La precisione di qualche storico potrà fissare cronologicamente la successione degli studi sui campi nelle nostre terre, ma almeno la sinopia di tutto l’affresco è ormai chiara.

Studi come quelli di Spartaco Capogreco (il suo lavoro fondamentale I campi del Duce, che censisce tutti i campi fascisti è stato tradotto anche in sloveno), Davide Rodogno, o di Tone Ferenc, Boris Jezernik, Alessandra Kersevan e, recentemente, di Francesca Meneghetti, lumeggiano a sufficienza l’entità del fenomeno, sotto il profilo ideologico e quantitativo. Altri studi potranno rimpolpare il tessuto connettivo. Ma il problema è quello della diffusione di questa conoscenza che genera ancora sospetti verso chi cerca di incontrarla. Epiteti, anche di segno opposto, sono piovuti persino su uno studioso marginale in questo campo, come chi scrive.

I libri di storia tacciono; fondamentale, per questo, è che il silenzio non si prolunghi negli insegnanti; ecco l’importanza di insistere. Sicché anche studi più particolareggiati riguardo una località, come questo, possono contribuire a conoscere e a superare. «Sono sicuro che parlare di soggetti “tabù” di questa guerra – mi ha scritto un ex internato a Gonars, il pittore Marijan Tršar – che chiarire tutte le ingiustizie subite in questo tempo pernicioso sarebbe veramente utile per migliorare le relazioni tra nostri due popoli. Conoscere meglio il proprio vicino, cancellare i mille pregiudizi reciproci fra ambedue, riconoscere difetti e virtù è a mio parere l’unica via per ottenere rispetto mutuo, per poter vivere insieme non soltanto in una vicinanza sopportabile, ma in una vera benevolenza umana. E proprio questo deve diventare il progetto futuro delle nostre due nazioni, destinate di vivere insieme in una futura Europa unita». Così questo intellettuale sloveno esorcizza anche il termine “tolleranza”, troppo spesso evocato, per sostituirlo concettualmente con quello umanamente più pregnante e giusto di “rispetto”.

In un suo recente lavoro Carlo Spartaco Capogreco riporta una dichiarazione del generale Carlo Robotti, comandante dell’XI corpo d’armata a Lubiana in cui si affermava (siamo nell’agosto del 1942): «Le autorità superiori non sono aliene dall’internare tutti gli sloveni e mettere al loro posto degli italiani… in altre parole far coincidere i confini razziali con quelli politici». Ci si accorse poi che un simile disegno era “tecnicamente” irrealizzabile, ma le deportazioni massicce ci furono: oscillano tra un dieci per cento della popolazione, secondo i dati della Santa Sede, e un diciotto per cento, secondo il Governo jugoslavo.

In un tale contesto fu allestito il campo di Gonars, pronto alla fine del 1941, per internare i militari dell’esercito jugoslavo, mentre nel maggio del 1942 essi furono trasferiti in un campo contiguo, per lasciare il posto ai civili. I dati sul numero delle persone rinchiuse sono discordanti, sia pure in non grandi percentuali, anche perché fluttuavano a seconda dei trasferimenti che venivano operati.

In un documento, redatto in sloveno il 25 febbraio del 1943 dal Comitato per l’aiuto agli internati di Gonars, si parla di 5.343 persone, fra cui 1.643 bambini; confrontando con un’altra fonte che dava il totale di donne e bambini assieme, si può parlare di circa 1.800 tra donne e bimbi.

Sono numeri che non hanno bisogno di tanti commenti, nella loro drammaticità, che viene accentuata da altri dati: 53 bambini nacquero dietro il filo spinato; 6 nacquero morti, tutti tra il dicembre 1942 e il marzo 1943. I morti in totale furono 422 (i sepolti nel sacrario accanto sono 453, perché sono stati portati anche da altre località di internamento), la gran parte di essi lasciò questo mondo tra il dicembre 1942 e il marzo 1943, ben 108 nel mese di gennaio!

Campo di concentramento di Visco (da http://campoconcentramentovisco.altervista.org/)

Metti una pianura: da Gorizia, va via filata fino alla chiostra delle Alpi che chiudono verso la Francia. Poco a ovest del torrente Torre, Visco, minuscolo, terzultimo comune d’Italia per superficie. Lo sottolineava una linea, il confine, simbolo di transazioni fra potenti. Dal ’500 a Napoleone, separazione o scambio fra cultura latina, a ovest, e ungherese, tedesca, slava a est, col respiro mediterraneo da sud. Dopo il congresso di Vienna, ancora Austria e confine interno fra Illirico e Lombardo Veneto; dal 1866 al 1915 fra Austria e Italia. Appena al di qua della linea, in territorio austriaco, a Visco, gli italiani allestirono un ospedale: il più grande “attendato”: 1.000 posti letto in tenda. Vi morirono quasi 600 soldati, i più, italiani, ma anche austriaci, di diverse etnie, e altra povera gente del luogo: era la prima guerra mondiale, la “grande” guerra. Dopo Caporetto, lo stesso luogo fu occupato da 400 profughi del Piave: avevano visto sparire a cannonate le loro case. Cessata la bufera, il lembo di territorio italico fu deposito di artiglieria, fabbrica di filo spinato, da sé foriero di futuri non rosei.

Altro conflitto mondiale, la seconda guerra, e il luogo diventa caserma di appoggio alla invasione della Jugoslavia che il fascismo condusse in compagnia di tedeschi, ungheresi e bulgari (6 aprile 1941). Alla fine del ’42, si chiedeva ancora posto per mettere migliaia di persone (sloveni, croati, bosniaci, erzegovini, serbi, montenegrini…) dietro il filo spinato, a negazione della umanità, uno dei campi prodotti dall’odio fascista. Nasce il campo di concentramento per internati civili.

da http://campoconcentramentovisco.altervista.org/)

La vergogna dura da febbraio a settembre 1943, poi un fiume di umanità dolente sciama di nuovo verso est: 25 i morti del campo; altri sulle vie del ritorno. I tedeschi occupano il campo: smontano le baracche di legno, le mandano in Germania; a tener prigionieri italiani catturati dopo l’8 settembre. Deposito della Wehrmacht, nel ’44 è teatro di una operazione di commando del Gap Bassa Friulana, li guida Ilario Tonelli, “Martello”: via un camion e rimorchio di armi.

Nel 1947 vi fanno tappa carabinieri e finanzieri che ripresero il controllo di Gorizia. Di lì al 1996, decine di migliaia di giovani di tutta Italia vi fanno la “naja”; tra essi Bonvi, il padre di Sturmtruppen, e Sergio Endrigo. Ora si tratta di riusare il cuore logistico del campo di concentramento fascista ancora intatto (e vincolato dalla Soprintendenza), in un’Italia…che ormai non lo può nascondere.

Ferruccio Tassin