L’ambasciatore Enrico Calamai, negli anni 70, durante la dittatura militare in Argentina era assegnato al consolato italiano e prima si era trovato, in missione, in Cile al tempo del golpe di Pinochet. Allora giovane viceconsole, Calamai riuscì a salvare centinaia di connazionali perseguitati dai regimi militari. Decorato nel 2004 con la massima onorificenza della Repubblica argentina, l’Orden del Libertador General San Martín, lo “Schindler di Buenos Aires” continua a impegnarsi nel proteggere vite umane ed è tra i fondatori del Comitato verità e giustizia per i nuovi desaparecidos. Forte della sua esperienza, è infatti convinto di un fil rouge che unisce le vittime delle camere a gas naziste, degli squadroni della morte in America latina, ai migranti di oggi, “fatti sparire” nei campi libici o “scomparsi” nelle acque del Mediterraneo.
Quando è nato il Comitato per i nuovi desaparecidos?
Abbiamo deciso di fondarlo dopo la strage in mare del 3 ottobre 2013. Ad appena mezzo miglio dalla costa di Lampedusa, all’Isola dei Conigli, morirono 368 migranti. Prese fuoco e naufragò il barcone dove erano stipati in condizioni disumane. Una sorte terribile per persone che, salpate dalla Libia, spesso dopo aver attraversato il deserto, fuggivano da guerra e povertà sperando in una possibilità di vita in Europa. Si tratta forse, ancora oggi, di una delle più gravi catastrofi avvenute nel Mediterraneo. Tra i cadaveri recuperati, bruciati o affogati, c’era anche quello di una giovane donna col suo bambino ancora attaccato al cordone ombelicale. Erano vittime di una tragica routine che si ripeteva da anni e si ripete ancora. Abbiamo capito che né partiti né governi europei avrebbero cambiato atteggiamento, modificando la politica adottata nei confronti degli arrivi e dell’accoglienza. Ma non potevamo restare a guardare, altrimenti, in qualche modo, ci saremmo resi complici di quelle morti. Il Presidente del Comitato è Arturo Salerni, un avvocato che si occupa da decenni di diritti umani.
Da mesi però non si ha notizia di eventi così drammatici.
Nel 2017 si calcola siano morte almeno 3.500 persone nel tentativo di arrivare in Europa, contro le 5.822 dell’anno precedente. Anche il totale degli sbarchi è stimato minore rispetto al 2016. Dunque, prima di tutto, se così fosse, in proporzione le vittime accertate sarebbero di più: una ogni 53 persone sbarcate contro una ogni 68. In realtà, con le politiche di chiusura e respingimento dell’Europa, le rotte dei flussi sono cambiate e non sono meno pericolose. Il confine dove la morte si può osservare, vederla con i nostri occhi, si è semplicemente spostato più lontano.
Ci può fare qualche esempio?
Nulla si sa, per esempio, della sorte dei tanti che, catturati prima dell’imbarco o bloccati in mare e riportati in Africa o nell’immenso bacino del Medio Oriente sono intrappolati in una vera e propria “terra di nessuno”. Sono spazi dove i diritti umani sono sospesi. Somigliano alle trincee e alla funzione a cui erano preposte nella prima guerra mondiale, dovevano separare gli eserciti e, piene di mine anti-uomo e fili spinati, ridurre al minimo la possibilità di attraversarle. Per i migranti, le barriere fisiche sono state rimpiazzate da ostacoli “politici”, creati a tavolino dai governi europei e da ognuno degli Stati membri della Nato, tra cui l’Italia. Va detto che, per le norme del diritto internazionale, gli Stati hanno l’obbligo di tutelare le frontiere, hanno il dovere di controllare chi arriva nel proprio territorio, hanno facoltà di stipulare accordi con qualunque altro Stato. Sia chiaro però, rispettando alcuni principi umanitari. Invece nel caso delle migrazioni sono state elaborate misure pattizie, cioè di intesa; commissive, cioè di controllo come il pattugliamento, e anche omissive, come il rifiutare il soccorso a chi fa naufragio, nonostante il diritto internazionale obblighi il soccorso alle vittime di affondamento. È una strategia eliminazionista che nella storia moderna è stata reiterata molte volte, a cominciare dal nazismo.
Un paragone forte…
Ma reale. Siamo di fronte a un preciso disegno politico che ha una data di inizio. E come nel nazismo è dettato da un’ideologia, nel caso dei migranti il neoliberismo. Cominciò nei primi anni del 2000, quando Nato ed Unione europea elencarono le minacce capaci di destabilizzare i Paesi membri e perciò da sventare: tra queste, la cyberwar, la sottrazione delle risorse energetiche, la proliferazione nucleare, il terrorismo e i flussi incontrollati di persone provenienti anche da Paesi in guerra. Nel 1942, la soluzione finale del nazismo fu una strategia di annientamento messa in atto nei confronti degli ebrei. Allora si mirava alla loro cancellazione totale, oggi si tratta di ridurre drasticamente il numero degli arrivi di migranti e richiedenti asilo. Ecco, ci sono precise responsabilità sia politiche sia individuali e noi stiamo cercando di trovare un percorso politico-giudiziario che permetta di arrivare a una nuova Norimberga, un processo penale a livello nazionale, europeo e internazionale nei confronti di chi ha formulato e formula queste politiche.
A Norimberga i gerarchi nazisti dovettero rispondere di crimini contro l’umanità. Ci sono oggi i presupposti giuridici?
Nel 1942, Churchill, informato della pianificazione e attuazione, segretissima, della “soluzione finale disse: “It’s a crime without name”, è un crimine senza nome. Fu poi l’Onu a codificare il reato il più grave tra i crimini di lesa umanità: il genocidio, cioè “gli atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”. Quel nuovo tipo di reato era stato formulato per la prima volta nel 1944 da Raphael Lemkin, giurista polacco di origine ebraica, studioso dello sterminio armeno, per poter definire la Shoah. Oggi c’è un interesse della comunità internazionale a non “inflazionarlo”, per non svilirlo. Il genocidio inoltre si riferisce a un popolo e i migranti non sono un unico popolo, sono congolesi, palestinesi, siriani, eritrei ecc. Il giurista Luigi Ferrajoli ha però individuato una definizione, nuova e molto calzante, dei migranti: sono un popolo, composto da persone accomunate dal percorso migratorio.
E i responsabili potrebbero essere condannati?
Stiamo lavorando e non nascondiamo le difficoltà. L’obiettivo è porre fine alla strage. Gli Stati non possono essere chiamati a rispondere davanti alla Corte penale internazionale, la responsabilità è personale, è di chi materialmente preme un grilletto, per capirci. C’è un vuoto nel sistema di norme. Si tratta, in parole tecniche, di de iure condendo, cioè di arrivare a formulare un nuovo tipo di reato, un nuovo crimine di lesa umanità, e la possibilità di perseguirlo. Con il Comitato per i nuovi desaparecisos vorremmo intanto responsabilizzare gli esponenti dei governi coinvolti. Cioè, se un ministro o un capo di Stato avesse la consapevolezza di dover in futuro rispondere delle sue azioni c’è la speranza di un cambio di azione. Il modello è la Corte penale internazionale dell’Aja e la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. Potrebbe esserci anche una sorta di procura in Italia, c’è già un precedente: lo scorso ottobre, la Corte di assise di Milano ha condannato all’ergastolo un cittadino somalo per le atrocità, accertate, commesse in Libia nei “campi di raccolta” dei migranti a Bani Walid e Sabrata. È un pronunciamento importante perché ha documentato la situazione di quei campi e, di conseguenza, stabilisce che il Governo italiano non può rimandare profughi, rifugiati e migranti in Libia, perché in quei luoghi la dignità umana e la sopravvivenza fisica è a rischio. Le norme internazionali garantiscono il diritto alla vita. Quindi l’Italia, per rispettare la sentenza, può limitare gli accessi ma non effettuare i respingimenti e rimandare i migranti in Libia, in veri e propri lager.
Eppure in tutto il mondo si chiedono limiti “severi” all’immigrazione.
Per questo il Comitato fa anche informazione e azione culturale attraverso il sito http://nuovidesaparecidos.net/. I cittadini sono vittime di una paura creata a tavolino. In un contesto di forte riduzione della spesa pubblica destinata al welfare, perché il modello neoliberista è alle corde, si cavalca la paura del migrante e si innesca una guerra tra poveri. Siamo convinti, tuttavia, che l’opinione pubblica, se sensibilizzata, sia ancora capace di indignarsi e di reagire. È questa la ragione per cui i governi vogliono allontanare dai cittadini la vista della morte dei migranti, e lo fanno esternalizzando, affidando a Paesi terzi, il più lontano possibile, i punti di respingimento e le frontiere reali. È lo scopo degli accordi avviati con i cosiddetti Processo di Rabat e Processo di Khartoum tra l’UE, con la Svizzera e la Norvegia, e 28 Paesi africani, tra i quali Egitto, Eritrea, Etiopia, Gibuti, Kenya, Libia, Somalia, Sudan, Sud Sudan, Tunisia e Algeria. Gli accordi multilaterali prevedono il finanziamento dei Paesi africani, sostenendo le loro forze armate e la polizia, fornendo mezzi informatici affinché fermino i flussi. Anche l’accordo con la Turchia ha lo stesso fine. L’opinione pubblica avrebbe un sussulto di umanità se potesse confrontarsi con gli orrori che avvengono nel deserto o in ciascuna di quelle terre di nessuno. Ricordiamo quando, in passato, protestò e fermò la guerra in Vietnam, e uno staterello minuscolo vinse sul gigante statunitense, e pure quando, di recente, è stata turbata dalla foto del corpicino del bambino siriano, Aylan Kurdi, che per scappare alla guerra è morto sulla spiaggia turca.
Il nome del Comitato rievoca espressamente i desaparecidos, è per l’esperienza acquisita dall’ambasciatore Calamai in America latina?
I migranti sono i nuovi desaparecidos perché sono esclusi dal circuito della comunicazione mediatica. Anche per questo aspetto va dapprima menzionato l’esempio storico della Germania nazista. I tedeschi residenti nei paesini intorno ai campi di sterminio hanno potuto affermare, perché era tutto top secret, di non sapere che dietro le SS con i cani lupi c’erano i lager e negli inceneritori si bruciavano uomini. Pure la strategia eliminazionista attuata dal regime militare in Argentina negli anni 70 tenne conto della reazione dell’opinione pubblica. C’era stato il golpe in Cile, con il bombardamento della Moneda, la gente chiusa negli stadi, i carri armati nelle strade, le ambasciate piene di rifugiati. Era stata una scelta di esibizione e arroganza nell’uso della forza mirata a bloccare sul nascere qualunque tentativo di resistenza. Efficace, certo, ma si era rivelata un boomerang: le immagini riportate dalle tv di tutto il mondo avevano colpito profondamente l’opinione pubblica occidentale, che condannò all’ostracismo Pinochet, relegandolo all’isolamento come un vescovo lebbroso nel medio evo. Il regime militare di Videla fece tesoro della lezione e inventò la strategia della desaparición. Buenos Aires era una città normalissima, la gente andava al cinema e al ristorante, non si vedevano mezzi blindati. Tutto avveniva di notte. Paramilitari agivano in borghese, con macchine e camion senza targa, entravano nelle case e sequestravano i giovani oppositori. Che poi sparivano nel nulla. Fin dall’antichità, ricordiamo la tragedia “Antigone”, il corpo del nemico è consegnato ai familiari per consentire il rito funebre ed elaborare il lutto. La strategia militare videlista si fondava sull’esatto contrario, sulla sparizione dei corpi. Perché si sapeva che i militari praticavano torture sugli oppositori politici arrestati, tuttavia si pensava che in seguito sarebbero stati rilasciati o ammazzati. E, se non venivano liberati ma non si trovavano cadaveri, significava che erano vivi. Infatti, dal 1976 al 1979 le madri non concepirono assolutamente la possibilità che i figli fossero stati uccisi e continuarono a cercarli fino a quando Giovanni Paolo II le invitò a rassegnarsi: “pregate per loro, sono tutti morti”. In un sistema iconografico come il nostro, ciò che non si vede non esiste, neppure la morte. Lo stesso fenomeno si sta ripetendo con i migranti con una politica eliminazionista attuata nel cono d’ombra del sistema mediatico, internet compreso. Bisogna dunque sensibilizzare le persone, bucare il muro di gomma dell’indifferenza mediatica.
Negli anni 70, Calamai era viceconsole e riuscì a salvare moltissime persone, come si accorse di quanto stava accadendo?
In una Buenos Aires apparentemente normale, allora di 8 milioni di abitanti, vidi arrivare nel mio ufficio, dai più disparati quartieri della periferia, persone che raccontavano la stessa storia: perquisizioni nella notte, appartamenti frugati, persone in borghese che portavano via denaro e addirittura i frigoriferi. Era un saccheggio. Arrestavano i giovani impegnati in politica o nel sindacato e quando il giorno dopo le famiglie li andavano a cercare nei commissariati, nessuno sapeva nulla. Inutile anche assumere un avvocato, perché a loro volta erano “spariti” oppure rifiutavano gli incarichi. Cominciai così a dare un nuovo passaporto ai ragazzi di origine italiana che cercavano aiuto in consolato e trovai il modo per farli partire. Non mi sono limitato ad aiutare gli originari del mio Paese, l’ho fatto con chiunque ho potuto. Era una situazione di emergenza umanitaria e avevo gli strumenti per salvare quelle vite. Non dimentichiamo che tra i Paesi latino americani c’era il Plan Condor, un accordo che permetteva l’arresto dei propri cittadini in altri Paesi. Così, per esempio, i militari argentini operavano in Cile o in Uruguay, Paraguay, Brasile, sempre per far sì che nei rispettivi Stati tutto sembrasse assolutamente normale. Il Plan Condor e la desaparición erano concezioni di grande modernità. Per fare un confronto, basti pensare alla reazione italiana per la violazione della sovranità nazionale da parte della gendarmeria francese a Bardonecchia. E la costruzione del sistema interstatuale messo in piedi per i migranti, con i processi di Rabat e Karthoum, per certi aspetti è sinistramente simile alla struttura realizzata del Cono Sur: la polizia sudanese blocca i migranti eritrei, i poliziotti della Guinea quelli del Niger e così via.
Sull’esperienza argentina ha scritto anche un libro, “Niente asilo politico”.
Nel maggio ’77 fui richiamato a Roma e cinque anni dopo sono stato nominato console in Nepal e in Afghanistan, prima di essere collocato a riposo. Le vicende latinoamericane andavano raccontate. Purtroppo in quegli anni ho visto anche la verità sull’agire del mio Paese, che ritenevo democratico, rispettoso del diritto, indipendente, capace di etica politica. Invece ho assistito alla complicità con quanto stava accadendo, il desiderio di evitare a tutti i costi che si mettessero in discussione quelle atrocità, si mantenesse il segreto. Con la vicenda dei migranti ho rivissuto tutto questo.
Che possono fare i cittadini rispetto alla situazione attuale dei flussi migratori?
Contribuire a costruire delle reti di collaborazione per allargare l’orizzonte dell’opinione pubblica, come auspichiamo di poter fare con l’Anpi. Viviamo ancora in un sistema democratico e le decisioni dei governi sono vincolate alle decisioni dei cittadini e cioè a ciascuno di noi. A nostra volta, in quanto cittadini, siamo responsabili di quanto fanno i governi che ci rappresentano e dobbiamo spingerli ad agire nell’ambito della legalità, nazionale e internazionale, secondo un’etica politica. Con i nuovi accordi internazionali le polizie non esaminano più ogni caso e il respingimento di massa è contrario a quanto è sancito nella carta fondamentale italiana: l’art 10 della Costituzione, sul diritto d’asilo, è divenuto carta straccia. Inoltre, rispetto ai flussi migratori attuali, l’antica distinzione tra rifugiati per motivi politici, profughi delle guerre e migranti delle povertà è superata. Sia le guerre in Medio Oriente e in Africa sia la corsa all’accaparramento delle risorse naturali ed energetiche di quei territori stanno generando un esodo epocale. Siamo come quei malandrini, volontari della protezione civile, che spegnevano incendi da loro stessi appiccati. E le norme internazionali sulla sovranità degli Stati non possono spingersi fino a privare una persona del diritto alla vita. Nell’Europa che voleva la pace e ricostruiva dalle macerie della guerra, i Padri costituenti lo sapevano bene.
La foto di copertina è tratta da http://www.wereporter.it/naufragio-migranti-morti-e-dispersi/
Pubblicato lunedì 16 Aprile 2018
Stampato il 16/10/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/idee/copertine/i-nuovi-desaparecidos/