Il tono è quello di un affettuoso ma a volte acritico resoconto delle fatiche, del freddo, dei patimenti di migliaia di uomini che l’autore – ci verrebbe da dire – ha il desiderio, se fosse possibile, di nominare uno a uno, tanto il loro sacrificio è stato eccezionale e, a tratti, unico.

Nelle pagine di Caruso – che pecca nel non mettere in chiaro come quella fu una spedizione militare intrinsecamente sbagliata –, quei nomi sconosciuti si cambiano in volti di amici, di compagni di sventura, quasi di parenti, ficcati “nella fornace sovietica dalla sbruffonaggine di Mussolini”, che, tanto cinico quanto miope – prima di tutto militarmente – non comprese o non volle comprendere l’errore di spedire l’esercito regolare e poi gli alpini a fare un’aggressione brutale e ingiustificata, ma anche una guerra per la quale non erano tecnicamente pronti.

A nulla valsero, nel momento in cui i sessantamila del CSIR non erano risultati sufficienti e si cominciava a ventilare l’idea di formare l’ARMIR, i tentativi di dissuasione operati dal generale Messe all’indirizzo del duce, il quale inseguiva il solo obiettivo di sedere al tavolo dei vincitori, sordo a quanti gli raccontavano che i proiettili dei cannoncini italiani scivolavano come saponette sulla solida corazza dei carri armati sovietici, e che già si erano viste “le scarpe dei soldati aprirsi come fiori al contatto con la steppa ghiacciata”.

Tutto ciò non basta; così nell’estate del 1942 l’Armata Italiana in Russia prende forma, compattando in una nuova compagine il vecchio Corpo di Spedizione (lo CSIR con le divisioni Pasubio, Torino, Celere) a cui si aggiungono le divisioni di fanteria Sforzesca, Ravenna e Cosseria, e gli alpini della Tridentina, Julia, Cuneense (corroborate da un raggruppamento d’artiglieria, per formare il quale si è indebolito il fronte africano, due battaglioni del genio, uno di guastatori e una compagnia chimica). Duecentomila anime chiuse, in coda, dalla divisione di fanteria Vicenza. “E qui – scrive Caruso – il regime fascista e l’esercito mostrano il disprezzo più assoluto nei confronti degli italiani. La Vicenza è formata da giovanissimi arruolati con la cartolina precetto e da richiamati ultratrentenni provenienti da ogni arma e da ogni corpo. […] La truppa è psicologicamente impreparata, l’addestramento inesistente, la disciplina e l’inquadramento concetti astratti”. Verrebbe da ridere, se non fosse un disastro, rafforzato da scenette di squallida commedia, come quella avvenuta al campo di Salcano, in provincia di Gorizia, dove ai signori ufficiali viene avanzata l’offerta di acquisto per mille lire di un fucile mitragliatore Beretta con le sue brave pallottole a lire dieci cadauna; che dire? Solo che “un esercito che vende le armi ai propri soldati non ha molti precedenti”.

Il trasporto delle truppe avviene su carri merci e, una volta scesi, si va a piedi, per centinaia di chilometri, o anche mille. Le penne nere arrivano appena in tempo per qualche settimana di stanca durante le qualisi approntano i rifugi, abbattendo più di centomila abeti, e si avviano rapporti di ‘buon vicinato’ con ucraini dai sentimenti antisovietici: “è l’incontro tra due diversi proletariati, uniti dal rispetto per la terra e da una certa fatalistica rassegnazione”.

I soldati scambiano le sigarette Milit, il cognac o le gallette per un corbello di pomodori, un po’ di mele o delle uova. “Quelli della Julia […] s’accorgono che uno dei loro canti più conosciuti – Va l’alpin su l’alte cime… – ha la stessa aria di una canzone cosacca”, ma poi ci si ricorda che gli abitanti del Natisone hanno antiche origini slave e, in qualche modo, ci si sente fratelli. Cosa che invece non avviene tra ucraini e tedeschi; da subito è anzi chiaro che la Wehrmacht non ha nessuna intenzione di collaborare neppure con gli alleati (considerazione evidente fin da quando lo stato maggiore germanico mortifica il Corpo alpino, destinandolo, anziché al Caucaso, alla pianura “dove la sua specificità sparisce e il suo passo abituale è sinonimo di lentezza”).

Comunque, a schieramento ultimato, il fronte italiano sul Don occupa 270 chilometri e tutt’intorno c’è un territorio infinito, dove galleggia la nebbia: molti soldati italiani sentono rinascere una paura ancestrale, quella di “essere inghiottiti, sparire dentro quegli spazi”, forse una premonizione di ciò che sarà.
Gli ultimi giorni dell’anno, compreso san Silvestro, sono impiegati nella difesa del quadrivio di SelenyjJar. Più tardi è la volta di Rossosch, poi di Opyt, Popovka, Novo Postojalovka, Postojalyi. Il ripiegamento si trasforma in una prova di sopravvivenza, tra balke, campi e fiumi ghiacciati. “Gli italiani si aggrappano a una furia che è figlia dell’impotenza”. Si ingurgitano le ultime pastiglie di simpamina (una specie di anfetamina), si registrano i primi casi di impazzimento (qualcuno si spoglia e va a morire nudo nella neve), e per alcuni l’agonia è infernale poiché la morte per dissanguamento si fa attendere, essendo le emorragie bloccate dal gelo. Più di una volta occorrerà appellarsi al senso di un onore che, per fortuna, non ha più niente di fascista ma affonda le radici in un ancestrale amore per la patria: “quando sarà in pericolo, lo stendardo verrà bruciato dopo esser stato baciato da tutti i presenti”. Alfio Caruso punteggia la narrazione con l’inserimento di alcune lettere che i famigliari spediscono dall’Italia, con la speranza di ricevere notizie da un fronte di guerra di cui si sa poco, a causa della reticenza del governo italiano. Non si sa quanto si muore, quanto si sopravvive con gli arti congelati e si è costretti ad amputarsi le gambe per poi strisciare sulle ginocchia avvolte dalla paglia.
Dallo scorso anno nel nostro Paese la data del 26 gennaio, appena un giorno prima del Giorno della Memoria, con voto parlamentare, è diventata la “Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini”.

Non è da parte di Greppi, Filippi e Gobetti un atto d’accusa verso “un corpo militare che, peraltro, ha dato poi alla Resistenza al nazifascismo alcune tra le figure più significative. Nella terribile ritirata, infatti, non pochi soldati dell’Armir maturano una profondissima avversione per i nazisti e per i fascisti italiani che li hanno mandati al macello, e che avrebbe portato alcuni di loro, pochi mesi più tardi, a scegliere di combatterli armi in pugno”.

Caruso si sofferma invece sulle condizioni dei prigionieri italiani in Urss, di cui esistono testimonianze drammatiche, come quella di Enzo Nelli, che racconta del lager in Siberia in cui è condotto per lavorare nelle miniere di carbone, a meno 55 gradi: “Fra noi c’era gente che la notte andava al gabinetto e non tornava più. Venivano uccise a palate. A ogni appello mancavano venti, trenta internati. Capitava che a qualcuno venissero tagliate la gambe e buttate sulla brace per sfamarsi”.

Tra questi due poli – il lento ritorno a casa e la prigionia –, si apre ‘la terra di nessuno’, rappresentata dai dispersi che per anni aleggeranno come un lugubre sogno su tante famiglie italiane, in attesa ancora oggi del ritrovamento di una fossa comune o dell’avvistamento di una piastrina col nome del proprio caro su qualche sito internet o su qualche bancarella polacca. Solo il 5 febbraio 1943 un primo bollettino del Comando supremo del Regio Esercito svela agli italiani la ritirata dal Don, tacendo tuttavia sui morti, i dispersi, i prigionieri, che alla fine di tutto ammonteranno a oltre 104.000. E pure il dopoguerra rovescerà altra sofferenza sui reduci, utilizzati strumentalmente da destra e da sinistra, una volta come testimoni delle nefandezze sovietiche, un’altra come nostalgici sostenitori del fascismo.

Un uso strumentale in ultimo affiorante – lo ribadiamo ancora rifacendoci anche alle parole formulate dalla Società italiana per lo studio della storia contemporanea presieduta da Daniela Luigia Caglioti (e la Società italiana degli storici medievisti, Sismed) – proprio in occasione di questo 26 gennaio 2023: la scelta di tale data come Giornata nazionale dell’Alpino, “oltre a essere contigua alla Giornata della Memoria – come scritto nella lettera che la Sismed assieme a Sissco e Sisem avevano inviato lo scorso aprile ai Presidenti di Senato e Camera –, non si collega all’intera storia e all’impegno anche umanitario del Corpo, bensì ne isola, celebrandola, un’impresa militare – la battaglia di Nikolajewka – condotta all’interno di una guerra di aggressione dell’Italia fascista, per di più in regioni oggi sconvolte da un’altra invasione”.
Perciò, quel che resta infine, a ottant’anni da quei tragici eventi, è una penosa sensazione di freddo, non fisica ma mentale, di funereo silenzio, di vertigine, per un’aggressione militare assurda, sbagliata, atroce, che ha provocato una delle più grandi carneficine della storia: tra soldati e civili, oltre 30 milioni di morti.
Pubblicato giovedì 26 Gennaio 2023
Stampato il 26/09/2023 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/finestre/quellultima-battaglia-da-eroi-nel-disonore/