Don Roberto Sardelli

“Sono passati molti anni da quel lontano 1968, quando scesi nell’inferno dell’Acquedotto Felice e incontrai la vostra esistenza che presto divenne anche la mia. Ricordo il dolore dei genitori per avervi portato in un luogo avvilente, segnato dal trauma della immigrazione forzata. Ricordo la loro dignità e il loro alto senso di giustizia, offesi dal potere politico dominante, in combutta con quello religioso di questa città. Se dimenticassimo quegli anni perderemmo la chiave che allora ci permise di capire e che oggi ci permette di capire la realtà circostante”. Sono le parole di don Roberto Sardelli, il “don Milani di Roma”, rivolte ai suoi antichi allievi, i ragazzi che negli anni 60 vivevano nelle baracche dell’Acquedotto Felice, al quartiere Tuscolano di Roma. Don Roberto Sardelli, sacerdote, maestro e scrittore, si battè per il loro riscatto esistenziale e morale.

Era nato nel 1935 a Pontecorvo, in provincia di Frosinone, nella Bassa Ciociaria. Venne ordinato sacerdote nel 1965, a 30 anni. Durante gli studi filosofici e teologici conobbe don Lorenzo Milani a Barbiana del Mugello e ne condivise i principi pedagogici. Per un lungo periodo soggiornò a Lione in Francia ove approfondì la conoscenza dei preti operai e lo studio del teologo gesuita Teilhard de Chardin. Giunse a Roma nel 1968, nella chiesa di San Policarpo. Lì scoprì che uno dei chierichetti viveva con la famiglia in una baracca senza bagno, senza acqua corrente, senza elettricità. Fu così che conobbe, a pochi passi dalla chiesa, un insediamento nascosto a ridosso dell’acquedotto, volutamente ignorato da tutti.

Nella baraccopoli abitavano 650 famiglie migranti del Sud Italia, lavoratori edili, operai, ex-contadini, giunti dalla Calabria, dal Molise, dall’Abruzzo, dalla Basilicata. In generale quegli immigrati meridionali erano vittime di pregiudizi e scherno: “Dicevano che non ci lavavamo, che non pagavamo le bollette, che non pagavamo le tasse, che eravamo dei parassiti, che avrebbero dovuto mandarci in Africa”. Don Sardelli si informò delle condizioni dei loro figli. Facevano parte delle classi differenziali della scuola pubblica, perchè considerati non adatti alla scuola. Erano perciò condannati ad avere i peggiori insegnanti e i programmi semplificati. Spesso abbandonavano la scuola e cercavano di nascondere la loro vita nelle baracche. “Occorre ricreare dal basso il Cristianesimo e la comunità della Chiesa, avvicinandosi agli ambienti ai quali si si avvicinava il Cristianesimo primitivo e lo stesso Cristo, cioè gli ambienti più disagiati, i poveri, i rifiutati dalla società. Tra i baraccati a Roma credo che non vi sia altra soluzione che fare il prete come lo faccio io”, disse don Sardelli.

Don Sardelli e la scuola 725 (da https://www.taxidrivers.it/1024/rubriche/underground/non-tacere-don-roberto-e-la-scuola-725.html)

Nel 1968, sfidando le critiche dei suoi superiori, acquistò una baracca da una prostituta e si trasferì nel borghetto. Lì volle aprire non una “scuola di pietà, ma una scuola in grado di inserire i ragazzi nel flusso della vita”, in cui il sapere fosse un mezzo per il loro riscatto sociale: la chiamò “Scuola 725”, dal numero della baracca che la ospitava. Per i ragazzi divenne “la scuola del riscatto”. Erano in tanti e presto dovettero trasferirsi in un spazio più grande, la baracca di Natalino, praticamente un tunnel, una grotta buona per coltivare i funghi. Usavano le candele per illuminarla e la stufa a legna per riscaldarsi. Si iniziava alle 15.30 e si andava avanti fino alle 20. Al centro delle attività c’era anche la lettura del giornale, ma in quegli anni gli archi dell’antico acquedotto romano ascoltarono tante parole del mondo: dalle sofferenze del Vietnam a Malcom X, dalla rivolta di Battipaglia e Martin Luther King al Satyagraha del Mahatma Gandhi.

“Portavo il mondo dentro la casa di quei ragazzi per mostrare che la loro condizione non era esclusiva, ma era la condizione del mondo. Mi proposi che in un anno bisognava uscire dalle scuole differenziali. Perciò occorreva prendere coscienza della propria realtà. Questo diviene simbolo di forza. Il povero che non prende coscienza della sua realtà è spacciato”, ricordava don Sardelli. Nell’arco di un anno i ragazzi scrissero una lettera al sindaco di Roma Clelio Darida, per denunciare la loro condizione. In un primo momento le autorità ne furono spaventate. Il sacerdote venne convocato dal cardinale vicario che chiese di non pubblicarla, ma si andò avanti. Era il 1970 e apparve su molti giornali, mostrando che dei ragazzini di età differenti, in un contesto così svantaggiato, potevano rifiutare le disuguaglianze e prendere parola attraverso una elaborazione collettiva, nello spazio pubblico, come atto di richiesta di diritti, di emancipazione, di libertà. Nella lettera si leggeva: “Il luogo dove viviamo è un inferno. L’acqua nessuno può averla in casa, la luce illumina solo un quarto dell’Acquedotto. Dove c’è la scuola si va avanti con il gas. L’umidità ci tiene compagnia per tutto l’inverno. Il caldo soffocante l’estate. I pozzi neri si trovano a pochi metri dalle nostre cosiddette abitazioni, tutto il quartiere viene a scaricare ogni genere di immondizie a cento metri dalle baracche”.

I ragazzi della Scuola 725 scrissero anche il libro Non Tacere, perché il libro di testo della scuola pubblica era estraneo ai bisogni della loro vita. “Per fare questo libro i ragazzi hanno studiato geografia, poetica, hanno consultato il dizionario che deve essere sempre il libro piu maltrattato di questo mondo perchè sfogliato, usato di continuo. È importante che loro dicano ‘Io devo diventare uno scrittore, io devo diventare un poeta, io devo diventare una persona, in grado di riflettere sugli eventi, questo è cultura’. Ricordo che impegnai chi sapeva disegnare, chi sapeva scrivere poesia, chi creava riflessioni originali”, affermò don Sardelli.

Nel volume ci sono anche risultati di una inchiesta fatta nel quartiere, da cui si evince lo stato di discriminazione vissuto dagli abitanti della baraccopoli, relegati alla invisibilità e al silenzio. E don Sardelli, invece, spronava i ragazzi ad accettare la loro realtà per poi riconoscersi come esseri di diritto e acquisire una coscienza critica. Li spronava a non tacere sai per gridare la loro dignità, sia perchè le istituzioni giocavano proprio sul silenzio e su di esso costruivano pregiudizi. In una intervista un ragazzino allievo di don Sardelli disse: “Io vorrei rimanere un povero, ma con una coscienza politica ben precisa. Non voglio rimanere povero nel senso di rimanere senza casa o senza cibo, ma nel senso di rifiutare la vita e le abitudini del ricco”. Finalmente nel 1973 il Comune di Roma ascoltò i baraccati, l’Acquedotto Felice venne sgomberato e la maggior parte delle famiglie fu trasferita alla periferia di Ostia, nei palazzi di edilizia popolare di Nuova Ostia.

Dopo lo sgombero don Sardelli continuò il suo cammino. Collaborò con Paese Sera, l’Unità, Liberazione e con riviste del mondo cattolico. Nel 1982 fondò lo Studio Flamenco, per avvicinarsi al mondo dei Rom attraverso la danza. Dal 1989 al 1998 seguì negli ospedali i malati di Aids. Andava tutti i giorni a Villa Glori, ai Parioli, ad assistere i malati terminali di Aids, una malattia circondata da pregiudizi che riguardava soprattutto omosessuali, trans, prostitute, tossicodipendenti. Raccolse questa esperienza nel libro “Le margherite sono le nuvole del prato” (1998). Oltre alla scrivania per riordinare i suoi appunti, chi lo conosceva bene lo ricorda anche intento a musicare le poesie di Federico García Lorca (le sapeva a memoria), e ad ascoltare il flamenco, studiato in Andalusia e molto amato.

Nel 2018 venne insignito della Laurea honoris causa all’Università degli Studi di Roma Tre. Negli anni ha continuato a stare al fianco dei diseredati, lanciando critiche a quei sacerdoti che se ne stanno chiusi negli antichi palazzi, invece di andare per strada e mettere in pratica l’insegnamento di Gesù. Don Roberto Sardelli é morto il 18 febbraio scorso nella sua città natale, a 84 anni, dopo una lunga malattia, circondato dalle cure amorevoli di coloro che un tempo furono i suoi studenti della Scuola 725 all’Acquedotto Felice, divenuti oggi  maestri, operai e sindacalisti. È stato ricordato alla Casa della Memoria e della Storia di Roma da tanti amici, tra i quali lo storico Sandro Portelli, docente universitario e presidente del Circolo Gianni Bosio. Nell’occasione è stato anche presentato il documentario Non tacere, girato nel 2005 dal regista romano Fabio Grimaldi (sceneggiatura di Manuela Tempesta) e già applaudito alla Festa del Cinema di Roma. Non tacere: riprendersi la parola e la dignità di esseri umani. Questa è l’eredità più grande di un uomo che ha creduto nella parola pronunciata come forma di lotta politica contro le ingiustizie e le disuguaglianze, in una città che ancora oggi, a cinquant’anni di distanza dalla famosa lettera al sindaco, presenta baraccopoli nascoste e disuguaglianze profonde. L’insegnamento di don Sardelli rimane quello: non tacere.

Antonella Rita Roscilli, giornalista e scrittrice