Si dice spesso che le vicende subite dagli sconfitti nella Seconda guerra mondiale siano state taciute e censurate per decenni.

Colonna di collaborazionisti in fuga da Zagabria

In realtà, contrariamente a quanto comunemente appare nella stampa e in certa pubblicistica, i regolamenti di conti alla fine del secondo conflitto hanno goduto da subito di una certa notorietà. Per quanto concerne l’ex Jugoslavia, l’evento che simbolizza questi regolamenti di conti – la soppressione della colonna di collaborazionisti di varia nazionalità respinti dagli inglesi dopo un tentativo di fuga in Austria, la cosiddetta “via Crucis” – fu al centro delle attività di agitazione dei circoli nazionalisti riparati all’estero.

Furono oltre 10.000 i nazisti che, grazie alle ratlines, fuggirono in Sud America

Essi erano in genere ben connessi con i servizi di intelligence occidentali, dopo che molti dei loro appartenenti, tra cui lo stesso capo dello Stato fantoccio di Croazia, Ante Pavelić, avevano fruito della Ratline (letteralmente “via dei topi” o anche “via dei monasteri”, i percorsi attraverso cui molti fascisti di varia nazionalità ripararono per lo più nelle Americhe). Per quanto riguarda invece le foibe, esse goderono di grande notorietà per tutta la durata del contenzioso confinario tra Roma e Belgrado noto come “questione di Trieste” (1945-1954), periodo nel quale le foibe furono tra gli argomenti preferiti della diplomazia italiana per indicare l’indegnità degli jugoslavi ad amministrare le terre occupate negli ultimi giorni di guerra.

Il confine tra Italia e Territorio Libero di Trieste sulla strada tra Monfalcone e Duino-Aurisina

Queste faccende smisero di venire agitate davanti all’opinione pubblica negli anni Cinquanta. La Jugoslavia dopo il dissidio tra Tito e Stalin consumato nel 1948 si avviò a un rapporto di stretta collaborazione con l’Occidente. L’evento, disastroso per quei circoli nazionalisti all’estero, tolse ogni interesse a insistere con i massacri del 1945. Quanto all’Italia, dopo il reintegro di Trieste nel 1954, i rapporti con la Jugoslavia migliorarono sensibilmente, facendo regredire la questione delle foibe a spunto polemico a disposizione della politica locale a Trieste e a Gorizia. A dieci anni dalla fine della guerra, insomma, le persecuzioni citate si ridussero perlopiù a materiale per alimentare l’immaginario degli sconfitti in guerra, coltivato in circuiti politici e associativi circoscritti (ambienti dell’MSI, circoli degli esuli istriani e di quelli tedeschi travolti dal disfacimento del Terzo Reich, ambienti della diaspora slovena e croata nelle Americhe e in Australia).

Queste storie, cui quasi nessuno aveva interesse a dare grande risalto – non solo dove ciò poteva avere conseguenze nefaste come nel mondo comunista, ma anche in Italia e in Germania dove sarebbe stato possibile senza grandi difficoltà – riacquisirono una certa popolarità sul finire degli anni Ottanta. Se – è questa un’interpretazione comune – l’alleggerimento del controllo in Jugoslavia da parte dello Stato ha agevolato la compilazione di lavori come quelli di Tone Ferenc sulle violenze connesse alla presa del potere comunista in Slovenia, ciò non offre però una spiegazione convincente rispetto a un fenomeno che in quegli anni ha coinvolto un numero di Paesi di cui alcuni già democratici, come l’Italia.

Si noti en passant che la facoltà censoria del PCI, addotta talvolta a motivazione del “silenzio”, trova scarso riscontro negli equilibri di potere che hanno retto la Prima repubblica. Offro quindi la seguente ipotesi: la riscoperta della memoria degli sconfitti nella Seconda guerra mondiale ha rivestito il ruolo di un posizionamento in vista di eventi che, con la fine del socialismo reale evidentemente alle porte, promettevano la messa in discussione dell’ordine internazionale scaturito dall’accordo tra angloamericani e sovietici alle celebri conferenze di Jalta e Teheran. Se è vero che in Italia i fascisti e i loro sostenitori non erano stati sterminati né costretti a lasciare il Paese, salvo alcuni casi estremi, ciononostante per questi ambienti può valere la definizione di “esilio interiore”, dal momento che, per quanto la loro organizzazione politica venisse tollerata, non era immaginabile che l’MSI partecipasse al governo del Paese.

Memoriale di Jasenovac, complesso monumentale sorto sulle macerie del più mortale campo di sterminio in territorio prima jugoslavo e poi croato. Negli anni 90 si provò, senza esito, a trasformarlo in una grande sepoltura comune dove i resti degli ustaša avrebbero riposato accanto a quelli dei partigiani, di fatto equiparando i carnefici alle vittime

Gli anni Novanta sembrarono assecondare le aspettative di questi ambienti. Gli esuli politici croati – e in misura minore sloveni, ma anche serbi – vennero riaccolti in pompa magna, mentre la Presidenza della Croazia indipendente andava a Franjo Tudjman, uno storico da anni impegnato nella revisione della storia della Seconda guerra mondiale. Una volta al potere, costui propose (senza esito) la trasformazione del Memoriale di Jasenovac, il complesso monumentale sorto sulle macerie del più mortale campo di sterminio in territorio prima jugoslavo e poi croato, in una grande sepoltura comune dove i resti degli ustaša avrebbero riposato a fianco di quelli dei partigiani.

Dragoljub “Draža” Mihailović, leader cetnico collaborazionista durante il processo che lo condannerà a morte. Fucilato nel 1946 sarà però riabilitato nel 2015

L’idea di equiparare fascisti e antifascisti tenne banco anche in Italia, dove si parlò a lungo dei “ragazzi di Salò”. A farsene interprete fu l’MSI, che giunse al potere nel 1994 nel primo Governo Berlusconi. A una equiparazione del genere si è infine arrivati, in Serbia, tra partigiani e collaborazionisti locali, i Četnici, il cui leader Dragoljub “Draža” Mihailović è stato infine riabilitato nel 2015 attraverso la revisione formale del processo che lo condannò a morte nel 1946. In Slovenia la parificazione tra partigiani e domobranci (gli appartenenti alla milizia collaborazionista dei fascisti e poi dei nazisti nota anche come Bela Garda, cioè guardia bianca, in riferimento all’antibolscevismo dei suoi aderenti) non è avvenuta, ma nel Paese il lungo e tormentato dibattito in proposito, continuamente rinfocolato dal partito del politico di centro-destra Janez Janša, ha portato alcuni anni fa alla costruzione di un monumento alla conciliazione nazionale nella centrale Kongresni Trg, in cui due colonne che dipartono da una base comune sotterranea simboleggiano la pretesa estemporaneità della divisione del corpo nazionale in base a criteri ideologici.

Parallelamente a questi tentativi di pareggiare i conti della storia, negli anni Novanta in Italia il tema delle foibe ha gradualmente ripreso piede. Alla frequente menzione nei discorsi dei politici di AN ha fatto seguito nel 2004, con una maggioranza bipartisan ampia ma non plebiscitaria, l’approvazione di una specifica giornata memoriale. Per la celebrazione è stato scelto il 10 febbraio, l’anniversario della firma del Trattato di pace tra l’Italia e i Paesi a cui aveva dichiarato guerra. In Germania, dal 2015, ogni 20 giugno, in concomitanza con la Giornata mondiale del rifugiato, si commemorano «le vittime mondiali della fuga e dell’espulsione e in particolare gli espulsi tedeschi». Nel giugno 2018, l’allora cancelliera Angela Merkel affermava che non c’era «alcuna giustificazione morale o politica» per l’espulsione postbellica di persone di ascendenze tedesche, di cui alcune provenivano dalla Serbia settentrionale e dalla Slovenia. Complessivamente il loro numero, di svariati milioni, sovrasta i circa 250.000 esuli istriani, e si inserisce nel contesto di un’Europa che al termine del conflitto regolava conti vecchi di secoli, per trasformare i variegati popoli dei territori ex imperiali in entità statali all’epoca percepite come moderne.

Contemporaneamente alle manovre politiche, è andato evolvendosi il dibattito intellettuale. A partire da formule altisonanti sulla fine delle dittature e delle ideologie, si è assistito a quello che lo storico sloveno Oto Luthar – parlando della Slovenia ma il discorso si estende a tutti i Paesi che ho citato – descrive così: «la spinta ad abbracciare trend storiografici moderni è stata sostituita dall’esclusivismo nazionale dell’interpretazione storica». Si noti appena che se in Italia c’è stata una perdurante tendenza a ritenere il fascismo autoctono meno aggressivo di quello tedesco e del regime ustaša in Croazia – un fatto a prima vista curioso, dal momento che la Croazia fascista era tecnicamente uno Stato fantoccio italiano – allo stesso modo in Slovenia si fanno talvolta differenze nel giudicare i nazifascisti e i collaborazionisti sloveni, i menzionati domobranci, sebbene questi fossero alle dipendenze volontarie dei primi.

Victor Orban ospite di Giorgia Meloni ad Atreju nel 2019 (Imagoeconomica)

In questo modo un discorso che si era fino a quel momento mantenuto in qualche modo nei binari della masternarrative antifascista della Seconda guerra mondiale si è frantumato in una serie di battibecchi interni ai vari Paesi e tra nazioni. La Germania ha ripreso polemiche con i suoi vicini orientali che sembravano sepolte dalla visita di Willy Brandt a Varsavia nel 1970. I vicini orientali della Germania, a loro volta, hanno ripreso a polemizzare tra loro, come stiamo vedendo nelle estreme conseguenze in Ucraina. La stessa dinamica si ripropone, fortunatamente su un piano per lo più verbale, a sud delle Alpi, da cui le polemiche degli ultimi anni tra figure istituzionali italiane, croate e slovene attorno alle foibe, ma anche un contenzioso territoriale indirettamente collegato alla Seconda guerra mondiale come quello che ha contrapposto la Slovenia e la Croazia attorno all’assegnazione del golfo di Pirano. Sul versante delle dichiarazioni verbali si segnalano inoltre rimandi all’“italianità dell’Istria”, ma anche la dichiarazione di Viktor Orban, che recentemente ha fatto scalpore, sull’ungaricità di Fiume (nell’economia dell’Impero Austroungarico la Croazia era infatti sotto il controllo di Budapest, cui Fiume fungeva da porto).

Simbologia ustaša alle commemorazioni di Bleiburg

In parallelo, si è sviluppato il revisionismo storiografico. Come dice lo storico croato Ivo Goldstein nel suo recente libro sul campo di sterminio di Jasenovac, purtroppo non disponibile in italiano, alcune di queste nuove interpretazioni sono stranamente simili a quelle che dopo il 1945 hanno circolato per alcuni anni negli ambienti circoscritti di cui ho parlato all’inizio. Anche secondo gli storici tedeschi Hans Henning Hahn ed Eva Hahn si tratta fondamentalmente di «vino vecchio in bottiglie nuove». In questo modo – oltre a testi di squisita invenzione storica come quelli che hanno fatto scalpore in Croazia per aver tentato di negare il carattere genocidario di Jasenovac, dove persero la vita più di 100.000 persone con modalità spesso atroci – le commemorazioni degli eventi subiti dagli sconfitti al termine della guerra si sono spesso trasformate in appuntamenti di ritrovo per militanti e simpatizzanti di estrema destra. Se in Croazia la presenza di simbologia ustaša alle commemorazioni di Bleiburg, la località simbolo della repressione della colonna dei collaborazionisti in fuga da Zagabria, ha addirittura causato una reazione dell’Austria, nel cui territorio si trova Bleiburg, lo stesso è capitato talvolta alle commemorazioni delle vittime foibe, nel corso delle quali la presenza di simbologia fascista ha occasionalmente dato scandalo.

A Basovizza, vessilli della RSI a una commemorazione delle foibe

La compresenza di certi atteggiamenti e di dichiarazioni come quelle sull’italianità/ungaricità di Fiume non deve sorprendere, dal momento che l’estrema destra ha avuto un atteggiamento revisionista rispetto all’ordine internazionale almeno dagli anni Venti. È comprensibile che questi comportamenti causino preoccupazione, soprattutto quando vengono rivolti da Paesi grandi a Paesi più piccoli, ma la comune casa dell’Unione Europea – che è stata istituita anche per questo motivo – dovrebbe costituire un freno sufficiente ai revanscismi.

Gli stessi ambienti che si pongono in prima linea per una revisione del senso da attribuire al passato – un ex ministro croato amico personale dello storico responsabile del processo di riabilitazione di Mihailović, le associazioni di esuli istriani che cercano apparentamenti con le associazioni di vittime del regime comunista nella ex Jugoslavia – mostrano la fragilità dei propri propositi di intesa nel momento in cui si pongono a difesa di rivendicazioni nazionali che naturalmente confliggono con quelle degli altri.

Resta da chiedersi se qualcuno e chi, dalla litigiosità e dai conflitti che l’attacco culturale all’ordine internazionale scaturito dalla vittoria della coalizione antifascista – cui hanno fatto seguito 45 anni di pace – abbia qualcosa da guadagnarci, al di là di considerazioni elettorali e di consenso di piccolo cabotaggio.

Federico Tenca Montini, ricercatore autore di più pubblicazioni, tra cui nel 2020 il libro “La Jugoslavia e la questione Trieste (1945-1954)”, edizioni Il Mulino