Come è nata la sua dichiarazione del 14 febbraio, quando ha parlato di “indegna gazzarra da parte di elementi di destra e di estrema destra che prende a spunto le celebrazioni del giorno del ricordo”?
È già da tempo che la data è utilizzata dalla destra per scomposte manifestazioni di nazionalismo, prive di qualsiasi riferimento alla realtà storica dei fatti. Quest’anno, mi pare, tali manifestazioni si sono intensificate. Vorrei qui ricordare, fra le altre, le minacce squadriste nei confronti dello storico Eric Gobetti mosse dall’organizzazione giovanile “Aliud-Destra identitaria”, che aveva manifestato l’intenzione di impedirgli di tenere – il 5 febbraio 2020 – una conferenza nei locali della Circoscrizione 3 di Torino; la decisione dell’assessorato all’istruzione della Regione Piemonte di distribuire nelle scuole il fumetto “Foiba rossa“, edito della casa editrice di destra Ferrogallico collegata alla più nota Altaforte edizioni (quella stessa casa editrice estromessa dal Salone del libro di Torino l’anno scorso perché di stampo neofascista), pieno di errori storiografici (per un’analisi del fumetto rimando all’articolo di Federico Tenca Montini pubblicato in “novecento.org”; la proposta ai sindaci di Trieste e Udine – avanzata rispettivamente da Fratelli d’Italia e da Stefano Salmè, segretario politico di ‘Io Amo Udine”, partner politico di “Fiamma nazionale” di estrema destra – di mettere pietre di inciampo in memoria di persone scomparse nelle foibe. Gli esempi si potrebbero moltiplicare.
La circostanza specifica che ha provocato il mio intervento è stata la dichiarazione del 13 febbraio di Giovanni Donzelli – deputato eletto nelle liste di Fratelli d’Italia, partito di cui è responsabile nazionale per l’organizzazione – contro la Regione Toscana, colpevole di affidare le politiche della memoria sulle foibe e l’esodo dei giuliani, istriani, fiumani e dalmati all’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Grosseto, che già da prima dell’istituzione della Giornata del ricordo lavora seriamente su questi temi. Donzelli ha accusato l’Istituto di negazionismo, ed ha anche presentato un esposto in Procura.
Il problema è che si vuole imporre un pensiero unico, che corrisponda alla visione astorica e decontestualizzata della destra, e alle manifestazioni di nazionalismo acceso che questo tema alimenta. E chiunque prova a fare seria ricerca e divulgazione su questa pagina storica viene perciò stesso accusato di riduzionismo e negazionismo.
Al centro della sua dichiarazione c’è la denuncia del rifiuto, da parte di queste persone, di prendere in considerazione la politica di snazionalizzazione nei confronti degli sloveni e dei croati iniziata nel 1919 nelle zone del confine orientale attraverso il fenomeno del fascismo di confine. Possiamo aggiungere a questo gli effetti dell’invasione italiana della Jugoslavia dell’aprile del 1941 e della costituzione della Zona d’Operazioni dell’Alto Adriatico?
È evidente che la radicale snazionalizzazione delle minoranze slovene e croate in queste terre imposta dal regime fascista, e le politiche italiane molto dure di occupazione nelle zone di propria competenza hanno rappresentato una premessa dalla quale non si può prescindere. Peraltro le foibe si inquadrano in un violento processo di creazione dello Stato socialista, nel corso del quale venivano considerati “oggettivamente” nemici tutti coloro che vi si opponevano attivamente (non solo italiani, non solo fascisti o ex fascisti), ma anche appartenenti a classi sociali che erano incompatibili con i progetti di nazionalizzazione dell’economia (dai proprietari terrieri ai piccoli commercianti e artigiani), o chi svolgeva una funzione legata all’amministrazione statale italiana. Tuttavia raccontare solo questa parte della storia, imputando i crimini commessi esclusivamente al comunismo titoista, senza considerare l’altro aspetto, la politica italiana nel ventennio fascista, questa sì che è opera di negazionismo.
Lei dichiara di temere che gli attacchi mirino a delegittimare gli istituti della Resistenza e di conseguenza la ricerca storiografica. L’attacco che alla libertà di ricerca nasconde il pericolo di un attentato alle libertà costituzionali?
È evidente che gli Istituti storici della Resistenza si richiamano a valori costituzionali, che peraltro dovrebbero essere condivisi da tutti, ma posso affermare che ormai da molto tempo la ricerca storica che svolgono, sull’intero arco della contemporaneità, soprattutto italiana, è svincolata da pregiudizi ideologici, e risponde solo alle buone pratiche del “mestiere di storico”, con regole comunemente accettate dalla comunità scientifica.
Si tratta di Istituti che, oltre a fare ricerca, gestiscono importanti fondi archivistici, biblioteche, svolgono un’opera attenta di intervento nelle ricorrenze del calendario civile, sono attivi nelle scuole tramite i 42 insegnanti distaccati presso di essi dagli Uffici scolastici regionali, sulla base di una convenzione triennale firmata dall’Istituto Parri col Miur. Insomma, svolgono una funzione eminentemente pubblica, e la svolgono bene, con consapevolezza critica e onestà. È chiaro allora che minacciare tagli di fondi, o metterli in atto come hanno cominciato a fare amministrazioni di destra, alla rete degli Istituti disconosce l’utilità sociale della loro attività, e rappresenta un attacco alla libertà di ricerca garantita dalla Costituzione.
Ci provò già l’anno scorso la Regione Friuli Venezia Giulia: il 26 marzo 2019 il Consiglio regionale approvò una mozione (la n. 50) che impegnava la Giunta e l’assessore competente “a sospendere ogni contributo finanziario e di qualsiasi altra natura (es. patrocinio, concessione di sale) a beneficio di soggetti pubblici e privati che, direttamente o indirettamente, concorrano con qualunque mezzo o in qualunque modo a diffondere azioni volte a non accettare l’esistenza delle vicende quali le Foibe o l’Esodo ovvero a sminuirne la portata e a negarne la valenza politica”.
Nel testo si puntava l’indice contro “diversi convegni” organizzati “in alcune parti d’Italia, anche a cura dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia” che avrebbero avuto “il solo fine di mettere in discussione il dramma delle foibe”. Del pari si accusava l’Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’Età contemporanea del Friuli Venezia Giulia per aver elaborato e reso pubblico un “Vademecum del Giorno del Ricordo” (la cui seconda edizione è consultabile al sito https://www.irsml.eu/presentazioni/688-vademecum-per-il-giorno-del-ricordo-aggiornato) con la volontà di “diffondere una versione riduzionista della storia della pulizia etnica perpetrata dai partigiani titini”. La mozione non esitava a richiamare la legge del 16 giugno 2016 n. 115 che attribuisce “rilevanza penale alle affermazioni negazioniste della Shoah, dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, in particolare quando ‘si innesta’ su una comunicazione che già manifesti i tratti caratterizzanti del c.d. hatespeech (incitamento all’odio), ponendo in pericolo la pacifica convivenza sociale”.
La mozione si configurava come un pericoloso attacco frontale alla libertà di ricerca e alla libertà di parola, come un tentativo manifesto di imporre una “verità di Stato” (le foibe come “pulizia etnica”), tacitando, anche con la minaccia di eventuali sanzioni penali, chi sosteneva punti di vista diversi, magari più articolati e anche scientificamente più fondati.
I pesanti tagli che le amministrazioni di destra hanno cominciato ad operare (all’istituto di Asti il Comune ha tagliato il contributo del 50%) dimostrano che si vuole progressivamente ridurre la capacità di questa rete di operare nella ricerca storica, nella divulgazione, nella formazione didattica degli insegnanti.
Il tentativo di sostituire alla verità relativa e in continuo divenire della ricerca storica una presunta verità assoluta di Stato, in realtà frutto di una precisa scelta politica, spiega perché lei parla senza mezzi termini di “una deriva filofascista e antidemocratica”. È un pericolo remoto, oppure vi sono concrete possibilità di un avanzamento di questa deriva?
La deriva filofascista mi pare evidente: assistiamo tutti i giorni a dichiarazioni di apprezzamento della figura di Mussolini, di minimizzazione del carattere dittatoriale e totalitario (sia pure di un totalitarismo imperfetto) del regime fascista, di banalizzazione dei suoi crimini. Naturalmente è impossibile che “ritorni” il fascismo, ma si tratta di manifestazioni preoccupanti, perché diffondono una cultura politica di destra che sostiene una curvatura autoritaria della nostra democrazia, portata avanti da forze politiche ben rappresentate in Parlamento, e non solo da gruppuscoli di estrema destra. Come non collegare a questo clima l’intensificazione di manifestazioni di antisemitismo (si pensi agli attacchi contro la senatrice Liliana Segre, alle svastiche e scritte oltraggiose disegnate sui muri e perfino sulle porte di casa) e di razzismo nei confronti degli stranieri?
L’Anpi – come tutte le associazioni partigiane – non è un istituto di ricerca. Esprime quindi pareri e punti di vista alla luce dei punti di arrivo della ricerca storica. Come giudica l’attacco frontale, permanente e ripetuto all’Anpi da parte delle stesse personalità ed organizzazioni che attaccano gli istituti di ricerca storica?
Noto innanzitutto che spesso si confondono, non so quanto volutamente, le posizioni di Anpi e di Istituti della Resistenza. L’Anpi, come associazione politica, ha funzioni diverse da quelle di istituti di ricerca storica, interviene, giustamente e liberamente, nel dibattuto politico contemporaneo, ultimamente con una dichiarazione contro la riduzione del numero dei parlamentari, che personalmente condivido ma che non potrei mai sottoscrivere come presidente di un Istituto che si occupa soprattutto di ricerca. E tuttavia il fatto che Anpi e Istituti storici della Resistenza vengano spesso accomunati negli attacchi dimostra che entrambe le associazioni vengono concepite come ostacoli alla diffusione di distorsioni storiche, discorsi nazionalisti e razzisti.
Gli Istituti storici e l’Anpi, pur nella reciproca autonomia e competenza, hanno spesso collaborato su vari temi, ma soprattutto nella raccolta e uso delle testimonianze partigiane e nella didattica. Anche alla luce delle considerazioni fin qui svolte, pensa che sia opportuno rilanciare tali sinergie, in particolare fra Istituto Parri e Anpi?
Ricordo che l’importante “Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia” è stato un progetto presentato congiuntamente da Anpi (presidente Smuraglia) e Istituto Parri (presidente Onida) al Governo tedesco, finanziato sul Fondo per il futuro Italo-tedesco (2013-2015). Un esempio di fruttuosa collaborazione nel pieno rispetto dei ruoli reciproci: il peso politico dell’Anpi è stato fondamentale perché il progetto venisse inserito nell’elenco di quelli sottoposti all’approvazione da parte delle autorità tedesche, la cura scientifica è stata affidata all’Istituto, e come responsabile del progetto posso garantire che non c’è stata alcuna intromissione o condizionamento da parte dei dirigenti nazionali dell’Anpi.
Fra Istituto Nazionale Ferruccio Parri e Anpi, poi, è in essere una convenzione per promuovere iniziative comuni, siglata il 3 novembre 2014. Tuttavia è solo dal settembre del 2018 che le due associazioni hanno nominato i componenti del comitato paritetico previsto dall’accordo: un primo risultato di questa collaborazione è stato un interessante convegno internazionale sui Musei della Resistenza in Europa tenutosi alla Casa della memoria di Milano alla fine del 2018.
Sono esempi che dimostrano come, nel rispetto delle differenze e delle finalità specifiche di ciascuna associazione, la collaborazione, quando viene impostata su questi criteri, sia opportuna e produca fecondi risultati.
Pubblicato venerdì 6 Marzo 2020
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