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In linea generale, la propensione nei confronti del presidenzialismo, diventato uno dei punti qualificanti del programma elettorale della destra, poggia essenzialmente sull’attribuzione di un primato politico alla questione della governabilità. Per questo aspetto, anche in passato, altre forze politiche si sono mostrate aperte verso questa opzione, o verso la sua versione edulcorata, il cosiddetto premierato che, peraltro, obbedisce alla stessa logica di verticalizzazione e concentrazione del potere, da molti, e non solo a destra, ritenuto una condizione essenziale per migliorare l’efficacia complessiva del sistema istituzionale. Conseguenza logica di questo approccio è il favore nei confronti del sistema elettorale maggioritario, del quale, da un certo punto di vista, l’elezione diretta del Capo dello Stato costituisce un corollario, in quanto verrebbe a coronare un sistema in cui il voto popolare legittima l’esecutivo, o meglio, l’espressione sublimata di esso, con l’investitura diretta del Capo dello Stato, posto al vertice del Governo.

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L’esperienza delle ultime due Legislature, peraltro, non suffraga affatto questo schema e, in una certa misura, lo contraddice: essa ha infatti mostrato inequivocabilmente l’infondatezza dell’equazione tra sistema elettorale maggioritario e stabilità dell’esecutivo, dato che le coalizioni o i partiti (il Movimento 5 stelle) presentatisi per due tornate elettorali come alternativi agli elettori si sono poi divisi nel momento della formazione del Governo, collocandosi, nelle singole componenti, chi nella maggioranza chi all’opposizione, e subendo comunque processi di erosione che ne hanno modificato la fisionomia e la consistenza: i cosiddetti “cambi di casacca” dei parlamentari, infatti, hanno spesso comportato anche un riposizionamento individuale dalla maggioranza all’opposizione e viceversa.

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Il dato dell’esperienza è peraltro estremamente significativo nella costruzione di un ragionamento sul piano istituzionale che non può prescindere dalla valutazione del concreto atteggiarsi del sistema politico e delle singole componenti di esso nelle circostanze date, tanto più se si fa riferimento ai diversi e difficili passaggi di questi anni, dalla pandemia, alla guerra in Europa, alla crisi climatica e alle disastrose conseguenze politiche e sociali ne sono derivate e che sono sotto gli occhi di tutti. Così che il reiterato richiamo di alcune forze politiche all’esigenza di riforme costituzionali – che di solito va di pari passo con l’assenza di un concreto impegno per l’attuazione della Costituzione vigente – appare sempre più un diversivo e anche una dichiarazione di impotenza rispetto alle emergenze reali che si sono manifestate e continueranno a manifestarsi nei mesi a venire.

Nel palazzo della Corte costituzionale (Imagoeconomica)

Occorre però riflettere anche sui rischi impliciti in una proposta di riforma istituzionale fondata in via prevalente se non esclusiva sul fine di assicurare la governabilità; non perché questo non sia un obiettivo da perseguire, ma perché la stabilità dell’Esecutivo non è un valore di per sé e, soprattutto, ad esso non possono essere sacrificati altri valori, altrettanto se non più rilevanti. Giova a questo proposito ricordare il monito contenuto nella sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2014, che dichiarava la parziale illegittimità della legge elettorale nota come porcellum: in questa pronuncia veniva in particolare sottolineata l’esigenza che il fine della stabilità del governo non venisse perseguito comprimendo oltre misura l’altro essenziale principio di una moderna democrazia, quello del pluralismo della rappresentanza politica. La legislazione elettorale – si può legittimamente dedurre dalla lettura di tale sentenza – può anche aspirare a una semplificazione del sistema dei partiti, ma questa non deve giungere al punto di tenere fuori dagli organi rappresentativi correnti e tendenze politiche presenti in modo significativo nella società.

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Già la riforma costituzionale che ha portato a una drastica riduzione del numero dei parlamentari ha oggi significativamente pregiudicato l’equilibrio della rappresentanza politica, non solo in quanto ne ha alterato in modo abnorme la distribuzione territoriale ma soprattutto perché è stata varata sull’onda di una polemica che si è alimentata dei più triti luoghi comuni dell’antipolitica e che, al di là delle intenzioni (e forse anche dei pentimenti) dei promotori, ha contribuito alla diffusione di un senso comune antiparlamentare sul quale non da oggi, ma oggi in modo particolare, la destra conta molto per allargare i propri consensi.

Il Quirinale, dettaglio del palazzo (Imagoeconomica)

Lasciando da parte la rudimentale strumentazione ideologica, un tempo appannaggio dell’estrema destra ma fatta oggi propria da tutta la coalizione, che vede nel presidenzialismo la mera affermazione di un principio plebiscitario che svilisce il concetto di rappresentanza nella mistica dell’uomo solo al comando, occorre invece una riflessione più approfondita, al fine di aprire il confronto con quanti (e non sono pochi) ritengono invece che il presidenzialismo, oltre a una semplificazione del sistema politico, offra una maggiore garanzia sul piano dell’efficienza delle istituzioni.

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A questo scopo, occorre preliminarmente distinguere due aspetti del problema che troppo spesso vengono considerati insieme, quasi fossero l’uno conseguenza dell’altro: l’elezione popolare e il rafforzamento a livello istituzionale della figura del Capo dello Stato. L’investitura popolare, infatti, assegnerebbe di per sé al Presidente un potere di indirizzo politico, il cui esercizio si concretizza in una attiva partecipazione all’esercizio del potere esecutivo, ma, proprio in omaggio al principio della separazione dei poteri, lo collocherebbe, o meglio, lo dovrebbe collocare, in una posizione eccentrica o, diciamo in modo molto generico, “attenuata” rispetto a quella che attualmente occupa rispetto al potere legislativo e al potere giudiziario.

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In altri termini, in assenza dei contrappesi che sono presenti in altri sistemi, soprattutto in sistemi federali, ritenere che un Capo dello Stato espressione di una parte, ancorché maggioritaria, dell’elettorato possa assolvere con imparzialità al proprio ruolo di supremo garante degli equilibri istituzionali appare quanto meno un azzardo. Per questo aspetto, l’elezione diretta si traduce in un obiettivo ridimensionamento della posizione (ma anche della credibilità) del Capo dello Stato come soggetto titolare di un complesso di funzioni di garanzia, che risulterebbero pertanto ulteriormente depotenziate nel loro complesso, in quanto private di un referente istituzionale essenziale.

L’urna dove le Camere unite votano il Presidente della Repubblica (Imagoeconomica)

L’attuale formulazione costituzionale del sistema di elezione parlamentare del Presidente della Repubblica mira proprio a garantire che il Capo dello Stato non sia espressione della sola maggioranza di Governo e, pertanto, resti al di fuori della rete istituzionale che determina l’indirizzo politico. Questo si traduce in una posizione di forza del Capo dello Stato, che lo pone di fatto come un punto di intersezione e di equilibrio tra il circuito della decisione politica (corpo elettorale-parlamento-governo) e il circuito delle garanzie (magistratura, corte costituzionale). Leggendo la Costituzione, ben si comprende come questa intersezione sia rappresentata dalle differenti modalità con cui il Capo dello Stato partecipa a ciascuno dei poteri, assicurando una funzione di supremo arbitrato che nei momenti di crisi del sistema consente di ristabilire gli equilibri turbati.

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Per questo aspetto, contrariamente all’opinione comune, l’elezione diretta restringe e non allarga la base di legittimazione del Presidente che, di fatto anche se non di diritto, verrebbe “confinato” nella sfera del potere esecutivo, abbandonato quindi ai traumi e alle incertezze della contingenza politica, con tutto ciò che ne consegue anche sul piano dei poteri e delle responsabilità.

A titolo meramente esemplificativo, noteremo che questa incongruenza emerge chiaramente anche nello scombiccherato disegno di legge costituzionale presentato dal Gruppo di Fratelli d’Italia nella legislatura appena conclusa (A.C. 716) e bocciato dal Parlamento, laddove da un lato si attribuisce al Presidente della Repubblica la responsabilità della direzione della politica generale del Governo (rafforzandone quindi la collocazione al “vertice” del potere esecutivo) ma dall’altro si mantiene pressoché intatta la prerogativa dell’irresponsabilità presidenziale per gli atti del Governo stesso. Si giunge così al paradosso per cui l’eventuale voto di sfiducia delle Camere al Governo in carica, pur contemplato dal testo, non produce alcun effetto sul soggetto titolare del potere di direzione della politica generale del Governo stesso. Non a caso – sia detto per inciso – nell’ordinamento semipresidenziale francese, la responsabilità della direzione del Governo è posta in capo esclusivamente al Primo Ministro.

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Nel quadro istituzionale disegnato dalla Costituzione vigente il Presidente è un soggetto attivo, dotato di poteri estesi e flessibili, fondati su un sistema elettorale che lo svincola dal rapporto tra maggioranza e opposizione, il che giustifica e definisce la misura dell’irresponsabilità presidenziale. Tale posizione, peraltro, si è rivelata in più occasioni particolarmente proficua e incisiva anche nel perseguimento del fine di assicurare la stabilità politica e la continuità dell’azione di governo e, con essa, delle legislature. Una riforma in senso presidenzialista finirebbe per intrappolare il Presidente nel perimetro della sua maggioranza elettorale, esponendolo peraltro a tutte le conseguenze che ne derivano anche sotto il profilo più strettamente politico.

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D’altra parte, è comprensibile che questo ordine di considerazioni rimanga del tutto estraneo a una cultura istituzionale che riduce il complesso problema dell’esercizio democratico del potere all’investitura plebiscitaria del vertice dell’Esecutivo. Si tratta di una banalizzazione del problema della governabilità e non della sua soluzione. La governabilità stessa, come si è detto, non può essere ridotta al tema, pur importante, della continuità dell’azione di governo. Quest’ultima è parte, e neanche prioritaria, del problema della stabilità del sistema, che investe vari profili, tra i quali il ruolo degli organi rappresentativi, a partire dalle Camere (ma è un problema che investe anche i Consigli regionali e provinciali), l’equilibrio tra gli organi di vertice dello Stato nonché tra centro e periferia (questione, sia detto per inciso, che la cosiddetta autonomia differenziata rischia di rendere ancora più difficile, dato il prevedibile corto circuito con l’accentramento politico che l’elezione diretta del Capo dello Stato inevitabilmente comporta), il rapporto tra istituzioni e società e, di conseguenza, il problema della credibilità e autorevolezza della classe politica.

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Non è irragionevole prevedere che l’autunno porterà con sé un aggravio di tutti i problemi accumulatisi in questi anni, che la prosecuzione della guerra in Ucraina e le sue conseguenze sugli equilibri internazionali provocheranno effetti devastanti in termini economici e sociali in tutta l’Unione europea (e non solo), che la ricostruzione di un tessuto sociale e del rapporto tra quest’ultimo e le istituzioni, messa a dura prova da una pandemia spesso ignorata e non domata, possa subire un rallentamento tale da provocare ulteriori e più gravi pregiudizi al funzionamento e all’efficacia di fondamentali istituti sociali, dal sistema sanitario, a quello della formazione, al mercato del lavoro.

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Carlo Smuraglia, il presidente emerito Anpi scomparso lo scorso 30 maggio, durante la campagna per il No al referendum costituzionale del 2016 (Imagoeconomica)

Nessuna di queste questioni può trovare una risposta credibile in una riforma presidenziale della Costituzione, che rischia di aggravare e non di risolvere i problemi, concorrendo a ridisegnare, ma molto probabilmente non a migliorare, il profilo di una istituzione che oggi, grazie all’indiscusso prestigio dei titolari della carica avvicendatisi negli anni, gode della fiducia della stragrande maggioranza dei cittadini.

Anche sul versante istituzionale, le soluzioni neoautoritarie proposte dalla destra rispondono più a una logica elettoralistica di breve respiro che non alle esigenze reali di un Paese che, peraltro, più di una volta, sia pure in extremis, ha saputo fermarsi a riflettere e si è pronunciato contro le misure intese a stravolgere la Costituzione repubblicana. Lo ha fatto in passato, e non è detto che non possa farlo ancora.