“Nelle lotte fra capitale e lavoro, non è sufficiente avere ragione, bisogna saperlo dimostrare”. Così scriveva nell’esilio francese durante il ventennio fascista Bruno Buozzi, socialista e leader sindacale riformista.
Buozzi nasce a Pontelagoscuro il 31 gennaio 1881. Costretto a lasciare presto la scuola dopo le elementari, da ragazzo fa il meccanico aggiustatore. Si trasferisce successivamente a Milano dove trova lavoro come operaio metallurgico prima alle Officine Marelli, poi alla Bianchi. Il 1905 è un anno di svolta per la sua vita: aderisce al Psi e si iscrive al sindacato, la Fiom, militando fra i riformisti che hanno come punto di riferimento Filippo Turati al quale rimane sempre molto legato. Autodidatta tenace, rimane fedele per tutta la vita alla cultura riformista, avversando massimalismo e demagogia. A soli 28 anni diventa nel 1909 segretario della Fiom.
Nel 1917, durante la prima guerra mondiale, la Fiom, oltrepassati i 100 mila iscritti, con la CGdL vara un programma per la pace e per il dopoguerra che fra l’altro prevede il voto alle donne.
Nel 1920 Bruno Buozzi deve fronteggiare il “biennio rosso” con l’occupazione delle fabbriche. Ancora una volta il leader della Fiom punta ai risultati ma al tempo stesso, dopo la grande affermazione elettorale del Psi nel 1919 si rende conto che è possibile una svolta sia politica che sociale. Occorre però unità e la decisione di puntare al governo. Non è così in quanto il partito socialista non è capace di proporsi come forza di governo e, come commenterà anni dopo: “quella che fu l’ora del fascismo poteva essere invece, con una buona dose di audacia, l’ora del socialismo”.
Nel 1922 Mussolini prende il potere diventando presidente del Consiglio. Fra i pochissimi sindacalisti che corteggia c’è Bruno Buozzi, il quale rifiuta ogni coinvolgimento con il nuovo regime. Il fascismo si impone e Buozzi ne conosce anche la violenza e subisce minacce di morte. Muore Giacomo Matteotti e la dittatura avanza. Buozzi diventa l’ultimo segretario della CGdL nel 1926, ma quando ormai il sindacato è ridotto al lumicino. Le leggi “fascistissime” danno il colpo di grazia finale, Buozzi che è a Zurigo non rientra in Italia. Preferisce l’esilio trasferendosi a Parigi. Nella capitale francese ricostituisce la CGdL in esilio e si oppone al tentativo di altri dirigenti sindacali come Ludovico D’Aragona, Rinaldo Rigola e Giuseppe Colombino che vengono a patti con Mussolini e sciolgono in Italia la CGdL. Buozzi la farà risorgere a Parigi.
Gli anni dell’esilio parigino sono duri per i fuoriusciti come Buozzi che partecipa al superamento delle divisioni e polemiche fra le varie anime del socialismo italiano e riesce con Giuseppe Di Vittorio a riunificare anche i tronconi, socialista e comunista, nella CGdL.
In casa sua, nel 1932 si spegne Filippo Turati, Buozzi lo ricorda così sulle pagine de L’operaio italiano: “Filippo Turati più che un capo politico deve essere considerato un altissimo maestro di vita e di morale. Grande cuore, non sapeva odiare. Contro lo stesso fascismo più che odio nutriva ripugnanza e disprezzo. Amava i giovani e in esilio era costantemente preoccupato che il movimento antifascista non ne avesse abbastanza”.
Come Giuseppe Saragat, Pietro Nenni e altri esuli antifascisti Buozzi viene arrestato dai tedeschi occupanti Parigi, richiuso nel carcere della Santè dove ritrova Di Vittorio, trasferito in Germania e di qui, in Italia dove finisce al confino a Montefalco in provincia di Perugia. Dopo la defenestrazione di Mussolini, nel 1943, viene liberato e il suo primo gesto con Sandro Pertini è quello di ottenere la liberazione di tutti i confinati dal fascismo. Dal governo Badoglio viene insediato al vertice della organizzazione dei lavoratori dell’industria affiancato dal comunista Giovanni Roveda e dal democristiano Gioacchino Quarello. Accetta ma rivendica piena autonomia dal governo. E dopo gli scioperi avvenuti a Torino è Buozzi a siglare il primo accordo con la Confindustria che ricostituisce le Commissioni interne democraticamente elette e che passerà alla storia come l’accordo Buozzi-Mazzini.
Attivo nel tentativo di contrastare l’ingresso dei tedeschi a Roma (a Porta San Paolo) Buozzi entra in clandestinità durante l’occupazione della Capitale col falso nome di Mario Alberti. In quel periodo è già in corso un confronto fra lui, Giuseppe Di Vittorio, Achille Grandi e gli altri dirigenti sindacali antifascisti per ricostituire un sindacato unitario nel dopoguerra. Buozzi si batte affinché il sindacato che nascerà sia rappresentativo di tutti i lavoratori coinvolgendo anche i cattolici.
In secondo luogo, Buozzi vuole che nella denominazione del nuovo sindacato unitario entri la parola “italiana” per marcare l’impegno dei lavoratori nel riconquistare libertà e democrazia. E sarà questa la linea che Di Vittorio e gli altri sindacalisti terranno nella Costituente per la Repubblica indicando con forza il ruolo nazionale dei lavoratori e del sindacato.
Diversi esponenti antifascisti in quel periodo sono nascosti nel Seminario Lateranense che gode della extraterritorialità vaticana. Nenni e altri esponenti antifascisti ritengono che anche Buozzi sia più al sicuro fra le mura del Seminario, dove i nazisti non osano fare irruzione, pur essendo vicino il famigerato carcere di Via Tasso con i suoi interrogatori e le sue torture. Buozzi preferisce restare in Prati, poi si trasferisce ai Parioli, infine a Trastevere dove sarà arrestato. È una vicenda oscura e mai chiarita del tutto con il coinvolgimento di figure che si sono rivelate poi delle spie e dei criminali nazisti del calibro di Eric Priebke. Fallisce anche il tentativo di liberarlo e i tedeschi in fuga da Roma lo caricano su un camion con altri tredici prigionieri e lo trucidano presso la Storta, località vicina a Roma. Sono gli Alleati a individuare il luogo della brutale esecuzione. L’11 giugno 1944 si svolgono i funerali nella Chiesa del Gesù. Buozzi non può ultimare il suo impegno appassionato per definire il Patto di Roma che firmano Giuseppe Di Vittorio, Emilio Canevari e Achille Grandi.
“La notizia dell’assassinio di Bruno Buozzi – scrive l’Avanti del 7 giugno 1944 – si è abbattuta su di noi come una folgore. Nato dal popolo, operaio nei primi anni della giovinezza, si distinse subito per le doti eccezionali di intelligenza, di facilità di assimilazione, di comprensione dei problemi che interessavano specialmente gli operai dell’industria. Era uomo di vasta preparazione economica e sociale conquistata con volontà e per desiderio irrefrenabile di sapere. Abbiamo trepidato per lui, abbiamo sperato sempre; abbiamo tentato ogni strada, studiato ogni mezzo per strapparlo ai suoi aguzzini. Proprio quando la speranza ci sorrideva più viva, i carnefici nella fuga disperata l’hanno portato via, caricato sopra un autocarro con le mani legate dietro la schiena come un delinquente qualsiasi. Poi la vendetta, la brutale barbara vendetta; un colpo di rivoltella per uccidere con lui le speranze e l’attesa della classe lavoratrice italiana (…)”.
Un anno dopo l’assassinio di Buozzi, Giuseppe di Vittorio lo ricorderà così: “Bruno Buozzi è stato uno dei dirigenti sindacali fra i più amati dal proletariato, perché egli fu il tipo più completo dell’organizzatore che abbia prodotto il movimento operaio o italiano. Operaio, egli ha amato gli operai e ne ha servito la causa con passione ardente, temperato da un senso elevato ed impareggiabile di equilibrio”.
Achille Grandi dal canto suo, come riferì un altro dei dirigenti sindacali cristiani dell’epoca, Giuseppe Rapelli, era convinto che “con il socialista Buozzi l’unità sindacale non avrebbe corso alcun pericolo”.
Giorgio Benvenuto, presidente della Fondazione Bruno Buozzi
Pubblicato giovedì 13 Giugno 2019
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