A scongiurare possibili equivoci, sarà bene precisare da subito che sarebbe fuorviante separare nettamente la presenza di Camilleri nel discorso pubblico dal suo ruolo di narratore. Ogni lettore non superficiale o distratto è in grado di riconoscere, nell’epopea minore ‒ perennemente sospesa fra dramma e commedia ‒ di Vigata, la grandi e irrisolte questioni del Mezzogiorno, in particolare postunitario; e di trovare evocati, nelle inchieste di Montalbano, alcuni fra i mali che hanno afflitto nell’ultimo venticinquennio, e affliggono tuttora, la società isolana e quella nazionale (la criminalità mafiosa, la piaga dell’affarismo, i flussi migratori, la corruzione dell’amministrazione statale, l’ottusità della burocrazia, la tenace sopravvivenza di arcaici pregiudizi, e altro ancora). A differenza della Sicilia di Sciascia, che col passare del tempo aveva perso progressivamente la sua identità di luogo storico-geografico per divenire metafora di una entità atemporale (il potere e le sue immutabili, spietate logiche), la Sicilia di Camilleri ha mantenuto i suoi tratti peculiari e si è però fatta specchio di una realtà più vasta.
Per converso, Camilleri non ha mai dato l’impressione di approfittare della sua notorietà di scrittore (peraltro arrivata tardivamente, allo soglia dei sessant’anni) per ergersi a maître à penser e per impartire lezioni, diversamente dai suoi (tanti) colleghi che si promuovono a opinionisti e sproloquiano disinvoltamente ‒ non di rado a sproposito ‒ su tutto. Come i veri narratori, Camilleri era divenuto “persona di consiglio” (per dirla con Benjamin); eppure non ha mai sofferto di presenzialismo, mai ha posato a influencer o ‒ peggio ‒ sfruttato i mezzi di comunicazione di massa per appagare vanità narcisistiche. La sua voce si è ascoltata raramente, talora in occasioni del tutto spoglie di risonanza mediatica (chessò, una festa dell’Unità in un paesino della provincia siciliana), oppure in seguito a eventi da lui ritenuti di gravità tale da esigere una ferma presa di posizione; ma la modestia e la riservatezza hanno conferito maggior risalto alle sue denunce e alle sue censure. Forse la discrezione era figlia di un carattere naturalmente schivo; ma la generosità riveniva sicuramente dalla consapevolezza dei propri doveri di cittadino e delle proprie responsabilità di intellettuale. In altri termini, Camilleri ha messo la sua celebrità al servizio di una causa collettiva.
Camilleri si è professato ostinatamente «comunista all’italiana».

Il suo comunismo non era un’ideologia, men che meno una dottrina politica (non risulta che abbia mai auspicato l’instaurazione della dittatura del proletariato nel nostro Paese, o l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione); era piuttosto un sentimento, un paradigma morale, una religione civile, era la fede nei valori e negli ideali ereditati dalla Resistenza, gli stessi che stanno a fondamento della Costituzione repubblicana e antifascista: la libertà, la democrazia, l’uguaglianza, l’emancipazione, la fratellanza, l’amicizia e la cooperazione fra i popoli. Perciò il crollo del socialismo reale non lo aveva indotto ad abiure, e neppure a radicali ripensamenti; credeva che quegli ideali e quei valori rimanessero pienamente attuali, che costituissero un patrimonio da custodire gelosamente, che andassero testimoniati senza deflettere o cedere allo sconforto. Non a caso negli ultimi anni i suoi appelli e i suoi moniti si erano fatti più frequenti, più appassionati: vedeva riapparire gli incubi del passato, riemergere un grumo oscuro di umori e di pulsioni ‒ nazionalismo, razzismo, xenofobia, intolleranza fanatica, accanto ai rigurgiti dichiaratamente fascisti ‒ che proietta la sua ombra minacciosa sul futuro. Camilleri ha replicato colpo su colpo alle manifestazioni più vistose di questa ondata retrograda, criticando aspramente il decreto sicurezza in nome del principio di accoglienza e del rispetto della persona umana, opponendo l’europeismo al sovranismo, difendendo l’insegnamento della storia nelle scuole e nelle università contro coloro che vorrebbero mutilare la memoria delle giovani generazioni, deprivarle della conoscenza critica di ciò che è stato.
Ferdinando Pappalardo, già docente presso l’Università degli Studi di Bari, già parlamentare, coordinatore Anpi Puglia, componente del Comitato nazionale Anpi
Pubblicato venerdì 26 Luglio 2019
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