Carla Nespolo e Maurizio Landini

Il Primo maggio cade tra il 25 aprile e il 2 giugno. Detta così sembra una banalità, ma in realtà la storia ha regalato all’Italia un calendario civile straordinario. Perché se il 25 aprile è il giorno della vittoria sul nazifascismo e della Liberazione e il 2 giugno è il giorno della nascita della Repubblica che da quella Liberazione deriva, il Primo maggio fa un po’ da collante tra queste due date, perché è la festa delle lavoratrici e dei lavoratori che alla Resistenza hanno dato un contributo fondamentale per dar vita a una Repubblica fondata sul lavoro.

In questo senso, oltre che una festa che ricorda una storia di lotte e conquiste che tracciano la strada per il futuro per tutti i lavoratori del mondo, nel nostro Paese il Primo maggio è un paradigma di libertà.

Negli anni del Regno d’Italia non venne mai riconosciuto ufficialmente ma venne praticato dal movimento operaio e dalle sue organizzazioni per conquistare la giornata lavorativa di otto ore – quando se ne lavoravano 10, 12 o persino più – e con quella conquista affermare la propria autonomia dal capitale, il diritto di coalizzarsi e, più in generale, una visione del mondo basata sulla centralità del lavoro, sul rispetto delle persone, sui diritti sociali e su una più equa distribuzione della ricchezza. Antichi quanto fondamentali, questi obiettivi sono tuttora validi perché sappiamo che nel nostro mondo niente è conquistato per sempre.

In quegli anni, tra fine 800 e inizio 900, milioni di persone che vivevano del proprio lavoro ad ogni Primo maggio si fermavano, mettevano il vestito della festa, sfilavano in corteo, manifestavano la propria opinione, parlavano al Paese di giustizia sociale, solidarietà e libertà. A volte tollerati, altre volte repressi, sempre dovevano conquistarsi quella giornata di festa e lotta.

Poi il fascismo cancellò ogni possibilità e non casualmente uno dei suoi primi provvedimenti fu mettere fuorilegge il Primo maggio con un decreto legislativo, nell’aprile del 1923, dopo che negli anni precedenti aveva assaltato e bruciato decine di Camere del lavoro, sedi di giornali e partiti di sinistra, ucciso centinaia di persone, terrorizzato il Paese. Il Primo maggio venne sostituito con il “natale di Roma”, per cancellarne persino la memoria, in un clima di repressione che costrinse in galera, al confino, in esilio migliaia di lavoratori e sindacalisti. Eppure, nonostante le “leggi fascistissime”, la polizia segreta e il Tribunale speciale, il Primo maggio continuò a essere ricordato e celebrato in silenzio e in clandestinità, anche nel nostro Paese, nelle case, nelle cascine, nelle fabbriche, a piccoli gruppi per mantenere viva la memoria e la storia.

Solo con la Liberazione e con la Repubblica “fondata sul lavoro”, il Primo maggio diventa davvero libero di essere ciò che è, la festa di chi per vivere deve lavorare. Ed essere riconosciuto a pieno titolo, anche ufficialmente, come una data di riferimento per tutto il Paese.

È la storia di questi anni, quando abbiamo potuto manifestare liberamente anche per chi nel mondo – e non sono pochi – non può farlo.

Oggi, dentro una crisi terribile e inaspettata la festa del Primo maggio ci serve per ribadire che il lavoro va rispettato ed è la principale risorsa per ricostruire il Paese. “Lavoro in sicurezza per costruire il futuro” è lo slogan che Cgil, Cisl e Uil hanno scelto per questo Primo maggio 2020. Alle spalle abbiamo settimane durissime in cui è stato il lavoro di tante e tanti a fronteggiare il coronavirus – negli ospedali, nei supermercati, sui mezzi di trasporto, nei campi, nelle attività “essenziali” – facendosi carico della vita di tutti. Da questo dobbiamo ripartire, esattamente con lo spirito del Primo maggio, paradigma comune di libertà.

Maurizio Landini, segretario generale Cgil