Guido Picelli, la scheda al tempo del suo confino politico a Lipari

Guido Picelli, protagonista della resistenza al fascismo nelle cinque giornate di Parma dell’agosto 1922, muore il pomeriggio del 5 gennaio 1937 sulla collina di “El Matoral”, a un paio d’ore di marcia da Mirabueno. Quel giorno due compagnie del Battaglione Garibaldi, guidate dall’ex deputato comunista, devono affiancare il battaglione polacco Dombrowski che cerca di dare l’assalto al monte San Cristobal, tenuto dai franchisti e posizione cruciale nel controllo delle vie di comunicazione della zona di Siguenza.

Una delle foto del funerale di Picelli a Barcellona (archivio fotografico Anpi nazionale)

Picelli, come sempre, sta alla testa dei suoi uomini, benché per questo sia stato più volte rimproverato dal comandante Randolfo Pacciardi, quando viene colpito dalle postazioni nemiche, forse da un colpo di mitragliatrice o da una scarica di fucile.

Albacete, Spagna, ottobre 1936. Una delle compagnie delle Brigate Internazionali (archivio fotografico Anpi nazionale)

Recuperato il cadavere, la mattina successiva viene allestita una camera ardente presidiata dai suoi garibaldini che aveva addestrato per quasi un mese a La Roda, una base vicina ad Albacete dove si trovava il comando delle Brigate Internazionali. La salma verrà poi trasferita a Madrid dove si terrà una prima commemorazione organizzata dai partiti del Fronte Popolare e a cui partecipano anche le formazioni anarchiche.

Dicembre 1936, Vallejas. Garibaldini di Spagna durante una sosta. In primo piano a sinistra, Giuseppe Di Vittorio

Per le Brigate sarà Giuseppe Di Vittorio, che in Spagna è conosciuto con lo pseudonimo di Mario Nicoletti, a tenere un’orazione nella quale si ricordano le vicende di Parma e la forte vocazione antifascista che aveva sempre caratterizzato Picelli. I funerali si terranno poi a Barcellona, organizzati dal Psuc (il Partito Socialista Unificato sorto dall’unificazione di comunisti e socialisti) con la partecipazione del console sovietico Antonov-Ovseenko, che poi cadrà sotto i colpi della repressione staliniana.

Picelli (primo a sinistra) al confno a Lipari con altri antifascisti

Picelli aveva lasciato clandestinamente l’Italia, quasi certamente attraverso la Svizzera, alla fine di febbraio 1932. Ai primi di novembre erano finiti i cinque anni di confino e, dopo un breve passaggio a Roma, chiese e ottenne dalle autorità fasciste (che continuarono a tenerlo sotto stretta osservazione) di potersi recare a Milano, dove la moglie Paolina lavorava presso la delegazione commerciale sovietica. Nella capitale lombarda aveva potuto riprendere i contatti col suo partito grazie a Italo Nicoletto che era stato con lui a Lipari e che svolgeva il servizio militare in quella città.

Esuli in Francia, terra dove si rifugiarono antifascisti di varie tradizioni politiche

In Francia, venne impegnato dal Centro estero del Pci in un intenso giro di conferenze rivolte alle comunità di emigrati italiani che si tenevano sotto l’egida dei Comitati Proletari Antifascisti, un’organizzazione frontista sostanzialmente diretta dai comunisti. Arrestato ed espulso dalla Francia ai primi di agosto si trasferì via nave a Mosca dove arrivò alla fine di agosto del 1932.

Le torri del Cremlino a Mosca

Sulla sua permanenza a Mosca sono circolate spesso informazioni distorte o vere e proprie leggende. Solo l’apertura degli archivi sovietici ha potuto consentire di capire meglio quali furono le condizioni nelle quali si trovava nella capitale sovietica, i suoi rapporti col Pci e col Comintern.

Con l’obbiettivo di riportare il confronto all’analisi dei documenti e alla valutazione critica delle testimonianze, ho ritenuto utile (avvalendomi anche del precedente lavoro di storici che nel corso del tempo si sono occupati di Picelli come Dianella Gagliani, Fiorenzo Sicuri, William Gambetta, Elena Dundovich, Marco Puppini) pubblicare il mio volume “Indagine su Picelli. Fatti, documenti, testimonianze” (Youcanprint, 2023, pp. 236, € 20,00). Oltre ad alcuni saggi che esaminano dettagliatamente aspetti particolari della biografia di Picelli da quando lascia l’Italia alla sua caduta in battaglia (tra cui i rapporti con l’Nkvd, il Commissariato sovietico per la sicurezza, la sua visione dell’Unione Sovietica, le motivazione del suo avvicinamento al Poum, ecc.) mi è parso significativo rendere disponibile un rilevante numero di documenti, in buona parte tratti dal fascicolo a lui dedicato nell’archivio del Comintern, come anche sue lettere e articoli di giornale non ancora ripubblicati in Italia.

Non è possibile in questa nota entrare nel dettaglio della massa di informazioni che sono stati messe a disposizione del lettore, ma si possono segnalare alcuni temi sui quali è possibile fondare una visione più precisa della vicenda di Picelli, accantonando un certo numero di interpretazioni non fondate o di deformazioni finalizzate alla polemica politica.

Russia, fabbrica sovietica negli anni Trenta

Il protagonista delle Barricate di Parma viene impiegato come operaio, dopo il suo arrivo, nella nuova grande fabbrica di cuscinetti a sfera da poco inaugurata a Mosca e intitolata allo stretto collaboratore di Stalin, Lazar Kaganovich. Vi resterà per quasi tutto il periodo della sua permanenza, tranne una breve interruzione di circa un mese nel quale sarà dislocato presso il Comintern, per un’attività di cui non conosciamo esattamente i contorni ma che ha sicuramente a che fare con il settore politico-militare, l’azione di propaganda all’interno degli eserciti dei Paesi capitalisti e così via.

Lazar’ Moiseevič Kaganovič, stretto collaboratore di Stalin

Per circa un anno Picelli viene anche inserito all’interno della Scuola Leninista Internazionale dove tiene un corso rivolto agli studenti italiana sui temi della strategia e tattica militare, azioni di guerriglia ecc. I temi militari sono infatti quelli che più appassionano il comunista parmigiano e per questo spera ardentemente di poter entrare in un’Accademia sovietica dalla quale uscire con una formazione adeguata a dargli un grado militare.

Durante la Prima guerra mondiale aveva partecipato al conflitto nelle file dell’assistenza sanitaria ma per il coraggio dimostrato venne inviato a un corso per sottufficiale di complemento. Questa esperienza e quella successiva, che lo aveva visto alla guida degli “Arditi del Popolo”, lo avevano consolidato nella convinzione di poter dare un contributo al lato militare della lotta politica. Questa aspirazione, per la quale era disposto anche a svolgere “vita di caserma”, come scrive lui stesso, non poté realizzarsi con sua grande delusione nonostante il sostegno dei dirigenti del Partito Comunista. L’ultimo tentativo in tal senso venne messo in atto da Ruggero Grieco, segretario di fatto del Pci in quel periodo, quando si trovava a Mosca per il VII Congresso del Comintern. Nonostante il mancato inserimento tra quadri dell’Internazionale Comunista o in una Accademia sovietica, Picelli continua a venire coinvolto in questioni militari, come attesta il lungo articolo pubblicato nell’autunno del 1935 a Parigi e in Svizzera nel quale resoconta delle grandi manovre militari tenute dall’Armata Rossa a metà del settembre nei dintorni di Kiev.

Stalin nel marzo 1935. L’anno successivo, quando Picelli lascerà l’Urss, non si è ancora scatenato il terrore indiscriminato

Picelli si trova a vivere esperienze sicuramente spiacevoli in un contesto che si fa certamente più pesante a partire dall’assassinio di Kirov della fine del 1934. Quando lascia Mosca a metà ottobre del 1936, ancora non si è scatenato il terrore indiscriminato che prenderà l’avvio nella primavera dell’anno successivo dopo il noto discorso di Stalin al comitato centrale del Partito Bolscevico. All’inizio del 1936 viene coinvolto in uno scontro che si protrae da tempo all’interno della comunità di lavoratori italiani che lavorano alla Kaganovic. Il Comitato di fabbrica del partito sovietico lo accusa di frazionismo anche se Picelli rivendica di non aver mai aderito a posizioni di minoranza e di aver sempre sostenuto la politica che prevale nel Partito sovietico. Queste polemiche non mutano però il giudizio politico positivo che il Pci formalizza nel giugno del 1936 a completamento di una verifica dell’affidabilità di tutti gli emigrati italiani che vivono a Mosca. Proprio a seguito di quell’accertamento viene raccomandata la sua iscrizione al Pcus. Il suo nome compare tra i primi sottoscrittori dell’appello alla “riconciliazione degli italiani” che il Pci diffonde ai primi di agosto e che molte polemiche sollevò allora e anche in sede di ricostruzione storica.

1° maggio 1936. Disordini a Barcellona provocati dai fascisti contro il governo legittimo

Intanto Picelli verificata ormai l’impossibilità di entrare in una Accademia militare e forse anche per i fastidi derivanti dalle polemiche in fabbrica, pensa di tornare in Francia a svolgere azione politica per il Pci e a sostegno del fronte popolare. Quando poi scoppia la guerra civile spagnola questo desiderio si rafforza perché in essa vede la possibilità di riprendere in prima fila la lotta contro il fascismo anche sul terreno militare. Un conto che era rimasto aperto dall’Italia del 1922.

Il logo del Soccorso Rosso Internazionale

Picelli, che ottiene per questo il visto di Togliatti, sollecita ripetutamente Manui’lski, il principale dirigente sovietico del Comintern, che effettivamente interviene in suo favore. Occorre avere il visto anche del Nkvd e questo arriva il 3 ottobre del 1936. Una decina di giorni dopo Picelli può lasciare Mosca via terra con il sostegno economico e organizzativo del Soccorso Rosso Internazionale.

Convinto di potere dare un contributo originale allo svolgimento della guerra civile in Spagna, Picelli si scontra con gli inviti alla prudenza del Centro estero del Pci, considerato che ancora non si è formalizzato l’accordo con il Governo spagnolo per l’inquadramento delle Brigate Internazionali e nemmeno l’intesa tra comunisti, socialisti e repubblicani per la formazione del Battaglione Garibaldi. Benché avesse concordato di partire per la Spagna a fine ottobre alla testa di un gruppo di volontari, Picelli non si presenta all’appuntamento ed entra in contatto con i socialisti massimalisti che considerano il Poum (Partito Operaio di Unificazione Marxista, comunisti dissidenti presenti prevalentemente in Catalogna) il loro partito fratello.

Incontrato Gorkìn, dirigente del Poum che nel dopoguerra diventerà propagandista di un centro finanziato e diretto dalla Cia, a Parigi ai primi di novembre, arriva attraverso i canali dei massimalisti (che hanno a Barcellona come rappresentante il giovane Giuseppe Bogoni, alias Martini) quasi certamente l’8 novembre. Per alcuni giorni viene ospitato alla Caserma Lenin, sede militare dei poumisti, fino a che incontra alcuni militanti comunisti che lo conoscono e che lo convincono anche con una certa rudezza a recarsi ad Albacete, alla base delle Brigate Internazionali (non sono stati finora identificati i nomi di questi militanti, sappiamo solo che uno di loro si chiamava Salvatore).

Un rastrellamento falangista. Siamo nell’agosto 1936

Picelli, mosso dall’impulso di partecipare alla lotta antifascista pensa che il Pci non lo valorizzi adeguatamente e crede forse alle promesse di Gorkìn sul suo impiego nella zona di Huesca alla guida di una compagnia col grado di capitano. Arrivato a Barcellona proprio nei giorni nei quali le Brigate Internazionali entrano in battaglia per la difesa di Madrid si rende conto di avere commesso quella che qualcuno poi definirà “una stupidaggine”.

Brigate Internazionali

Le vicende di Picelli come addestratore a La Roda e poi in combattimento sono più note e affidate a numerose testimonianze. Abbiamo potuto accertare, attraverso i documenti militari dell’archivio delle Brigate Internazionali, che il 16 novembre si trovava già ad Albacete e che quel giorno gli viene affidata la guida di un battaglione misto. Successivamente viene dato vita provvisoriamente al 9° battaglione interamente italiano, decisione a cui si dovrà soprassedere a seguito delle pesanti perdite subite dal Garibaldi a novembre. Picelli con 300 uomini si integra alla formazione guidata da Pacciardi con il ruolo di vicecomandante e il grado di capitano.

L’esame dei documenti, della stampa dell’epoca e delle testimonianze (queste ultime valutate criticamente dato che spesso vengono fornite a decenni di distanza dagli eventi) non supportano né la tesi di un Picelli in rotta col Pci e perseguitato come “eretico” a Mosca, né una diminuzione del suo ruolo militare in Spagna per effetto di un presunto “trotskismo”, né di una rottura definitiva con i comunisti.

Giorgio Braccialarghe, al tempo della Guerra Civile spagnola era anarchico. Poi diverrà repubblicano anticomunista

Per quanto riguarda l’ultima giornata di Picelli, se è vero che nei dettagli le testimonianze sono a volte contraddittorie (colpo di mitragliatrice o di fucile?) si può sottolineare che nessuno tra i volontari garibaldini presenti sulla collina del Matoral quel giorno (circa duecento) come gli altri che si trovavano a Mirabueno o La Roda, a prescindere dall’appartenenza politica, ha mai avanzato dubbi sulla morte di Picelli. Anche lo stesso Giorgio Braccialarghe, allora anarchico e poi repubblicano anticomunista, ha recisamente negato, intervenendo a Parma nel 1987, che fra gli antifascisti presenti in Spagna a fianco di Picelli ci potessero essere dei “sicari”.

La tesi della morte per mano comunista è stata alimentata, in modo carsico, nel corso degli anni in funzione delle vicende politiche del momento. Nel 1953 fu la Democrazia Cristiana a utilizzare le dichiarazioni di Valentin Gonzales (El Campesino), passato all’anticomunismo negli anni della Guerra Fredda, per diffondere una versione “alternativa” della morte di Picelli. Una ricostruzione quella del Campesino che risulta grossolanamente falsa come risulta facilmente dal confronto tutte le testimonianze, dato che sostiene l’uccisione di Picelli il 1° gennaio (quattro giorni prima della realtà) e non al fronte ma nelle retrovie.

Questa “leggenda nera” ha trovato negli ultimi anni come principale banditore il documentarista Giancarlo Bocchi, il quale non ha però portato elementi significativi a sostegno della sua tesi. Secondo Bocchi, Picelli sarebbe andato in Spagna per combattere “il fascismo e tutti i totalitarismi” (intendendo quindi anche il comunismo identificato tout court con lo stalinismo). Una tesi che non si basa su alcuna prova documentata.

Alcide Leonardi, detto Luigi. Combattè nella Guerra Civile spagnola e il suo capo era Picelli

Questo autore ha anche lanciato accuse infamanti contro i volontari garibaldini, molti dei quali hanno poi svolto un ruolo di primo piano nella Resistenza italiana. È il caso del reggiano Alcide Leonardi più volte indicato come il sospetto killer sulla base di una presunta “gita premio” a Mosca che lo avrebbe ricompensato per avere colpito alla schiena a tradimento Picelli. In realtà Leonardi, che sarà una delle più coraggiose personalità della lotta partigiana in Emilia-Romagna, continuò a combattere in Spagna dopo la morte di Picelli fino a restare ferito a Guadalajara. Successivamente rientrato in Francia, da dove proveniva, il Partito Comunista lo inviò a Mosca per un breve corso di alcuni mesi per poi tornare da gennaio del 1938 a svolgere l’attività di corriere clandestino verso l’Italia fascista. Una ben singolare “gita premio”.

La tomba di Guido Picelli nel cimitero di Montjuic a Barcellona. Sarà smantellata da Franco nel 1939, e i resti del combattente, come quelli di tutti gli antifascisti Caduti, dispersi in fosse comuni (archivio fotografico Anpi)

Accuse di analoga consistenza sono rivolte ad altri esponenti della lotta antifascista, che secondo Bocchi, sarebbero espressione di una “sinistra pavida e opportunista”. Un giudizio rivolto gratuitamente a chi spesso lasciò la vita nella terra di Spagna e poi in Italia per liberare l’Europa dall’oppressione nazifascista.

Franco Ferrari, redattore di Transform! Italia e autore di “Indagine su Picelli. Fatti, documenti, testimonianze.” (Youcanprint, 2023)