Con Camilleri scompare l’ultimo grande scrittore siciliano, che per un lungo periodo è stato punto di riferimento di una gran parte della pubblica opinione nazionale, molto apprezzato in Europa e nel mondo. Nato come Luigi Pirandello e Leonardo Sciascia in quel pezzo di terra che va da Porto Empedocle a Racalmuto, il cui diametro supera appena i 25 km ma si è rivelato storicamente molto fertile, avendo dato la vita al filosofo Empedocle e poi a innumerevoli personalità che nei secoli si sono espresse in tutte le arti umane.
Camilleri ha conosciuto Pirandello (era cugino di sua nonna) ed è stato amico di Sciascia, e in un certo senso è stato erede dell’uno e dell’altro. Da Pirandello ha ereditato una concezione della teatralità e una visione distaccata degli avvenimenti umani che ha sviluppato in una visione meno drammatica e più umana, accompagnando i personaggi delle sue opere con affetto e benevola ironia.
Da Sciascia ha raccolto l’impegno civile e democratico, sospettoso del potere costituito, scoprendone i vizi, che mette alla berlina evidenziando le concezioni del potere che a ogni livello operano per interesse personale mal dissimulato e in modo antidemocratico. La sua lente passa in rassegna il fascismo, ma anche l’Italia democratica, dove il potere non è ancora cambiato.
Camilleri però non è come Sciascia preso dal pessimismo della ragione, lui porta con sé la speranza che gli uomini giusti come Montalbano, come i suoi poliziotti, possano salvare la situazione. La loro arma è la Costituzione. Lui non avrà quell’occhio al futuro che si trova in tutte le opere di Sciascia, da “Le parrocchie di Regalpetra” a “Il contesto”, da “Il giorno della civetta” a “Todomodo” e a “La scomparsa di Majorana”, fino alle opere di impegno civile come “A futura memoria” e agli articoli pubblicati sulle maggiori testate nazionali. No, Camilleri che ha chiuso la sua opera nel ricordo di Tiresia, è l’uomo di oggi, il democratico che dopo avere interpretato “Conversazioni su Tiresia” confessa di pensare a un futuro felice, perché crede nell’uomo, e saluta i suoi spettatori con un appuntamento: “Mi auguro di rivedervi fra cent’anni”. Lui guarda al presente, allo scontro in atto e si schiera con la Costituzione nata dalla Resistenza contro la politica del governo gialloverde; lui sta con gli immigrati, sta con la solidarietà, ha fiducia nella democrazia e si impegna fino all’ultimo respiro. Le parole che pronuncia prima della morte mostrano il suo impegno democratico, quando fa appello ai giovani a non perdere la memoria: sono il suo regalo ultimo all’Italia democratica.
Camilleri parla con una lingua che non è il siciliano né l’italiano ma la composizione delle due lingue in cui si mischiano parole in disuso e termini nuovi inventati da lui. È questa la chiave del suo successo: la lingua nuova che unisce il Nord con la Sicilia, e con questa parla al mondo delle sue speranze di un futuro migliore, dove c’è Montalbano che combatte e vince la mafia e neutralizza il potere e i suoi abusi, interpretando la sostanza del dettato costituzionale. Sarebbe bello approfondire oltre.
Ho conosciuto personalmente Andrea Camilleri nel 1986, il giorno dopo la strage di mafia a Porto Empedocle. Siamo partiti assieme per Roma. Io, di Racalmuto, allora ero un giovane consigliere provinciale e mi dovevo recare in missione nella Capitale; mi chiesero se potevo dare un passaggio fino all’aeroporto di Palermo a un regista della Rai: era Andrea Camilleri. Ricordo il viso cereo, e lui che ripeteva “ero lì e sono ancora vivo per caso”. La mafia aveva fatto strage, domenica 22 settembre, in una affollata via Roma, la strada principale di Porto Empedocle, luogo d’incontro e di passeggio. Assetato, Camilleri era entrato in un bar e non era stato raggiunto dai proiettili, ma in quella guerra tra clan morirono anche delle persone innocenti.
Ho ritrovato Camilleri quando ha accettato l’incarico di direttore artistico del teatro Regina Margherita di Racalmuto e per questo motivo, in seguito, è diventato cittadino onorario, quindi mio compaesano. “Devo farlo – disse Camilleri –. Pago il debito che ho verso Leonardo Sciascia”. Ha svolto anche questo compito mentre era famoso nel mondo, ma lo ha fatto per devozione, perché Sciascia lo aveva ispirato, forse, in alcune sue riflessioni storiche, per opere quali “Il filo di fumo”, “La strage dimenticata”, “Le pecore e il pastore”. L’ha fatto per la sua Sicilia e per Racalmuto e da Racalmuto lo ringrazio e lo saluto con affetto.
Angelo Lauricella, già senatore, presidente dell’Anpi di Agrigento
Pubblicato venerdì 26 Luglio 2019
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