A scanso di equivoci fissiamo un punto di partenza: la malattia degli ultimi anni (o decenni?) dell’Occidente e in particolare dell’UE è l’apologia del neoliberismo, la dichiarazione di illegittimità di qualsiasi altro punto di vista economico-sociale, il peggioramento in modo in molti casi traumatico di condizioni di vita di centinaia di milioni di persone dei Paesi occidentali e in particolare europei. Ed ecco il punto di partenza, facendo mie (persino) le parole di Ernesto Galli della Loggia: “La protesta nazionalista-identitaria (…) non è la medicina, bensì in qualche modo è essa stessa la malattia” (Corriere della sera, 9 gennaio 2019). Scrivo “persino” perché non sempre le posizioni del noto intellettuale sono condivisibili.

Perché la protesta nazionalista-identitaria è la continuazione della malattia “con altri mezzi”? Per vari motivi. Il primo: la pratica nazionalista-identitaria non mette mai in discussione il modello generale liberista, ma lo coniuga in modo diverso, con l’antica tecnica della polemica antiborghese (oggi contro le élites); il secondo: libera iniziativa senza alcun vincolo di carattere sociale, libero mercato e società di mercato, cioè i presupposti del liberismo, rimangono integri, sia pur declinati in chiave nazionalista e/o assistenzialista, con forti concessioni stataliste. Ciò che propone il sovranismo, infatti, non è il superamento del liberismo, ma della sua declinazione cosmopolita, affermandone invece il primato nazionale.

Pur essendo necessaria, questa definizione non è comunque sufficiente per analizzare il fenomeno nazional-populista. Esso infatti comprende diversi aspetti: odio per lo straniero e comunque per “l’altro”, rapporto diretto fra capo e popolo, uso (e abuso) dei social network per costruire tale rapporto diretto, semplificazione della complessità delle scelte politiche, dileggio nei confronti del sistema dei partiti, disprezzo verso le istituzioni democratiche, teorizzazione del superamento della coppia destra-sinistra, contrapposizione proprio Paese-resto del mondo (“Prima gli italiani”, “American first”, ecc.), tendenza alla compressione dei diritti civili ed in particolare dei diritti delle donne, compressione dei diritti delle minoranze.

Salvini e Trump

Tutto ciò è relativamente noto. Ma è opportuno sottolineare un altro aspetto caratteristico del nazional-populismo; tale fenomeno fa parte del bagaglio “ideologico” anche delle dittature di tipo fascistico occidentali novecentesche analizzate nella loro complessità con straordinaria acutezza in particolare verso la Germania dallo storico George Mosse, che ne definì il tratto specifico con le parole la nazionalizzazione delle masse: e cioè il tentativo di dare vita a uno stato di allerta permanente dell’opinione pubblica, cioè della maggioranza, proponendo permanentemente emergenze che non sono tali. Il paragone si ferma qui, perché nel caso del fascismo e del nazismo lo stato d’allerta ebbe una curvatura liturgica e tragica, mentre oggi si presenta in modo (ancora) parziale e grottesco. Questo è forse il meccanismo essenziale della costruzione del consenso e del suo costante accrescimento da parte di questa pratica politica, il cui obiettivo non è solo l’emarginazione di minoranze e opposizioni, ma anche l’irregimentazione della maggioranza. Va notato che “irregimentare” significa assoggettare a una disciplina rigorosa e rigida, se non autoritaria come, appunto, quella di un reggimento. Quali sono, nel caso italiano, le presunte emergenze? Quella degli immigrati, il cui flusso è da tempo largamente diminuito, e quella sull’ordine pubblico (legittima difesa), seppure i reati nel nostro Paese siano fortemente in calo. Ma sul tema immigrati e ordine pubblico – emergenze immaginarie – si incontra un senso di allarme sociale coltivato e diffuso che si manifesta, per esempio, con l’aumento del numero di porto d’armi. Per rappresentare macchiettisticamente tale operazione politica, basti pensare al travestitismo del Ministro dell’Interno, oggi vestito da poliziotto, ieri da vigile del fuoco e così via. Tali presunte emergenze trovano credito popolare in Europa per un sentimento comune molto semplice, causato da un insieme di fattori: la paura. La libertà dalla paura diventa perciò elemento centrale della lotta democratica.

Lo storico George Mosse

La “copertura etica” della politica della paura è una presunta centralità della persona: dare un lavoro ai giovani italiani, salvaguardare le donne italiane, garantire i posti di lavori italiani, e così via. È esattamente la negazione di ogni centralità della persona, perché tale centralità o è un valore universale (cioè vale indipendentemente dalla nazionalità) o semplicemente non è; ed infatti non è, perché nella realtà, al di là di ogni querulo chiacchiericcio, di ogni presunto culto nazionale, la situazione economico sociale degli italiani continua a peggiorare in mancanza di qualsiasi piano di sviluppo della produzione materiale e immateriale e di qualsiasi orizzonte di definizione del ruolo del nostro Paese nell’attuale divisione internazionale del lavoro, a maggior ragione nelle sue ineludibili sinergie con l’Europa di cui l’Italia è parte essenziale ed ineliminabile. Staremo naturalmente a vedere cosa avverrà col reddito di cittadinanza. Ma finora i suoi effetti taumaturgici sulla crescita dei posti di lavoro sono una pura supposizione, mentre è ben più attendibile e drammaticamente probabile l’imminanza di una fase di recessione.

In questo contesto obiettivamente grave si è svolto a metà dicembre il Forum di associazioni e organizzazioni antifasciste europee promosso a Roma dall’Anpi nazionale. Nessuna ricetta miracolistica, ma l’incipit dell’indicazione di un possibile percorso comune, a cominciare da due principi condivisi: la repulsione ideale e pratica nei confronti delle politiche discriminatorie dei nazional-populisti (o sovranisti che dir si voglia); la centralità della persona umana e della sua dignità. In sintesi e per esempio sono da citare le parole di Manuela Gretkovska, fondatrice del Women’s Party polacco: “Le donne in Polonia sono come le sirene, per metà animali. E dunque di proprietà dello Stato e degli uomini”.

Da questi principi condivisi si è partiti raccontando le esperienze nazionali nell’ambito di una visione europea. E si è riflettuto sul rischio grave, alle prossime elezioni europee, di una consistente avanzata, se non di una vittoria, delle forze populiste. La forma politica del liberismo non è irrilevante; anzi, è decisiva. Ove assuma una veste autoritaria e antidemocratica, ove neghi diritti acquisiti, ove perseguiti le minoranze, ove evochi il nazionalismo sfrenato, tale forma politica va contrastata in ogni modo. Ne consegue la difesa ad oltranza della democrazia politica e l’espansione della democrazia sociale come premesse per un’UE che cambi rotta abbandonando austerità e monetarismo e acquisendo come valore centrale quello del lavoro.

Se tutto ciò è vero, ne deriva che è comune interesse di ogni associazione e organizzazione democratica il sostegno alle forze politiche che in modo inequivocabile comprendano nel loro programma la scelta antifascista, antirazzista, antinazionalista. È questo il senso – fra l’altro – del documento sottoscritto da quasi tutti i rappresentanti delle associazioni presenti a Roma (clicca per il testo integrale).

Qui si pone il primo e il più grande problema, e cioè la gravissima difficoltà in cui versa gran parte dei partiti democratici attualmente o potenzialmente antifascisti presenti in Europa. Ogni Paese fa scuola a sé, naturalmente, essendo differenti le storie e le situazioni politiche, ma non sfugge a nessuno la crisi generale di gran parte dei partiti di ispirazione socialista e di ispirazione “popolare”, compresi quelli moderati e conservatori. Uno dei casi più gravi è senza dubbio quello italiano, dove – a fronte del governo di due forze politiche, l’una populista e l’altra nazional-populista, governo peraltro sostenuto da un largo consenso – non si percepisce un’opposizione politica che sia all’altezza della sfida. Da ciò un paradosso di difficile soluzione ed anche di difficile lettura, dato dal fatto che in molti Paesi (a cominciare dall’Italia) l’avanguardia della lotta per la difesa e l’estensione della democrazia è prevalentemente sociale, in carenza di un’avanguardia politica di massa. Se si analizzano le grandi manifestazioni di dissenso o di difesa dei diritti avvenute in Italia dal luglio 2018 ad oggi (iniziando dalle iniziative delle cosiddette magliette rosse) si prende atto che i promotori di tali movimenti sono quasi sempre organizzazioni sociali di diversa natura, alleate in una comune battaglia. Certo, anche in passato le organizzazioni sociali, a cominciare dai sindacati, sono state il motore di lotte democratiche, ma sempre a tali lotte avevano corrisposto una o più sponde politiche autorevoli e popolari. Oggi questo schema è del tutto saltato. Ciò conferisce all’insieme delle organizzazioni sociali un nuovo tipo di responsabilità ed assieme ne fissa il limite, essendo impensabile un ruolo di supplenza nei confronti delle organizzazioni politiche.

Proprio per questo la scelta di un coordinamento europeo antifascista delle organizzazioni sociali si trasforma da una possibilità ad una necessità, perché non sono praticabili altre strade in tempi brevi. Peraltro è sotto gli occhi di tutti che le organizzazioni populiste e in particolare quelle nazional-populiste stanno costruendo alleanze intereuropee (se non internazionali), avendo alle spalle da un lato il Grande Alleato (Trump), dall’altro un interessato, seppur contraddittorio, interlocutore anche a causa di politiche europee profondamente sbagliate (Putin) ed infine un “vento di destra” che ha coinvolto quantomeno i due Paesi più importanti dell’America Latina: l’Argentina, governata da Mauricio Macri, uomo di estrema destra e legato agli States, e il Brasile, ove è da poco al potere un pericolosissimo personaggio, Jair Bolsonaro, molto peggio che fascista, le cui imprese sono state drammaticamente descritte durante il Forum di Roma dalla bravissima Manuela D’Avila, candidata vicepresidente dell’alleanza di sinistra alle elezioni vinte da Bolsonaro. Sono inquietanti le notizie su di una maggiore collaborazione militare fra il governo italiano e il Brasile come “ricompensa” per il ruolo di Bolsonaro nel caso Battisti.

Manuela D’Avila, già candidata a vicepresidente del Brasile nelle elezioni vinte da Bolsonaro

Si tratta perciò di operare in uno scenario davvero difficile, in contrasto con uno spirito pubblico prevalente, in una situazione di crisi oramai cronica dei partiti di origine novecentesca, eppure a fronte di parti sempre maggiori di opinione pubblica che progressivamente prendono coscienza della assoluta e urgente necessità di difendere la democrazia rappresentativa e partecipata, i diritti civili e sociali, i livelli di civiltà e di emancipazione storicamente depositati proprio nel Vecchio continente.

In tale scenario la prima scelta che ha accomunato le organizzazioni antifasciste presenti al Forum di Roma è stata quella di provare a fare rete, e cioè di creare una connessione permanente (informazioni ed iniziative) che agevoli la crescita dei movimenti democratici e antifascisti europei. Assieme, l’urgenza di far argine alla crescita delle destre nazional-populiste sia nei parlamenti nazionali sia in quello europeo, con la consapevolezza che l’unico modo per contrastare la debolezza della democrazia, fra le cui maglie cresce il tumore nazista, fascista, razzista è operare per una democrazia più forte, cioè con più partecipazione, più eguaglianza, più libertà. Ma questa linea è perseguibile solo a condizione della più ampia unità possibile, un’unità nuova, inedita, fra vecchi e nuovi antifascisti, nel vasto mondo dell’associazionismo, fra istituzioni, popoli e cittadini.

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Se l’antifascismo fosse un corpus ideologico, una dottrina rigida, una immodificabile visione del mondo, tutto ciò sarebbe molto difficile. Ma l’antifascismo non è questo. Diversi sono i modi e le forme attraverso cui matura una coscienza antifascista: c’è chi parte da una formazione religiosa, chi da una visione liberale, chi ancora da un originario pensiero marxista, chi inoltre dalla semplice presa d’atto della barbarie spesso emergente di alcune vocazioni nazional-populiste, come per esempio il razzismo. Ma se questi sono i punti di partenza, è possibile (ed urgente e necessario) trovare il condiviso punto di arrivo, e cioè l’antifascismo come idea che accomuna, come cemento di un largo fronte unitario.

Si parta così e si avviino delle buone pratiche, a cominciare dalla prospettiva delle elezioni europee. L’obiettivo è ricostruire, sotto una nuova egida di progresso sociale e democratico in una nuova idea d’Europa unita, quei blocchi sociali maggioritari che si sono dissolti negli ultimi anni dando linfa e consensi ai nazional-populisti. Tali consensi provengono da parti rilevantissime di classi sociali e di generazioni: si pensi al composito mondo (così profondamente cambiato) dall’attuale piccola borghesia sprofondata nella scala sociale, alle masse dei disoccupati di ogni generazione, ai giovani costretti ai lavori più umili e più pericolosi per un salario da fame e senza le più elementari tutele (un esempio fra i tanti: i riders). È tutto molto difficile, spesso oscuro e tortuoso, ma si può fare. A condizione di avviare una comune battaglia per l’uguaglianza e la libertà, a cominciare dalla libertà dalla paura. E a condizione che si abbia la saggezza di riscoprire l’esperienza dell’antico ed il coraggio di percorre strade del tutto nuove ed inesplorate.