I boschi di castagni e faggi che circondano la località di Flormi di Pegliano nel Comune di Pulfero, Valli del Natisone, territorio confinante con la vicina Repubblica di Slovenia, nascondono le rovine di un’antica chiesa del XV secolo (ma forse di epoca precedente) dedicata a San Nicolò Vescovo. L’edificio, in stato di grave rovina, è ancora circondato da un ben conservato muretto realizzato “a secco”. Nei pressi di questo muretto venne provvisoriamente sepolto il partigiano cividalese Anselmo Calderini, nome di battaglia “Ivan”, Caduto nelle vicinanze il 6 ottobre 1943.
Nell’occasione dell’ottantesimo anniversario della morte la sezione Anpi di Cividale del Friuli ha voluto onorarlo promuovendo un incontro nei luoghi che videro il suo sacrificio e con l’intitolazione della sezione di Cividale del Friuli ad Anselmo Calderini “Ivan“.
Prima di ricordare la sua figura vogliamo però contestualizzare la vicenda, richiamando l’attenzione sulla particolarità della lotta di Liberazione nelle nostre zone, al confine orientale d’Italia, che all’epoca, in virtù del Trattato di Rapallo del 1920, si estendeva nei territori all’interno delle attuali Repubbliche di Slovenia e di Croazia, comprendendo una popolazione di circa 500.000 cittadini italiani di lingua slovena e serbo-croata nonché qualche migliaio di cittadini di lingua tedesca nelle zone della Val Canale e del Tarvisiano.
Queste “minoranze” nazionali (anche se non lo erano affatto nei territori da loro abitati) subirono una violenta opera di snazionalizzazione, nel caso delle Valli del Natisone, iniziata già al momento dell’annessione al Regno d’Italia nel 1866. Violenza che fu etnica, anzi razziale se riprendiamo le parole pronunciate a Pola il 21 settembre 1920 da Mussolini: “Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone”.
È proprio per queste ragioni, per questo concetto di razza espresso dal fascismo, che è stato scritto all’Articolo 3 della nostra Costituzione il richiamo a questa parola, che non è da intendersi, come recentemente ha fatto la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, quale riconoscimento dell’esistenza di razze nel genere umano ma è invece lì inserita, in Costituzione, per rimarcare che quanto è accaduto in Italia, è accaduto a opera della politica fascista! E non si dovrà ripetere. In altri termini quella parola è inserita nella Carta costituzionale, per dirla con Primo Levi, perché ci si ricordi che questo è stato.
Con le guerre d’aggressione contro altri Paesi, che pare essere una caratteristica degli interventi militari del Regno d’Italia post unitario come storicamente dimostrato dalla guerra contro la Turchia, precedente alla Prima guerra mondiale, al primo conflitto stesso con l’attacco all’Austria-Ungheria, con le aggressioni del primo dopoguerra all’Etiopia e all’Albania e poi nella seconda guerra mondiale a Francia, Grecia, Jugoslavia, Unione Sovietica, il Regno d’Italia si è macchiato di crimini contro l’Umanità dei quali, a tanti anni di distanza, la nostra Repubblica, nata dalla Resistenza, non riesce ancora storicamente a farsi carico.
È utile a questo punto citare un articolo di Eric Gobetti pubblicato il 10 settembre 2023, all’indomani della clamorosa assenza delle Istituzioni italiane all’80° della Liberazione del campo d’internamento fascista italiano sull’Isola croata di Rab: “Continuare a ignorare, a nascondere, a negare i crimini fascisti significa considerarsi ancora colpevoli; significa di fatto condividerne la logica, i principi, le motivazioni, l’ideologia. E vuol dire anche voler continuare a ragionare e operare con la stessa prospettiva, mettendo l’Italia e gli interessi dei suoi uomini più potenti al di sopra di ogni cosa, addirittura della vita di chi è straniero, diverso, debole, come mostrano le ripetute stragi di migranti nei nostri mari. Salvare un naufrago in mare non è un segno di civiltà italiana ma di umanità. Deportare, internare e lasciare morire di fame intere popolazioni, come fatto dal regime fascista in Libia, Etiopia e Jugoslavia non può essere giustificato dagli interessi supremi della patria. Si tratta di un crimine contro l’umanità e va condannato sempre”.
In quelle tragiche campagne di aggressione militare, scatenate dal fascismo contro altri Paesi, i militari di leva inviati a combattere con mezzi inadeguati sui vari fronti furono esecutori e testimoni delle violenze e dei crimini contro l’Umanità compiuti dal Regno d’Italia e dal fascismo: essi formando però una coscienza antifascista che fino ad allora era stata appannaggio di pochi, si scoprirono vittime del regime. Gran parte dei militari, la grandissima parte, al momento della resa dei conti, scelse di non collaborare col fascismo passando con le forze della Resistenza o preferì la dura prigionia dei campi d’internamento del Terzo Reich.
Nel 1941, il 6 aprile, con l’aggressione al Regno di Jugoslavia, i Savoia e il fascismo hanno legittimato e incentivato la lotta armata in tutto il territorio del Regno d’Italia etnicamente abitato da sloveni e croati. Il Trattato internazionale che sanciva e quindi legalizzava sul piano internazionale i “confini di Rapallo” diventava, nei fatti, carta straccia, rinfocolando le peraltro legittime aspirazioni indipendentiste dei popoli slavi.
Questi eventi però fornirono anche l’occasione per rinsaldare quell’unità d’intenti che univa su basi internazionaliste i comunisti dei vari gruppi etnici. Unità che già nel 1921 portò all’elezione al Parlamento italiano di ben quattro deputati sloveni, Podgornik, Wilfan, Šček e Laurenčič e un comunista, Giuseppe Tuntar. Nell’ultima elezione multipartitica nel 1924, nonostante il ridisegno del collegio elettorale di Gorizia, finalizzato a ridimensionare la presenza delle minoranze, vennero comunque eletti tre sloveni, Besednjak e Wilfan e il comnista Jože Srebrnič. Negli anni della dittatura, dalle pagine della rivista clandestina Stato Operaio del Partito Comunista d’Italia si riafferma la questione delle minoranze oppresse sulla base dell’autodeterminazione e dell’internazionalismo e si rinsaldano i rapporti politici e di azione nel comune destino che vede i militanti e dirigenti socialisti e comunisti in carcere o al confino.
Non solo, dalle parole si passa ai fatti: le sporadiche azioni terroristiche degli sloveni del Litorale si trasformano, grazie all’egemonia acquisita dai comunisti all’interno del Movimento di Liberazione Nazionale, in una capillare organizzazione capace non solo sul piano militare, ma anche in grado di coalizzarsi e quindi di intrattenere rapporti e alleanze.
Nel mese di agosto del 1942 si forma il 1° Battaglione sloveno “Simon Gregorčič” e in ottobre il “Soški Odred”. Nel novembre del 1942 Edvard Kardelj, stretto collaboratore di Tito, diffonde le seguenti direttive: “Bisogna… decisamente superare gli stretti confini nazionali della nostra attività di massa e coinvolgere anche le masse italiane, specie il proletariato delle città. Date la possibilità ai lavoratori italiani di collaborare nella lotta antifascista, che nella attività pratica siano legati all’OF, mentre dal punto di vista organizzativo siano autonomi…”. Poco dopo, nel gennaio 1943, a nome del Comitato centrale del Pcs, impartirà l’istruzione ai quadri del partito: “Mobilitare il maggior numero di compagni italiani per l’esercito partigiano. Fate in modo che sia subito possibile organizzare delle unità autonome italiane, cominciando dal plotone in su. Fino a nuovo ordine queste unità rimangono alle dipendenze dirette del nostro comando partigiano. Ma bisogna fare ogni sforzo – aggiungeva – perché si formi al più presto possibile un comando separato delle unità partigiane italiane, che si presenti ufficialmente come tale e che avrà una forte influenza politica sulle masse popolari italiane”.
Nei fatti, già dalla fine del 1942, si tennero regolari collegamenti tra i rappresentati del Pcd’I di Cividale del Friuli, Mario Lizzero ed Ernesto De Monte e il Comando dei partigiani sloveni che aveva sede a Sužid, nei pressi di Caporetto, nella persona di Mirko Bračič. Per queste ragioni, la nostra regione ha il primato della nascita della Resistenza armata: qui la lotta antifascista è nata prima ed è finita dopo rispetto al resto d’Italia.
Alla fine di febbraio 1943 si ha documentazione dell’arrivo di volontari friulani presso il 3° Battaglione sloveno (Briški). Il 1° marzo, il Comando della zona operativa del Litorale scriveva infatti al battaglione in questi termini: “Vi avvisiamo che questo è di straordinaria importanza politica internazionale. Questa fuga dei friulani ai partigiani significa che comincia ad organizzarsi l’Esercito Partigiano d’uno dei più grandi Stati fascisti, l’Italia. Ma è d’una importanza ancora più grande il fatto che questi nuclei partigiani sono composti da italiani”.
Si rimarcava quindi, da parte slovena, la straordinaria importanza della nascita di una Resistenza al regime, armata, autonoma e composta d’italiani. Nel marzo 1943 infatti si costituisce il primo nucleo partigiano italiano armato, il “Distaccamento Garibaldi”, al quale aderiranno dapprima una dozzina di combattenti e a cui parteciperà anche il cividalese Edoardo Tosoratto (Oddo), Medaglia d’Argento al Valor Militare per la Resistenza. Questa formazione, della quale alcuni componenti provenivano dal battaglione del Collio alle dipendenze della Brigata “Ivan Gradnik” è stata – con larga autonomia – alle dipendenze operative della Brigata “Simon Gregorčič”. Da questo primo nucleo si costituirà, nella seconda metà di settembre 1943, la Brigata “Garibaldi”, comandata da Mario Modotti, “Tribuno”. Questa formazione, nei mesi successivi e per successivi apporti arriverà a costituire un’intera Divisione partigiana: la Divisione d’Assalto Garibaldi-Natisone, che smobiliterà poi a Udine il 20 maggio 1945. Nei mesi successivi all’8 settembre si cominciano anche a costituire formazioni partigiane di diverso orientamento.
Ma torniamo all’ottobre 1943, all’epoca si erano già verificati scontri con le truppe naziste incaricate di occupare la nostra regione. Scontri anche molto cruenti come quelli della “Battaglia partigiana di Gorizia”, svoltasi dal 12 al 30 settembre 1943, e che vide contrapposte le truppe tedesche ai militari della Divisione “Torino”, ai partigiani della “Brigata Proletaria” costituita in gran parte dagli operai dei Cantieri navali di Monfalcone e dai partigiani di varie formazioni slovene.
La “Battaglia di Gorizia” costò la vita a 54 civili, 147 partigiani (89 della “Proletaria” e 58 sloveni) e a 4 militari. In questa nostra area esisteva invece, dal 10 settembre e fino a novembre 1943, per ben 52 giorni, la “Kobariška Republika”, un’ampia Zona Libera sotto il controllo partigiano di circa 1.400 chilometri quadrati che si estendeva dalla stretta di Žaga a Podbrdo e dal Collio alle Valli del Torre, comprendendo le Valli del Natisone fino a lambire il territorio di Cividale. Di fatto quest’area, controllata dagli sloveni, costituisce la prima Repubblica Partigiana in territorio allora appartenente al Regno d’Italia.
In uno di questi combattimenti che si svolsero ai margini della Zona Libera cadde, colpito a morte contro una pattuglia tedesca, il comandante del Battaglione “Friuli”, il cividalese Anselmo Calderini “Ivan”. La sua appartenenza a questa formazione, che faceva parte della 1ª Brigata “Garibaldi”, oltre a farne il primo Martire cividalese, comporta anche che egli risulterebbe essere il primo Caduto “garibaldino” d’Italia.
Tutta la famiglia Calderini ha pagato un carissimo prezzo alla Liberazione del nostro Paese. Anselmo Calderini era nato a Cividale del Friuli il 26 ottobre 1911, primogenito di Giuseppe e Antonia, a cui seguiranno tre fratelli: Aldo, Fabio e Bruno. Con la tragedia della ritirata di Caporetto e all’avanzare dei soldati tedeschi, mentre il marito Giuseppe è soldato al fronte, Antonia da sola con i figli abbandona la sua casa.
Nel dopoguerra l’emergenza abitativa diventò molto pesante: la famiglia ottenne dal Comune di Cividale del Friuli un alloggio in località Rubignacco, all’interno dei baraccamenti ceduti dal Ministero delle Terre Liberate, come riparazione dei danni provocati dalla guerra. In queste baracche di ex militari trovavano alloggio 39 famiglie con un presenza complessiva di 200 persone. Il sostentamento economico delle famiglie era precario a quei tempi, il capofamiglia Giuseppe da contadino passò a colono fino a essere assunto come operaio nello stabilimento Estratti Tannici, chiamato “Il tannino” di Cividale del Friuli.
Nel 1930, in pieno fascismo, durante il turno notturno, la fabbrica viene circondata dalla polizia per eseguire perquisizioni. Gli agenti fermano anche Giuseppe Calderini che aveva nascosto una copia de l’Unità assieme alle tessere della Cgdl e in seguito, presso la sua abitazione, trovano la tessera di militanza del Psu. Viene denunciato dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato e dopo qualche mese di prigione è condannato a 5 anni di sorveglianza speciale. Licenziato dalla fabbrica, e obbligato, quale sovversivo, a farsi trovare a casa al tramonto e di non assentarsi mai dal paese. Questa sua formazione politica antifascista la trasmetterà ai figli assieme ai valori della libertà e di una società più giusta. Tutta la famiglia darà un grande contributo alla Resistenza [1].
Per queste ragioni ad Anselmo Calderini abbiamo dedicato la sezione Anpi di Cividale del Friuli. Lo riteniamo un atto dovuto, un segnale, un’indicazione anche per la nostra comunità cividalese, per i nostri giovani a tributo e ricordo di “Ivan”.
I lunghi mesi di lotta che dovevano ancora trascorrere dall’ottobre del 1943 alla fine della guerra, con tutto il carico di sofferenza riversata sulle popolazioni e sulle formazioni partigiane, con razzie, deportazioni, incendi di paesi, eccidi, fucilazioni e impiccagioni sulla pubblica piazza devono rimanere impresse a perenne monito alla Libertà conquistata e devono renderci consapevoli che la Libertà va coltivata ogni giorno non essendo un valore acquisito una volta per sempre. Non va inoltre dimenticata la persecuzione operata nei confronti dei Partigiani (soprattutto quelli provenienti da una certa parte politica) nel dopoguerra. In particolare qui, nelle zone del confine orientale, dove operarono le strutture segrete anticomuniste di “Gladio” e la pesantissima pressione delle servitù militari che hanno impedito per decenni libertà di movimento e bloccato lo sviluppo economico del territorio.
Assistiamo ora a guerre che s’ispirano a nazionalismi; si edulcora questa parola parlando di “sovranismo”, ma è la stessa identica cosa, ha la stessa matrice fascista che si erge ad essere superiore, non rispetta gli altri popoli, le altre culture e che in definitiva porta alla guerra. Di nuovo, in questi giorni, si sospende il trattato di Schengen sui confini, ripristinando il controllo di polizia e militare lungo tutta la linea confinaria, ricreando le condizioni perché sia letta come una frontiera, quando, nei fatti, dopo i trattati sottoscritti con la Jugoslavia già all’inizio degli anni 60 del secolo scorso, viene comunemente definita come “il confine più aperto d’Europa”.
Gli attacchi reiterati, alla nostra Costituzione, già largamente inapplicata nei suoi fondamenti, provenienti da varie parti politiche e volti a stravolgerne l’impianto, non possono lasciarci indifferenti in un’epoca di guerre, di diseguaglianze economiche e sociali, di sconvolgimenti ecologici e nazionalismi imperanti. Per questo dobbiamo prendere esempio dai nostri partigiani che seppero intrattenere rapporti di cooperazione, pur negli inevitabili contrasti e distinguo, con la Resistenza jugoslava, nella visione di un futuro di pace che pare non essere più alla nostra portata.
Luciano Marcolini Provenza, Anpi Cividale del Friuli, componente presidenza Anpi provinciale Udine
[1] L’antifascismo e la Resistenza della Famiglia Calderini.
Aldo Calderini
Nel 1933 viene arrestato con l’accusa di appartenere al PCdI. Incarcerato prima a Udine e poi a Perugia a disposizione del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato. Scagionato per insufficienza di prove venne liberato nel 1934.
Fabio Calderini
Partecipa alla guerra di Liberazione con la formazione Garibaldi con il nome di battaglia di “Andrea”.
Bruno Calderini
Dopo l’8 settembre 1943 viene fatto prigioniero dalle truppe tedesche mentre si trova ricoverato presso l’ospedale militare della città di Tebe in Grecia e internato in Germania in lavoro coatto (IMI). Viene rimpatriato dalla prigionia nell’agosto del 1945.
Anselmo Calderini
Dopo l’8 settembre 1943 partecipa alla guerra di Liberazione con la formazione Garibaldi, con il nome di battaglia di “Ivan”. Il 6 ottobre del 1943 muore in località Pegliano in uno scontro a fuoco con formazioni nazifasciste. Il suo corpo, recuperato dai suoi compagni di lotta, viene provvisoriamente sepolto vicino al muretto della vecchia chiesa di S. Nicolò Vescovo. Dopo la Liberazione il fratello Aldo, assieme ad altri compagni, recuperano la salma per onorarlo e dargli sepoltura. Anselmo nel 1943 era sposato con Ester Ines Pinosio e dalla loro unione erano nati Luciano e Elda.
Ines Pinosio
Aderisce alla lotta partigiana in qualità di staffetta con il nome di battaglia di “Mara” a seguito di una delazione viene arrestata dai tedeschi e internata nel 1944 nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, rimpatriata nel giugno del 1945. Nel 1949 Ines, risposatasi, ha un figlio che chiama Ivano: la Chiesa, all’epoca, non permetteva l’iscrizione del nome Ivan.
Pubblicato venerdì 27 Ottobre 2023
Stampato il 14/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/ci-guidavano-le-stelle/anselmo-calderini-ivan-il-primo-garibaldino-ucciso-in-battaglia-sul-confine-orientale/