A dispetto del nome via Cupa, budello d’asfalto di Roma, tra la stazione Tiburtina e il Cimitero monumentale del Verano, a un passo dall’Università la Sapienza, è una strada dove la vita resiste e prova a sorridere. Una fila di tende da campeggio e un gazebo stanno addossati contro il muro di uno stabile vuoto e sigillato: il centro Baobab, dove tutto cominciò poco più di un anno fa.
Nelle canadesi hanno riparo una cinquantina di migranti, in maggioranza giovanissimi; dal chiosco si distribuiscono piatti di pasta e verdure, l’acqua è distribuita con le taniche.
«Siamo Baobab Experience, semplici cittadini con un progetto di partecipazione dal basso a sostegno di chi fugge da guerre, dittature e povertà, nel solco dell’esperienza avviata la scorsa primavera-estate», spiega Roberto Viviani, giovane ingegnere informatico, che per l’associazione segue i rapporti con gli enti locali e statali. Fino a poche settimane fa mancavano i servizi igienici.
Poi dei privati benefattori hanno permesso l’acquisto di quattro toilette chimiche. «Non è stato facile ottenere l’autorizzazione per installarle – precisa Viviani –: l’unico “aiuto” delle istituzioni pubbliche».
Giovanni, 74 anni ben portati, fa la spola col motorino per le necessità dell’ultim’ora. Sandra, italoaustraliana, organizza i turni per le cucine: «È tutto preparato in casa con gli alimenti offerti dalla cittadinanza, serviamo in media 300 pasti al giorno perché si rivolgono a noi anche da altri centri». I menù tengono conto dei diversi precetti religiosi: «I nostri ospiti provengono per la maggior parte dall’Eritrea, l’Etiopia, il Sudan. Non chiediamo a quale fede appartengano», mette in chiaro Rosaria, bibliotecaria in pensione. Giulia, studentessa di architettura, e Lara, shorts e tatuaggi sulle braccia, confermano.
Può sorprendere questa realtà, ma per chi vive a Roma, la parola Baobab racconta una storia precisa. Di solidarietà e accoglienza generosa e intelligente, nel rispetto dei diritti. Spontanea, auto-organizzata e auto-finanziata dalla società civile. L’anno passato mostrò una metropoli a distanza siderale da quella che promuoveva proteste anti-immigrati, con violenze e scontri di piazza.
Quando in Europa si alzavano muri e reticolati, nei giorni della tensione a Bolzano e a Ventimiglia, degli accampamenti alla stazione Centrale di Milano, nella struttura di via Cupa, ora sbarrata, i volontari di Baobab Experience riuscirono a far mangiare e curare, far lavare, vestire e dormire quasi 30.000 migranti diretti verso il nord del continente. «Tra giugno e settembre 2015, durante l’emergenza umanitaria, ospitammo fino a 800 persone alla volta. Abbiamo colmato un vuoto delle istituzioni. Non c’erano più posti nei centri ufficiali», dice Andrea Costa, artigiano restauratore delle vetrate a piombo delle chiese, coordina chi mette il proprio tempo libero a disposizione del presidio: un instancabile nucleo operativo di una cinquantina di attivisti. Nei momenti di crisi possono arrivare a duecento.
Giovanni e Rosaria furono tra i primi a presentarsi al Baobab, l’estate scorsa, quando il flusso di migranti divenne incontenibile e mandò in tilt il sistema dei centri di accoglienza di una città già dolente e di fatto già commissariata. La ex-bibliotecaria rammenta: «Serviva tutto, medicine, cibo, scarpe, sapone. Da un passaparola seppi della raccolta; ho lasciato la busta e chiesto: serve una mano? Sono ancora qui». Reagì anche Roberto. In quei giorni rifletteva su un possibile master in cooperazione, in Africa. «Alla tv vidi la polizia che a colpi di manganello cacciava dai portoni dei palazzi decine di migranti eritrei. Non credevo potesse succedere in un Paese democratico, a meno di un chilometro da casa mia. Venni a sapere di via Cupa, andai lì».
Allora i volontari non lo sapevano, il luogo non era casuale. Il tom tom con i telefonini, l’unico indispensabile bagaglio dei migranti, indirizzava verso punti di riferimento indicati dalle famiglie in madrepatria e da amici. E porta ancora dove, fino allo scorso dicembre, c’era il Baobab, centro polifunzionale e d’accoglienza in parziale convenzione col Campidoglio, gestito autonomamente da eritrei. Per questo chi proviene dal Corno d’Africa si dirige a via Cupa n° 5. «I giovani eritrei fuggono dal servizio militare a vita; in Etiopia ci sono minoranze perseguitate», spiega Giovanni. Il desiderio di sostenere quei profughi arriva da una memoria di famiglia: da ragazzino trovò in un cassetto fotografie dell’occupazione fascista. Il padre, alto ufficiale del Comando centrale, aveva documentato i crimini di guerra italiani: «Ai prigionieri era riservato lo stesso trattamento delle popolazioni, gettavamo il gas nervino, poi con il fucile le nostre “gloriose” brigate nere li buttavano giù come birilli, perché l’iprite paralizza: avevo le foto del prima e del dopo».
Tra i tratti inediti dell’accoglienza che ha sempre contraddistinto i Baobab Experience, c’è l’attenzione al morale di chi è sopravvissuto al deserto africano, sostato mesi in Libia e attraversato il mare sui barconi. A via Cupa si continuano a offrire attività sportive e didattiche. Si organizzano visite turistiche guidate. Attivisti, operatori e utenti di un Centro diurno psichiatrico accompagnano i migranti nel centro storico, al Colosseo, al Circo Massimo, Fontana di Trevi. Le partite degli Europei di calcio, vengono seguite da volontari e ospiti insieme sugli schermi televisivi di un bar amico.
Al contempo però, ci si prepara a fronteggiare le imminenti, annunciate, ondate migratorie. «Non abbiamo mai abbandonato via Cupa, neppure in inverno», afferma con una punta di orgoglio Barbara, distintissima signora di mezza età.
Una clinica mobile di Medu, Medici per i Diritti Umani, fornisce assistenza sanitaria; Medici Senza Frontiere quella psicologica; A Buon Diritto e il CIR, Centro italiano per i rifugiati, danno assistenza legale; a Save the Children vengono affidati donne incinta e minori. Miriam, giovane francese, insegnante nelle scuole italiane, è al telefono: «Al momento ci sono 8 minorenni etiopi, tutti arrivati dalla Libia, a cui bisogna trovare una sistemazione e Save ha appena 25 posti in totale». Il numero di adolescenti è in forte aumento: «L’incremento è del 150%, soprattutto tra gli eritrei – dicono Niccolò e Francesco. Laurea in giurisprudenza, master in diritti umani, praticanti avvocati, accompagnano i richiedenti asilo all’Ufficio Immigrazione della Questura, ce n’è uno solo nella capitale. Per avviare la procedura, bisogna prendere appuntamento e, per riuscirvi, alzarsi alle 5 di mattina.
Nelle ultime settimane si sono dovute montare 14 nuove tende nel piazzale del Verano, ma gli attivisti sono stati fatti sgomberare. La tendopoli ha licenza, o per meglio dire, tolleranza unicamente in quella stretta lingua stradale. «In soli due giorni, in Sicilia, sono sbarcati in oltre 5.000. Gli hotspot sono al collasso e riescono a identificare solo il 60% dei migranti, ci dicono le ong sul campo. Hanno lanciato un appello comune. Nessuno provvede. Perché le istituzioni si rifiutano di ascoltare gli allarmi degli esperti del settore?», si chiede Viviani.
L’esperienza unica del Baobab nel sostenere il percorso di profughi e migranti venne accostata dai mass media internazionali a quella di Lampedusa e Lesbo. Il coordinatore artigiano Andrea Costa fu contattato da Bruxelles con la richiesta di poter svolgere al Baobab una riunione dell’EASO, l’Agenzia europea per il diritto all’Asilo. Qualche giorno fa il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, e l’ex ministro greco Yianis Varoufakis si sono incontrati nel luogo simbolo dell’accoglienza capitolina, ormai on the road.
A dicembre l’Amministrazione cittadina, dopo lo scandalo di Mafia capitale e la sospensione dei contratti anche con cooperative non coinvolte nell’inchiesta giudiziaria, decise la chiusura di via Cupa e la restituzione dello stabile ai proprietari. Con l’impegno di trovare una “soluzione positiva” per il Baobab. Ad aprile i volontari “sfrattati” hanno provato a occupare un ex centro ittiogenico abbandonato. Lo sgombero è stato immediato, per ragioni di ordine pubblico. Il programma degli attivisti prevedeva il restauro rigorosamente autofinanziato dei locali e la realizzazione di un nuovo luogo di accoglienza. Con tanto di museo delle migrazioni.
«Mia madre è istriana, originaria di una località vicino Pola – racconta Sandra –. Nel secondo dopoguerra, tutta la famiglia venne sfollata in Puglia. Erano quasi tutte donne, sorelle e cugine, poi scelsero di emigrare in Australia, lì stazionarono per mesi in un campo profughi». A Melbourne c’è un museo dei rifugiati con le foto dei parenti di Sandra. «Fino a poco tempo fa, non si sapeva nulla dei risvolti della seconda guerra mondiale – spiega –. L’Australia sta vivendo molto negativamente la vicenda immigrazione e la memoria può aiutare a far conoscere e capire. Mia madre aveva nostalgia della sua terra, ha pianto per due anni ogni sera, mi diceva. Per i suoi 90 anni, sono riuscita ad accompagnarla in Istria. Era felice come una bambina».
Pubblicato mercoledì 6 Luglio 2016
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