Si tratta di un caso limite di cronaca nera, di un crimine efferato; eppure val la pena riflettere su quanto di emblematico nasconde. “Volevo togliergli tutte le sue promesse”, “non sopportavo quell’aria felice”. Nella sua sconvolgente drammaticità, l’episodio può essere considerato un paradigma dell’infelicità sociale del Paese e, assieme, di quell’impasto di odio, rancore, risentimento che, divenuto malattia, si manifesta nella forma di una ferocia senza limiti; ma può essere considerato anche la metafora delle contraddizioni irrisolte in cui versa la società italiana: l’assassino è cittadino italiano, ma nato in Marocco; non è un irregolare ma è un delinquente; è un disperato, figlio di un tempo disperato, in uno scenario disperato. Disperato vuol dire privo di speranza; la speranza è l’aspettativa di un cambiamento futuro in bene. Se il traumatico evento può essere assunto come paradigma e metafora, il tema è quello della felicità e del suo contrario: l’infelicità.
Da qualche decennio si è concluso un ciclo di civiltà imperniato sul cosiddetto edonismo e supportato dalla religione delle merci, tutt’ora imperante, con il mercato come regolatore ultimo della vita della società; tant’è vero che dal parlare di economia di mercato si era progressivamente passati a celebrare la società di mercato; era sembrato che la caduta del muro di Berlino avesse confermato e benedetto questo stile di vita e questo sistema di valori. Da allora si iniziò a parlare, per l’intera Europa, di trionfo della democrazia liberale, mentre scompariva persino dal linguaggio la qualificazione che aveva caratterizzato i regimi della grande parte del continente, e cioè la democrazia sociale. In quel tempo l’ideologia dominante (che peraltro si reggeva sul paradossale assunto della scomparsa delle ideologie) proponeva un modello sociale in cui la felicità consisteva essenzialmente nel soddisfacimento del consumo di ciò che si desiderava (o che si faceva desiderare tramite il complesso meccanismo mediatico della costruzione artificiale di bisogni), un fenomeno che qualcuno ha chiamato “bulimia delle merci”. Ma in realtà in quel ciclo, caratterizzato dall’assolutizzazione della “competizione” essenzialmente come regola di vita, ha trionfato l’infelicità sociale, tant’è che si è parlato di “edonismo infelice”. E questo perché al desiderio indotto del possesso delle merci non corrispondeva necessariamente la percezione appagante di un senso della vita, tant’è che, dal nome di un professore di economia in una università americana, si formulò il cosiddetto “paradosso di Easterlin”, in base al quale quando aumenta il reddito, e quindi il benessere economico, la felicità aumenta fino a un certo punto, ma poi comincia a diminuire. Insomma, un modo molto tecnico per rinverdire l’antico proverbio per cui il denaro non dà la felicità.
Da ciò il paradosso di chi, come a Verona, fa l’apologia della vita del feto ma non vede la morte dei bambini nel grande cimitero del Mediterraneo. Di chi fa della “famiglia tradizionale” un’icona dello stato di natura, ma non vede i cambiamenti della natura della famiglia nella storia dell’umanità e tace sulle proprie scelte, per cui i corifei di tale famiglia sono spesso protagonisti di tradimenti, divorzi e famiglie allargate. Di chi professa dogmaticamente una fede evangelica e pratica una misericordia che si ferma sui confini di quello che definisce “popolo” e del suo Paese, una misericordia pelosa che si trasforma in una cinica e cieca ferocia verso l’altro, negandogli – gratta gratta – la dignità di esseri umani: parafrasando George Orwell, tutti i cittadini sono uguali, ma i miei cittadini sono più uguali degli altri.
Il saldo di un anno di nazionalismo più populismo (leggi etnopopulismo) al governo, sugli schermi televisivi e sui social network è nella ricaduta sulla nostra quotidiana convivenza, oramai ampiamente compromessa: è stato aperto il vaso di Pandora dell’imbarbarimento, della deregolamentazione delle leggi morali che ciascuno introietta come condizione della coesione sociale e come tributo al progresso della civiltà. Ed è la morte (anzi l’assassinio) della speranza di felicità; può esserci un malinteso senso di rivincita, ma non c’è alcuna felicità nella distruzione dell’altro, nella negazione di qualsiasi sua possibile futura felicità; l’infelicità altrui non fa la mia felicità. Anzi, la impedisce. Se la felicità è riempire l’orizzonte di senso della propria vita, essa può realizzarsi se si promuovono i rapporti interumani, le relazioni sociali di ciascuna persona. E ciò è possibile a partire da una valorizzazione della vita, anzi, delle vite. Il ben-essere si misura prevalentemente su fattori non quantitativi “come la sicurezza, la stabilità, la piena occupazione, un servizio sanitario efficiente, sereni rapporti personali”, scrive Guglielmo Zucconi. I beni che la condizionano – aggiunge – sono quelli relazionali e non quelli di consumo.
Quando si parla di “forze democratiche “si intende, in generale, quelle forze (partiti, sindacati, associazioni, “formazioni sociali”) che hanno a cuore la ricerca della felicità dei loro rappresentati o dei loro soci. Sta a queste forze, quindi, intercettare – nel profondo nero della situazione attuale e nella trasformazione di parte importante degli italiani in un popolo triste e rancoroso – la domanda di nuova felicità che emerge nonostante tutto, come una rivendicazione o addirittura una supplica. Se è vero che viviamo nel tempo in cui ci è negata la ricerca della felicità, occorre ripristinare tale possibilità. E cos’è la ricerca, se non la speranza, cioè l’aspettativa di un cambiamento futuro positivo, collegata alla prassi, cioè l’operare in concreto? E non è forse vero che proprio nella ricerca della felicità si contiene un grumo di felicità, perché tale ricerca ci riempie di senso? E non è di conseguenza vero che la ricerca della felicità ci dà la felicità della ricerca? In altre parole: la speranza, più l’azione, ci restituiscono la misura, il senso e la dignità della nostra vita. E delle vite. Cioè dell’essere umano fra gli esseri umani. La battaglia per la ricerca della felicità è una bandiera di umanità che le forze democratiche possono sventolare contro i drappi funerei della ferocia ancestrale che si manifesta dietro la retorica del nazionalismo razzistoide. È una battaglia della ragione contro l’irrazionalismo, della luce contro le ombre che si celano spesso dentro ciascuno di noi e che ci fanno cattivi. Ed ancor più infelici.
Pubblicato martedì 23 Aprile 2019
Stampato il 28/05/2023 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/cittadinanza-attiva/la-ricerca-della-felicita-e-il-nostro-tempo/