Nei giorni scorsi a Torino Said, un ragazzo di 27 anni, cittadino italiano, nato in Marocco, ha sgozzato Stefano, 32 anni, mentre passeggiava per strada. Said, che non aveva mia visto prima Stefano, ha dichiarato: “non sopportavo quell’aria felice. Volevo togliergli tutte le sue promesse, la sua famiglia, i suoi parenti”. Said si era separato, aveva perso il lavoro e la casa, da gennaio dormiva fra i senzatetto, mangiava alle mense dei poveri. Le ultime di cronaca ci raccontano che doveva essere in galera ma che per errore era stato lasciato in libertà. Altre notizie ipotizzano che ci sia stato una scambio di persona e che questo Said abbia scambiato Stefano per un altro. Ma rimaniamo ai fatti certi e alle dichiarazioni.
Si tratta di un caso limite di cronaca nera, di un crimine efferato; eppure val la pena riflettere su quanto di emblematico nasconde. “Volevo togliergli tutte le sue promesse”, “non sopportavo quell’aria felice”. Nella sua sconvolgente drammaticità, l’episodio può essere considerato un paradigma dell’infelicità sociale del Paese e, assieme, di quell’impasto di odio, rancore, risentimento che, divenuto malattia, si manifesta nella forma di una ferocia senza limiti; ma può essere considerato anche la metafora delle contraddizioni irrisolte in cui versa la società italiana: l’assassino è cittadino italiano, ma nato in Marocco; non è un irregolare ma è un delinquente; è un disperato, figlio di un tempo disperato, in uno scenario disperato. Disperato vuol dire privo di speranza; la speranza è l’aspettativa di un cambiamento futuro in bene. Se il traumatico evento può essere assunto come paradigma e metafora, il tema è quello della felicità e del suo contrario: l’infelicità.
Da qualche decennio si è concluso un ciclo di civiltà imperniato sul cosiddetto edonismo e supportato dalla religione delle merci, tutt’ora imperante, con il mercato come regolatore ultimo della vita della società; tant’è vero che dal parlare di economia di mercato si era progressivamente passati a celebrare la società di mercato; era sembrato che la caduta del muro di Berlino avesse confermato e benedetto questo stile di vita e questo sistema di valori. Da allora si iniziò a parlare, per l’intera Europa, di trionfo della democrazia liberale, mentre scompariva persino dal linguaggio la qualificazione che aveva caratterizzato i regimi della grande parte del continente, e cioè la democrazia sociale. In quel tempo l’ideologia dominante (che peraltro si reggeva sul paradossale assunto della scomparsa delle ideologie) proponeva un modello sociale in cui la felicità consisteva essenzialmente nel soddisfacimento del consumo di ciò che si desiderava (o che si faceva desiderare tramite il complesso meccanismo mediatico della costruzione artificiale di bisogni), un fenomeno che qualcuno ha chiamato “bulimia delle merci”. Ma in realtà in quel ciclo, caratterizzato dall’assolutizzazione della “competizione” essenzialmente come regola di vita, ha trionfato l’infelicità sociale, tant’è che si è parlato di “edonismo infelice”. E questo perché al desiderio indotto del possesso delle merci non corrispondeva necessariamente la percezione appagante di un senso della vita, tant’è che, dal nome di un professore di economia in una università americana, si formulò il cosiddetto “paradosso di Easterlin”, in base al quale quando aumenta il reddito, e quindi il benessere economico, la felicità aumenta fino a un certo punto, ma poi comincia a diminuire. Insomma, un modo molto tecnico per rinverdire l’antico proverbio per cui il denaro non dà la felicità.
Quella lunga fase, che in Italia ha vissuto il suo apogeo negli anni 80, la “Milano da bere”, è poi declinata, per crollare pesantemente negli anni successivi alla grande crisi avviatasi nel 2007 con la vicenda dei mutui Subprime: per ciò che riguarda il nostro Paese in un breve periodo di tempo è precipitata la situazione economico sociale dei ceti medi e dei ceti popolari, con progressivi effetti di ordine psicologico, etico, di costume. Il Censis, anno per anno, aveva avvertito della tragedia in corso parlando di crescente “solitudine sociale”, di “rancore sociale” e così via. Esplodeva l’infelicità sociale, connessa alla cancellazione della speranza. Sembrava cioè sempre più difficile, se non impossibile, risalire la china dopo la caduta (per reddito, lavoro, posizione sociale). Cresceva la sfiducia nelle istituzioni, in ultima analisi nello Stato, quello Stato che avrebbe dovuto garantire vita e beni dei cittadini e che in cambio riceveva da loro obbedienza e rispetto, secondo una delle teorie più antiche sulla natura dello Stato, quella di Thomas Hobbes. Lo Stato – asseriva il filosofo – nasce quando gli uomini decidono di costituirlo in alternativa alla legge di natura, e cioè alla legge del più forte per cui, scriveva, “homo homini lupus”. Dunque ciascuno cedeva un po’ della sua sovranità ad un ente comune, quindi depositario di tutta la sovranità, per avere in cambio sicurezza e – si direbbe oggi – la possibilità di un determinato benessere.
Dal 2011 fino allo scorso anno gli scossoni causati da questo gigantesco sommovimento della società italiana sono stati significativi ma – per così dire – congiunturali. L’esito delle elezioni politiche del 2018 ha invece rappresentato il terremoto che ha del tutto cambiato l’assetto del governo e delle classi dirigenti. A questo cambiamento politico e istituzionale ha corrisposto, in un breve periodo di tempo ed in base ad una strettissima interrelazione, un cambiamento antropologico. Per dirla con Marco Revelli: “Il peccato originale di Salvini è di aver fatto da megafono a questo fondo torbido di cattiveria e rancore di cui le persone a lungo si sono vergognate”. Dopo il ciclo dell’edonismo, dove si è cercata velleitariamente la felicità nel possesso e nel consumo delle merci cercando la felicità all’esterno di se stessi e determinando perciò un’eterogenesi dei fini (l’edonismo infelice), e dopo il ciclo della perdita della speranza di felicità come possibilità del cambiamento in meglio della propria condizione sociale, si è avviato il ciclo della ricerca della felicità in idoli irrazionali, blasfemi e cadaverici: colpire l’altro, perché l’altro è il nemico, passando dalla negazione all’altro (di diritti, possibilità, dignità di essere umano) alla negazione dell’altro, come nel caso dell’omicidio di Torino: se io non sono felice, tu non puoi e non devi essere felice, e se lo sei io ti cancello, nego la tua vita: non solo la tua vita politica, cioè il tuo essere sociale nel mondo, ma la tua vita biologica, cioè la tua esistenza. Gli idoli irrazionali, blasfemi e cadaverici si vedono in controluce nel nazionalismo, nel fascismo, nel razzismo, nel desiderio dell’“uomo forte”. Ma mentre nel fascismo e nel nazismo storico questa concezione del mondo si traduceva in un – per quanto aberrante – pensiero politico più o meno strutturato che si era fatto Stato e regime (dalle leggi razziali all’Olocausto), nel nazionalismo populista che oggi governa si manifesta (per ora) in una demolizione nelle coscienze delle leggi e dei codici non scritti che sono a fondamento della coesione sociale. Si rivela perciò la parte oscura dell’animo di ciascuno di noi, liberata dai vincoli morali che ci fanno umanità civile, e tale parte oscura emerge dai comportamenti molecolari: le violenze e gli omicidi, a sfondo razzista ma non solo, sono stati sdoganati psicologicamente. Certo, sono comportamenti di una frazione infinitesimale della popolazione, ma rivelano lo spirito del tempo e si manifestano nella quotidianità. Tale quotidianità riguarda tutti, cittadini e non cittadini, stanziali e migranti, giovani e anziani. E si incarna in una crescita della violenza come reazione egotica e paranoica alla percezione di infelicità, in un desiderio di potere e di possesso verso le persone. Se negli anni 80 la merce, la cosa posseduta veniva vissuta come portatrice di un’anima o di una personalità (l’automobile, il salotto, il rasoio, il cibo, il vino, e così via), negli anni che viviamo si vuol possedere una persona come un oggetto, una merce, una cosa. Valgano per tutti gli esempi di femminicidio, spesso effettuato dietro le rassicuranti mura della “famiglia tradizionale”.
Da ciò il paradosso di chi, come a Verona, fa l’apologia della vita del feto ma non vede la morte dei bambini nel grande cimitero del Mediterraneo. Di chi fa della “famiglia tradizionale” un’icona dello stato di natura, ma non vede i cambiamenti della natura della famiglia nella storia dell’umanità e tace sulle proprie scelte, per cui i corifei di tale famiglia sono spesso protagonisti di tradimenti, divorzi e famiglie allargate. Di chi professa dogmaticamente una fede evangelica e pratica una misericordia che si ferma sui confini di quello che definisce “popolo” e del suo Paese, una misericordia pelosa che si trasforma in una cinica e cieca ferocia verso l’altro, negandogli – gratta gratta – la dignità di esseri umani: parafrasando George Orwell, tutti i cittadini sono uguali, ma i miei cittadini sono più uguali degli altri.
Il saldo di un anno di nazionalismo più populismo (leggi etnopopulismo) al governo, sugli schermi televisivi e sui social network è nella ricaduta sulla nostra quotidiana convivenza, oramai ampiamente compromessa: è stato aperto il vaso di Pandora dell’imbarbarimento, della deregolamentazione delle leggi morali che ciascuno introietta come condizione della coesione sociale e come tributo al progresso della civiltà. Ed è la morte (anzi l’assassinio) della speranza di felicità; può esserci un malinteso senso di rivincita, ma non c’è alcuna felicità nella distruzione dell’altro, nella negazione di qualsiasi sua possibile futura felicità; l’infelicità altrui non fa la mia felicità. Anzi, la impedisce. Se la felicità è riempire l’orizzonte di senso della propria vita, essa può realizzarsi se si promuovono i rapporti interumani, le relazioni sociali di ciascuna persona. E ciò è possibile a partire da una valorizzazione della vita, anzi, delle vite. Il ben-essere si misura prevalentemente su fattori non quantitativi “come la sicurezza, la stabilità, la piena occupazione, un servizio sanitario efficiente, sereni rapporti personali”, scrive Guglielmo Zucconi. I beni che la condizionano – aggiunge – sono quelli relazionali e non quelli di consumo.
Quando si parla di “forze democratiche “si intende, in generale, quelle forze (partiti, sindacati, associazioni, “formazioni sociali”) che hanno a cuore la ricerca della felicità dei loro rappresentati o dei loro soci. Sta a queste forze, quindi, intercettare – nel profondo nero della situazione attuale e nella trasformazione di parte importante degli italiani in un popolo triste e rancoroso – la domanda di nuova felicità che emerge nonostante tutto, come una rivendicazione o addirittura una supplica. Se è vero che viviamo nel tempo in cui ci è negata la ricerca della felicità, occorre ripristinare tale possibilità. E cos’è la ricerca, se non la speranza, cioè l’aspettativa di un cambiamento futuro positivo, collegata alla prassi, cioè l’operare in concreto? E non è forse vero che proprio nella ricerca della felicità si contiene un grumo di felicità, perché tale ricerca ci riempie di senso? E non è di conseguenza vero che la ricerca della felicità ci dà la felicità della ricerca? In altre parole: la speranza, più l’azione, ci restituiscono la misura, il senso e la dignità della nostra vita. E delle vite. Cioè dell’essere umano fra gli esseri umani. La battaglia per la ricerca della felicità è una bandiera di umanità che le forze democratiche possono sventolare contro i drappi funerei della ferocia ancestrale che si manifesta dietro la retorica del nazionalismo razzistoide. È una battaglia della ragione contro l’irrazionalismo, della luce contro le ombre che si celano spesso dentro ciascuno di noi e che ci fanno cattivi. Ed ancor più infelici.
Pubblicato martedì 23 Aprile 2019
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