A oltre settant’anni di distanza dalla fine della guerra dobbiamo registrare una diffusa “benevolenza” nei confronti del fascismo, visto come regime tutto sommato moderato se posto a confronto con altre dittature e in fondo anche moderno, per i suoi interventi in alcuni ambiti economici e sociali.
Queste opinioni generiche e superficiali, favorite da un ruolo specifico dei mass media – in particolare dalla televisione – creano uno spazio di consenso o di tolleranza nel quale i movimenti di tipo neofascista possono trovare legittimazione.
Esse sono conseguenza di percorsi di lungo periodo che trovano la loro origine nella narrazione dominante che si afferma durante la Resistenza e nell’immediato dopoguerra su iniziativa dei partiti antifascisti, con l’obiettivo di creare consenso attorno alla lotta di Liberazione e alle sue prospettive, ma anche al fine di convincere gli Alleati a non applicare all’Italia le clausole punitive previste dalle norme armistiziali del 1943.
Non si fanno i conti col passato
Declinata dalle forze moderate come “secondo Risorgimento” e dalla sinistra come “guerra di popolo”, la Resistenza è dunque rappresentata come una guerra di Liberazione dallo straniero e dai suoi servi fascisti, con il popolo italiano che, nel momento in cui ha potuto esprimere la propria volontà, ha mostrato il suo carattere democratico. Le leggi razziali e la guerra sono state volute dal fascismo come prezzo dell’alleanza con Hitler e, in ogni caso, l’esercito italiano nel corso dei tre anni di guerra condotti in alleanza con la Germania ha mostrato, a differenza di quello nazista, doti di umanità sintetizzate nel mito del “bravo italiano”.
Si tratta con ogni evidenza di narrazioni largamente autoassolutorie, che per affermarsi devono ridimensionare o negare il consenso che il fascismo aveva raccolto tra la popolazione italiana, le condotte criminali dell’esercito italiano nei territori occupati durante la guerra, in particolare nei Balcani, la dimensione anche di guerra civile che connota la lotta di Liberazione.
In sostanza non si fanno i conti con il passato fascista. Anche da parte antifascista si tende a minimizzare alcuni aspetti del fascismo e della stessa esperienza della Repubblica sociale italiana, giocando tutto nella contrapposizione in positivo rispetto al “male assoluto” rappresentato dal nazismo: Hitler è il demonio, Mussolini un dittatore da operetta; il nazismo è la shoah mentre tanti fascisti hanno salvato gli ebrei; gli italiani con la guerra si sono allontanati dal fascismo, mentre i tedeschi fino all’ultimo hanno combattuto per il Terzo Reich. Insomma, si determina uno spostamento di responsabilità che ha come conseguenza una attenuazione di quelle del fascismo.
Un secondo elemento da prendere in considerazione è la rapidità con la quale la memoria pubblica antifascista viene sottoposta a critica e messa in discussione, diventando parte integrante dello scontro politico tra forze moderate e forze di sinistra nel contesto della guerra fredda internazionale. Rapidamente l’anticomunismo diventa il tratto dominante delle politiche governative e non manca di esprimersi una memoria antagonista neofascista, che trova spazio anche in alcuni importanti settimanali a larga diffusione e raccoglie adesioni grazie alla mancata epurazione, alle amnistie e al rapido esaurimento della stagione processuale dedicata al collaborazionismo e ai crimini commessi dai nazifascisti in Italia.
Questo crea un campo di tensione soprattutto nella DC, perché se l’anticomunismo è pienamente condiviso, non tutti i suoi dirigenti sono però disposti a lasciare la Resistenza in mano alla sinistra o disponibili a dare spazio a una presenza neofascista che non è fatta solo di nostalgici, come testimonia il consenso raccolto tra i giovani universitari, soprattutto attorno alla battaglia per l’italianità di Trieste.
In ogni caso, le ambiguità del rapporto tra forze moderate, apparati dello Stato e ambienti neofascisti caratterizzeranno la storia d’Italia per diversi decenni, fino alla stagione dello stragismo inaugurata con Piazza Fontana nel 1969 e fino alla strage di Bologna del 1980.
Una conseguenza di questa situazione è il silenzio imbarazzato che avvolge la storia del fascismo, della guerra e della Resistenza per tutti gli anni Cinquanta, che sarà rotto solo dall’irrompere dell’antifascismo giovanile sulla scena pubblica nel luglio 1960.
Renzo De Felice ed altri
Unicamente in occasione del ventennale la Resistenza è assunta da tutte le forze politiche democratiche come mito fondativo dello Stato repubblicano, ma si lasciano ancora una volta sullo sfondo gli elementi più conflittuali e le contrapposizioni politiche e di prospettiva che avevano attraversato la Resistenza e, di nuovo, non si affrontano i nodi problematici del rapporto con il fascismo, come i temi del consenso al regime e la questione dei crimini di guerra commessi dall’esercito italiano.
È proprio dai primi anni Sessanta che lo storico Renzo De Felice inizia il suo lavoro di ricerca sulla figura di Benito Mussolini, preceduto da un volume del 1961 sul rapporto tra ebrei e fascismo. Per un trentennio De Felice sarà al centro del dibattito pubblico sul fascismo, nonostante la complessità e la scarsa leggibilità dei suoi monumentali volumi sulla biografia del duce, grazie soprattutto alle interviste che rilascerà in alcune fasi della vita politica italiana, in particolare nel 1975 e nel 1995, che avranno importanti ricadute sul dibattito politico dell’epoca.
Non è certo possibile riassumere le sue interpretazioni del fascismo, anche perché non ha lasciato alcuna opera di sintesi del suo impressionante e minuzioso lavoro di scavo negli archivi. In ogni caso, alcuni assi fondamentali sono la forte distinzione tra fascismo e nazismo, la differenziazione tra “fascismo movimento” espressione di istanze “rivoluzionarie” e “fascismo regime”, la negazione di un’effettiva partecipazione italiana alle persecuzioni antiebraiche, la rappresentazione dell’ultimo Mussolini come difensore degli italiani dalla vendetta tedesca dopo l’8 settembre 1943, l’idea che la guerra civile sia stata opera di minoranze ideologiche, per interessi di parte, mentre la maggioranza del popolo italiano aspettava solo la fine del conflitto rimanendo indifferente alle ragioni dell’una e dell’altra parte.
Questi temi saranno poi ripresi e forzati anche strumentalmente dai neofascisti nella loro pubblicistica, mentre sul piano pubblico e sulla stampa moderata – a fronte delle contestazioni da parte della storiografia di sinistra – si inizierà a rappresentare De Felice come un perseguitato, condizione davvero paradossale per lo storico più noto del fascismo nel mondo, che pubblica i suoi libri con una casa editrice di sinistra, fortemente presente nel mondo accademico anche attraverso i suoi numerosi allievi e volto noto al grande pubblico per la presenza massiccia sui media.
Negli anni Ottanta, in una situazione che vede l’esaurimento delle istanze di cambiamento sociale maturate nei due decenni precedenti, la crisi dei movimenti collettivi e della stessa idea di impegno politico e pesanti sconfitte per il mondo del lavoro, la memoria pubblica della Resistenza è messa di nuovo in discussione e sono elaborati progetti di ‘grande riforma’ che, per la prima volta, pongono il problema del superamento della Costituzione nata dalla Resistenza, vista come un ostacolo alla modernizzazione dell’Italia e al superamento delle sue divisioni, a favore della cosiddetta “pacificazione nazionale”.
In questo contesto si fanno più insistenti i tentativi di rivalutazione del fascismo e di Mussolini da parte della televisione e della grande stampa, che hanno poi modo di dispiegarsi in campagne mediatiche di ampiezza straordinaria dopo il crollo dei regimi comunisti dell’Est Europa e la fine della cosiddetta “Prima Repubblica” sotto i colpi di Tangentopoli. L’apparire di forze politiche che non si riconoscono più nella Costituzione, o che mettono in discussione la stessa unità della nazione, pone l’esigenza di superare l’antifascismo come discriminante di legittimazione politica.
Dalla contrapposizione fascismo/antifascismo si passa allora a quella totalitarismo/antitotalitarismo, dove ad essere totalitari però sono considerati il nazismo e lo stalinismo, ma non il fascismo. Ancora una volta, a partire da vicende come quella del “chi sa parli” di Reggio Emilia, sul banco degli accusati salgono i partigiani comunisti, colpevoli di aver avuto obiettivi rivoluzionari e non democratici, come dimostrerebbero le violenze del dopoguerra e la questione delle foibe.
Si banalizza anche il concetto di “guerra civile” utilizzando strumentalmente il volume di Claudio Pavone che, con una straordinaria capacità di analisi, aveva individuato la compresenza nel movimento di Resistenza di tre guerre, di Liberazione, civile e di classe. Si insiste sul fatto che la Resistenza è stato fenomeno limitato, e la guerra civile scontro tra minoranze rispetto alle quali non è necessario introdurre distinzioni valoriali, perché si dice che i caduti sono tutti uguali, e tutti erano in buona fede.
In un contesto segnato dall’emersione di memorie antipartigiane, dalla moltiplicazione di memorie settoriali che rivendicano il riconoscimento pubblico e dove assume sempre più centralità nella memoria pubblica, al posto dei protagonisti attivi (come partigiani e antifascisti), la figura della vittima, dal 2003 prende l’avvio la grande operazione mediatica del giornalista Gianpaolo Pansa attorno alle violenze partigiane del dopoguerra.
Curiosamente, come già con De Felice, la rappresentazione che viene proposta sul piano mediatico è del giornalista perseguitato dalla sinistra perché dice verità scomode che nessuno ha mai detto: così come De Felice non citava in nota opere storiografiche, per non dover riconoscere debiti a chi prima di lui aveva studiato aspetti specifici del fascismo, così Pansa non ammette che prima di lui proprio gli storici di sinistra avevano studiato il fenomeno della violenza partigiana nel dopoguerra.
In ogni caso, riprendono le polemiche sui libri di testo “faziosi”, gli interventi di modifica della toponomastica, le fiction televisive antipartigiane, sfruttando in questo senso anche l’istituzione del Giorno del ricordo nel 2004 e del giorno della libertà nel 2005.
La banalizzazione del fascismo
Continua inoltre l’opera di banalizzazione del fascismo, sottolineandone gli aspetti di regime moderato e moderno sottacendo invece quelli repressivi e totalitari. Si punta su storie soggettive, dai familiari di Mussolini ai principali gerarchi. Si isola la questione delle leggi razziali come errore dovuto all’alleanza con Hitler e si insiste a rappresentare gli italiani come vittime della guerra, e non anche come carnefici. Un esempio solo: si continua a parlare di ritirata di Russia, sottolineando il sacrificio dei soldati italiani, ma non si dice nulla del perché erano andati là e per fare cosa.
Poi si passa alla Repubblica sociale italiana, riprendendo ed estremizzando temi già proposti nell’ultimo volume incompiuto di De Felice, proponendo equiparazioni tra partigiani e repubblichini, come ad esempio con il tentativo di istituire l’Ordine del tricolore nel 2008, intervenendo sulla toponomastica e sulla monumentalistica per valorizzare figure del fascismo e della Rsi, come nel caso del monumento a Graziani, continuando nella criminalizzazione della Resistenza.
Occorre insistere su due aspetti: il primo che in quest’opera di banalizzazione e di intervento sul senso comune hanno avuto un ruolo fondamentale i mass media e in particolare la televisione italiana che, quindi, deve essere oggetto di una riflessione specifica; il secondo che si è determinata una divaricazione profonda tra risultati della ricerca storica, che è a livelli di eccellenza e che ha visto protagonisti storici che nella vulgata sono collocabili a sinistra, e l’opinione pubblica più generale che risulta impermeabile in buona parte alle acquisizioni della ricerca storica. Questo pone un problema agli storici, di come riuscire a mettere in circolo tra scuola e spazio pubblico le acquisizioni della ricerca.
Per quanto detto finora risulta evidente che quando ci poniamo il problema del confronto con l’ampliamento dei movimenti neofascisti dobbiamo aver bene presente che questi sono l’espressione estrema di un sentire comune e di opinioni diffuse che si sono consolidate nel corso di decenni. E quindi ogni strategia di contrasto deve lavorare sugli aspetti culturali e sulla diffusione delle conoscenze, sul sistema scolastico e universitario, sul ruolo dei mass media, sul ruolo che devono avere le istituzioni dello Stato.
Da questo punto di vista dobbiamo contrastare i negazionismi ma anche le semplificazioni della memoria (i morti sono tutti uguali), le assimilazioni pericolose, frutto della perdita di senso delle parole (ad esempio definire le foibe genocidio), le rimozioni, come nel caso dei crimini contro l’umanità compiuti dagli italiani, le comparazioni gerarchiche finalizzate in modo semplicistico a stabilire graduatorie negative di fenomeni storici sulla base di criteri speso solo quantitativi, cioè dal numero di morti prodotti.
Occorre condurre una battaglia culturale per contrastare letture superficiali, assolutorie, generalizzanti, se non vere e proprie falsificazioni della realtà rispetto alla storia del fascismo italiano. Per farlo è necessario avere presente alcuni degli aspetti fondamentali della sua storia che vanno letti in rapporto alle opinioni su di essi largamente presenti nell’opinione pubblica.
Fascismo italiano punto di riferimento
Intanto, il fascismo come fenomeno storico va preso sul serio. Se in molti Paesi europei negli anni Trenta si affermano regimi fascisti e autoritari, con alcuni elementi comuni, quello italiano è il primo e l’unico che copre tutto il periodo tra le due guerre. È quindi il punto di riferimento, perché per primo propone un modello politico alternativo sia alla democrazia parlamentare sia al socialismo, offrendo una soluzione ai problemi posti all’Europa dal passaggio dalle società liberali alle società di massa.
Il fascismo ha avuto natura totalitaria, perché basato sul partito unico, sulla militarizzazione e poi sacralizzazione della politica, sulla teorizzazione dell’uomo nuovo, sulla mobilitazione passiva dei cittadini, inquadrati in una miriade di organizzazioni. Chi non condivide è un nemico interno da reprimere, usando la violenza che non è solo una pratica, ma un elemento costitutivo dell’identità del fascismo.
Dunque una visione organicistica della società, nella quale ognuno deve stare al suo posto e non devono esistere conflitti tra le parti, una concezione gerarchica della società con il culto del capo carismatico, l’affermazione della centralità assoluta dello Stato, rispetto al quale l’individuo è sacrificabile e poi un nazionalismo aggressivo che sposta all’esterno del paese i motivi di tensione e, infine, il rifiuto delle diversità con il razzismo prima e l’antisemitismo poi.
Se il regime fascista non riesce a essere totalitario in senso pieno, perché deve mediare con altri centri di potere, in primo luogo la monarchia e la Chiesa, ciò non toglie che la prospettiva in cui si muove è quella di arrivare a esserlo.
Modernizzazione senza modernità
Il fascismo propone una modernizzazione senza modernità, cioè una modernizzazione che in realtà blocca in Italia i processi di secolarizzazione, di sviluppo della soggettività individuale, di rottura dei ruoli sociali tradizionali improntati al paternalismo e fondati sulla diseguaglianza tra i sessi, che si stanno invece affermando nelle società di massa democratiche. Usa gli strumenti della modernità, come i nuovi mezzi di comunicazione (radio e cinema) per costruire consenso, sempre però in una logica di adesione acritica e subalterna da parte dei destinatari.
Si propone come una rivoluzione moderna, che però nasce dall’alto e mantiene inalterate le gerarchie sociali, perché la sua risposta alla nascita della società di massa è un modello di coinvolgimento che nega la possibilità del conflitto sociale che a essa è connaturato. Il progetto di Stato corporativo rimane incompiuto e l’idea di fare convergere gli interessi verso il fine superiore della nazione si traduce concretamente in un aumento di potere degli imprenditori, dal momento che il divieto di sciopero e di protesta impedisce ai sindacati di mettere in discussione o di contrattare le scelte compiute.
La conferma della modernizzazione senza modernità si ha vedendo alcune delle politiche messe in atto dal regime, in particolare il ruralismo, le azioni per favorire la natalità, la gestione diretta dei flussi migratori nell’ottica della colonizzazione. Se interviene con più efficacia nella vita economica e finanziaria, determina però la dipendenza del sistema economico al regime e alle sue mire espansionistiche, senza contestualmente toccare equilibri di potere o intaccare diritti di proprietà.
Da tempo gli studi sul fascismo hanno superato una visione ideologica della tematica del consenso, ma si sono anche interrogati su come individuare gli strumenti più adatti a misurarlo in un contesto totalitario, in un sistema cioè che non permette e anzi reprime l’espressione delle libere opinioni.
Se è un dato acquisito che ci sia stato un ampio consenso nel Paese, questo però va declinato dalla convinta adesione all’accettazione passiva e al conformismo, va messo in relazione alle diverse fasi attraversate dal Regime – ad esempio alcuni studiosi sottolineano che già a metà degli anni Trenta ci sono segnali di scollamento che poi diventeranno evidenti dopo lo scoppio della guerra – e va declinato a seconda degli strati sociali o della vicinanza/lontananza dai centri di potere o dai meccanismi di controllo.
Altri studi hanno messo in evidenza il paradosso di un regime che mette in piedi un mastodontico apparato burocratico-amministrativo che controlla la società, ma che più entra nella vita delle persone e più rende esplicito, in particolare nelle realtà periferiche, il contrasto tra le roboanti parole del duce, la continua mobilitazione e i riti proposti e la realtà quotidiana fatta di abusi di potere, piccole o grandi vessazioni, difficoltà nel lavoro dovute a un ceto burocratico fascista corrotto e intrallazzatore, come nel caso dei fiduciari sindacali o dei piccoli ras locali. E comunque c’è un dato di fatto: il regime non riesce a garantire una migliore qualità della vita alla maggioranza degli italiani.
Un’altra acquisizione riguarda la realtà dell’opposizione antifascista. In un regime totalitario la normalità è l’adeguamento e non certo l’opposizione, perché il rapporto tra azione oppositiva e azione repressiva è sempre sproporzionata e richiede una disponibilità al sacrificio non solo per sé ma anche per la propria famiglia.
È allora importante comprendere i meccanismi di costruzione del consenso ma anche di repressione del dissenso, prendendo atto della capacità del regime di penetrare in profondità nella società italiana ma, al tempo stesso, della centralità del sistema repressivo, della sua capacità di controllo attraverso l’insieme delle organizzazioni sociali, sindacali e assistenziali del regime, dei suoi strumenti concreti che vanno da quelli più esplicitamente repressivi come carcere, confino, Tribunale speciale a quelli destinati a colpire la dimensione sociale, con perdita del lavoro, disagio delle famiglie, isolamento sociale, costrizioni quotidiane.
Antisemitismo, razzismo e guerra
È un dato ormai acquisito che l’antisemitismo e il razzismo sono elementi costitutivi del fascismo italiano, e si affermano nel corso degli anni Trenta non in conseguenza dell’alleanza con il nazismo ma nel quadro della costruzione del consenso attorno alla politica nazionalista ed espansionistica del regime, rafforzando così l’identità nazionale, consolidando la fascistizzazione della società e alimentando illusioni rivoluzionarie in particolare tra le giovani leve fasciste. E vanno intrecciati con il problema della distruzione delle identità delle minoranze sul confine orientale e della colonizzazione dell’Africa settentrionale e orientale.
Un elemento fondamentale è mettere in discussione la vulgata che la guerra sia stata per il fascismo un incidente di percorso. Dobbiamo invece essere consapevoli che il fascismo nasce dalla guerra, e ha senso solo in una prospettiva di guerra: la guerra non è un infortunio della storia, ma l’obiettivo ultimo del fascismo per realizzare tutte le ambizioni di potenza, insite nella sua ideologia. Non a caso l’Italia durante il fascismo è permanentemente in conflitto con qualcuno, dai Balcani alla Libia, dall’Etiopia alla Spagna, con oltre mezzo milione di morti provocati anche con gas e con bombardamenti sulla popolazione civile. E questo ancora prima dello scoppio della seconda mondiale.
Infine, l’idea che la Repubblica sociale italiana abbia costituito una difesa per gli italiani di fronte ai desideri di vendetta del nazismo dopo il “tradimento” dell’8 settembre appare ormai destituita di ogni fondamento. Inserita nel fenomeno più generale del collaborazionismo ma con proprie specificità, la Rsi ha radicalizzato indirizzi già presenti nel fascismo come la violenza vendicativa contro gli oppositori, la persecuzione degli ebrei nella consapevolezza che ora è in gioco la loro vita, la collaborazione alla repressione della Resistenza che non si ferma davanti alle stragi e alle rappresaglie che colpiscono prevalentemente civili inermi e incolpevoli.
Così come è altrettanto destituita di fondamento la rappresentazione della guerra civile come conflitto tra due minoranze con la maggioranza del popolo italiano ad assistere quasi con indifferenza, se non a subire le conseguenze di cose che non lo riguardano, interpretazione che può essere proposta solo ignorando le cartoline-precetto per chiamare i giovani alle armi, le requisizioni di beni, lo sfruttamento intensivo di tutte le risorse umane e materiali da parte dell’esercito occupante, la violenza inferta con le stragi e le migliaia di morti causate dai bombardamenti anglo-americani . In realtà tutti sono coinvolti, anche se si possono illudere del contrario e sperare di non essere toccati dalla guerra.
Il fascismo non è stato dunque una dittatura all’acqua di rose, non è stato un regime bonario, ma ha inciso pesantemente sulla vita degli italiani e delle popolazioni che hanno conosciuto la sua politica espansionistica, in Europa e in Africa, provocando oltre un milione di morti nel suo tentativo di costruire un Impero e di condurre una guerra parallela a quella hitleriana. Non ha accettato la sconfitta della storia ed è stato corresponsabile dei lutti e delle profonde ferite che la guerra ha prodotto tra il 1943 e il 1945 nel nostro Paese e quindi non merita alcuna indulgenza.
Claudio Silingardi, direttore dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri
Pubblicato giovedì 15 Giugno 2017
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