“Ci fu chi disse no” è una rete d’iniziative tessuta dall’Anpi nazionale per ricordare gli accademici che novant’anni fa rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo, rendendo loro omaggio nei luoghi in cui ciascuno di loro era in cattedra. Coincidenza vuole che quest’anniversario, occasione per l’Università di Pavia di celebrare il coraggioso «I would prefer not to» opposto al regime da un suo professore, Giorgio Errera, incroci il centenario di un altro fatto profondamente radicato nella storia e nella memoria cittadina: l’omicidio di Ferruccio Ghinaglia, assassinato il 21 aprile 1921 nel Borgo Ticino da un gruppo di squadristi. Per commemorare i due avvenimenti, l’ateneo ha meritoriamente patrocinato altrettanti convegni: quello su Ferruccio Ghinaglia e il suo tempo si è tenuto lo scorso 21 aprile nel Collegio Ghislieri, di cui il martire antifascista era stato alunno.
I due anniversari sono per più versi complementari. Anzitutto, la successione cronologica degli eventi onorati restituisce l’esatta misura del divenire dittatura del fascismo: nel volgere del decennio che separa l’uccisione di Ghinaglia dal rifiuto di Errera, il movimento il cui braccio paramilitare aveva eliminato impunemente, tra gli altri, anche il giovane pavese (il processo per l’omicidio di Ghinaglia, celebrato in un clima d’intimidazione verso giudici e testimoni, si concluse con l’assoluzione degli imputati) diviene il partito-regime che si fa giurare fedeltà dai docenti universitari.
Da molti punti di vista, Giorgio Errera e Ferruccio Ghinaglia sono le due fronti del Giano. Il procedimento retorico della comparatio personarum, applicato alle loro biografie, rivela due dimensioni esistenziali e politiche che nella storia dell’antifascismo italiano sono, per l’appunto, complementari. Quando fu ucciso, lo studente universitario e militante comunista non aveva ancora compiuto ventidue anni: era nato a Casalbuttano, in provincia di Cremona, il 29 settembre 1899. Il bellissimo ritratto che gli ha dedicato Elisa Signori nell’ultimo volume dell’Almum studium papiense, la storia dell’Università di Pavia diretta da Dario Mantovani, ha per titolo un tricolon che compendia esattamente la sua vita attiva e la sua sorte violenta: «studente medico, rivoluzionario, ucciso per mano fascista».
Dal canto suo, quando rifiutò di sottostare al giuramento di fedeltà al fascismo, Giorgio Errera aveva già una lunga e prestigiosa carriera alle spalle: nato a Venezia nel 1860, ordinario dal 1892, era a Pavia dal 1917, titolare del corso di chimica generale e incaricato di chimica organica.
Ghinaglia ed Errera potrebbero perciò essere l’antonomasia delle due tradizionali componenti della comunità accademica: comunità di cui un terzo incluso è il personale dipendente non docente, che ha avuto un ruolo di rilievo nella storia dell’antifascismo. Ma una simile rappresentazione sarebbe consolatoria, perché negli stessi anni la comunità accademica fu incarnata anche da personalità di segno opposto. Basti dire che gli squadristi imputati per l’omicidio di Ghinaglia erano (o avevano da poco smesso di essere) studenti dell’Ateneo pavese: riprova che l’università riflette i conflitti della società di cui è parte, e ne è parimenti lacerata.
Se poi ci volgiamo a considerare le ragioni che animarono le scelte antifasciste del “vecchio professore” e del “giovane studente” nuovamente risaltano, come la fotografia e il suo negativo, le une nel rovescio delle altre. Esponente tra i più attivi del Partito socialista pavese, dopo il Congresso di Livorno, Ghinaglia contribuì a fondare la federazione cittadina del Partito comunista d’Italia. Il suo antifascismo era dunque proteso all’esterno, nella dimensione collettiva, politica e organizzativa. Egli leggeva il fascismo nella sua dimensione classista, cioè come un movimento essenzialmente antiproletario. E aveva precocemente intuito, si potrebbe oggi affermare echeggiando Claudio Pavone, che la Liberazione sarebbe stata anche una guerra di classe.
Per il prof. Errera, invece, non giurare fu una scelta individuale. Il che non vuol dire impolitica: la fede liberale era anzi da lui rivendicata apertamente. Ne è una testimonianza la lettera privata in cui, nel 1923, il chimico veneziano motivò a Giovanni Gentile il rifiuto di assumere il rettorato dell’ateneo di Pavia, che il suo antico collega all’Università di Palermo, nel frattempo divenuto ministro del governo di Mussolini, gli aveva offerto. La fede liberale lo accomunava dunque a Benedetto Croce, il cui “antimanifesto” Errera sottoscrisse nel maggio 1925. L’appello di Croce era peraltro riuscito a chiamare a raccolta un fronte ampio d’intellettuali, alcuni dei quali anche molto lontani dall’idea di liberalismo espressa dal suo manifesto. Tra i firmatari pavesi figurano, ad esempio, gli antichisti Siro Solazzi e Plinio Fraccaro (il futuro rettore della Liberazione), entrambi socialisti riformisti e a diverso titolo impegnati nel partito di Turati.
Le biografie di Ferruccio Ghinaglia e di Giorgio Errera spiegano in parte anche i percorsi delle rispettive memorie. Quella di Ghinaglia, forse più visibile nel tessuto urbano, coinvolge sia l’Università sia la città: un busto e una bella iscrizione lo ricordano nel piazzale che porta il suo nome, e in cui fu ucciso. Onorato nel 1946 da Plinio Fraccaro con laurea postuma, il suo ricordo è stato custodito nei decenni anche dalla Pavia operaia e popolare, da generazioni di antifascisti e di militanti comunisti. Frequenti sono le iniziative editoriali e politiche che lo riguardano. Tra le più recenti, segnaliamo le due riedizioni dei suoi scritti apparse nel 2018 e nel 2020 per volontà l’una di SinistraClasseRivoluzione e l’altra dell’Anpi di Pavia (a cura di Annalisa Alessio e di chi scrive); e ancora, sempre per volontà del Gruppo di base SCR pavese, l’apertura nel 2021 di un circolo politico-culturale a lui intitolato, con sede in quel Borgo Ticino dove svolse tanta parte della sua attività politica, e dove proprio per questo fu assassinato.
La memoria di Errera è stata coltivata soprattutto dal corpo accademico. Portano il suo nome la sezione universitaria dell’Anpi e un circolo cui aderiscono studiose e studiosi dell’ateneo. Quest’ultimo, significativamente, mette al centro delle attività la riflessione sui temi della libertà di ricerca e dell’autonomia, vale a dire i valori non negoziabili che spinsero il professore a rifiutare il rettorato e a opporsi al giuramento di fedeltà al fascismo.
Come il 21 e il 25 aprile di ogni anno i pavesi immancabilmente celebrano il ricordo di Ferruccio Ghinaglia, deponendo un mazzo di fiori freschi ai piedi del suo monumento, così il Circolo universitario Giorgio Errera continua a offrire il suo contributo al dibattito sulla politica dell’università e della ricerca: segno che la memoria di queste due figure antifasciste, così legate alla città di Pavia, è ancora in grado di mobilitare energie e d’indicare obiettivi a cui tendere.
Ma quali risultati si possono raggiungere con lo studio del fascismo e dell’antifascismo nella prospettiva della storia dell’università suggerita dal convegno? Una possibile risposta è che assumere un punto di vista “settoriale” aiuta a mettere meglio a fuoco taluni aspetti strutturali di un fenomeno storico. In questo caso, l’aspetto strutturale è il ruolo delle istituzioni culturali nella costruzione dello Stato fascista e nell’opposizione a esso. Tra le ragioni che spiegano il tentativo di fascistizzazione dell’università, due sono quasi evidenti. La prima è che l’università era un serbatoio cui attingere per cooptare i quadri della classe dirigente, della quale il regime aveva bisogno per garantirsi l’inquadramento ideologico. La seconda, più a monte, è che il progetto totalitario mussoliniano (la «via italiana al totalitarismo» è il titolo di un libro dello storico Emilio Gentile) necessitava di un’ideologia, e dunque di ideologi che la elaborassero: perciò anche la ricerca universitaria andava orientata in tal senso. Per darne un esempio, farò brevemente riferimento all’ambito degli studi sul mondo antico, che è il più vicino alla mia formazione.
Anche uno storico del mondo antico normalmente poco incline alle «considerazioni attuali» come Arnaldo Momigliano riconosceva, retrospettivamente, che il ventennio fascista e il decennio nazista avevano impresso un parziale cambio di rotta a quegli studi. E a mostrare in che modo la macchina della propaganda fascista abbia manipolato il «mito di Roma» sono libri importanti come quelli di Luciano Canfora, di Andrea Giardina e André Vauchéz. L’Italia fascista, nel «materiale mitologico» prodotto da quella macchina, era la «terza Roma», sintesi della Roma imperiale e della Roma cristiana. Non solo. Secondo le intenzioni degli ideologi fascisti, la continuità della «terza Roma» con le due precedenti doveva essere anche linguistica: ossia, il latino doveva tornare a essere una lingua d’uso. A questo preciso scopo fu fondata in seno all’Istituto di studi romani la rivista “scientifica” Studio e uso del latino. Nel secondo numero, del 1940, si possono leggere frasi come queste:
il latino è antimarxista; è difficile che un uomo vaccinato da un’ode di Orazio possa essere vittima di un’epidemia marxista […]. Come può il marxismo non combattere il latino che è erede di un’immensa tradizione umana, un suscitatore e un difensore del più alto lavoro umano?
La citazione tratta dal libro Ideologie del classicismo di Luciano Canfora mi sembra paradigmatica: da un lato vi si legge lo smaccato uso politico dell’istruzione classica, non certo una novità del ventennio, ma che in questa tirata raggiunge un parossismo involontariamente comico. Dall’altro, ed è forse il punto di maggiore interesse, il marxismo vi è rappresentato in modo caricaturale, vuoi perché così imponeva la propaganda, vuoi perché chi scrisse l’invettiva (il pedagogista Nazzareno Padellaro, docente della “Scuola di mistica fascista”) ne aveva una conoscenza superficiale. Che ne si condividano o meno gli assunti e il metodo, infatti, non si può dire che il pensiero marxiano e la tradizione marxista fossero disinteressati al mondo antico. Una nota traccia di quest’interesse è la pagina dello Ursprung der Familie, des Privateigenthums und des Staats in cui Engels, commentando un passo celeberrimo di Livio (XXXIX, 19), critica la tesi di Mommsen sulla struttura endogamica della familia gentilizia. Lo stesso Marx, che da studente alla facoltà giuridica di Berlino si era cimentato nella traduzione dei primi libri del Digesto di Giustiniano, amava punteggiare i suoi scritti con riferimenti eruditi alla letteratura classica, di cui aveva tentato anche un’analisi storico-materialista: è questo uno dei temi della Einführung, scritta nel 1857 ma edita solo nel 1903, al suo primo libro Zur Kritik der politischen ökonomie, quello dato alle stampe nel 1859.
Il tema del rapporto tra gli intellettuali e il potere ha direttamente a che fare con il nostro modo di intendere la democrazia. L’auspicio è dunque che le iniziative di questo novantennale siano l’occasione per tornare a interrogarci e per svolgere in proposito un’attività di divulgazione che interessi il più ampio pubblico. Diversamente da com’eravamo abituati a fare, tuttavia, dovremo assolvere al compito senza poter ascoltare le voci autorevoli e amiche di due grandi studiosi che ci hanno entrambi lasciato il 7 ottobre scorso: Enzo Collotti, storico della Resistenza e dell’età contemporanea, e Salvatore Veca, interprete originale del marxismo e poi teorico, vorrei dire ideologo (ma questa volta nel senso più nobile) della democrazia progressiva. Sappiamo già che sentiremo molto l’assenza della loro guida.
Luca Casarotti, Comitato provinciale Anpi Pavia e presidente della sezione Anpi Pavia “Onorina Pesce Brambilla”
Il testo è tratto dall’orazione “Lo studio indocile: l’antifascismo nella comunità accademica tra storia e presente” tenuta il 16 ottobre scorso nell’Aula magna dell’Università di Pavia nell’ambito dell’iniziativa “L’Università in camicia nera. Il caso pavese e il rifiuto di Giorgio Errera al giuramento del 1931”
Pubblicato mercoledì 27 Ottobre 2021
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