitta, perché il presente ci riguarda più da vicino. Credo però che la storia sia uno smisurato bacino di storie, le quali compongono un «serbatoio di precedenti» – come ho letto di recente in un commento a una trasmissione in cui ero ospite – che presenta indizi e dispensa insegnamenti per capire il presente e preparare al futuro. E ci “serve” eccome: questa è una verità che andrebbe trasmessa, senza dubbio.
Il 4 febbraio uscirà un mio libro (La storia ci salverà. Una dichiarazione d’amore, Utet) nel quale provo a dire perché, per me, questo deve essere fatto. Perché la storia, come la intendo io, deve essere etica, universale, reattiva e partigiana: deve servirci da guida per interpretare il presente e per comprendere noi stessi. Voi di Patria indipendente lo sapete bene.
Il libro propone percorsi inusuali, non propri della storia evenemenziale, come l’invenzione del dagherrotipo, la rivoluzione haitiana del 1791, il terremoto di Lisbona, il porto di Bristol… C’è, dietro, l’idea di una storia globale?
Assolutamente sì. Tenendo sempre al centro le persone comuni, e non gli uomini illustri, ho voluto focalizzarmi su alcuni punti nodali degli ultimi secoli che ci possono raccontare un cambiamento radicale, concentrandomi spesso e volentieri sulla mentalità. Penso appunto agli schiavi che insorsero in scia alla rivoluzione francese o ai movimenti radicali dei Diggers e dei Levellers inglesi del secolo precedente, ma anche alla “guerra dei contadini” che nel XVI secolo misero a ferro e fuoco l’Europa della Riforma al grido Omnia sunt communia (“tutto è di tutti”).
Poi ci sono le invenzioni – ad esempio la fotografia, appunto, o la stampa –, le grandi catastrofi come il terremoto di Lisbona o la grande peste del Trecento, e vicende che solitamente occupano poco spazio nei libri su cui studiano gli studenti italiani, come quella dell’impero mongolo, dei vichinghi che arrivano nelle Americhe cinque secoli prima di Colombo o della schiavitù mediterranea in età moderna.
Ho viaggiato per quattro continenti (Europa, Asia, Africa, America centro-settentrionale) risalendo genealogie sempre verosimili, mostrando come bastino una manciata di secoli per dimostrarci che le nostre “radici”, se così le possiamo chiamare, stanno nel mondo intero.
Pubblicato martedì 28 Gennaio 2020
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