Questo ennesimo annus horribilis vorremmo tutte e tutti finisse in questo 25 novembre, Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne; una giornata simbolica che, come gli altri simboli — le panchine e le scarpe rosse — hanno fatto e fanno testimonianza delle denunce e delle lotte delle donne contro la violenza di genere, contro i femminicidi e per la libertà di essere donne sempre, giovani o anziane, bambine o mamme, lavoratrici, professioniste o casalinghe.

Sappiamo purtroppo che ancora non sarà così perché a dircelo sono i centodue femminicidi di quest’anno che non si sono fermati neppure dopo la morte di Giulia.

Perdite che indignano e lasciano sgomente. Arrabbiate e indignate perché ancora una volta continua a succedere e, ancora una volta, assistiamo al profluvio di interpretazioni che inondano e soffocano i perché di una recrudescenza che certo non riguarda solo il nostro Paese ma che ci interroga e ci riguarda se vogliamo che le conquiste ereditate dalle rivendicazioni del secolo scorso non ammuffiscano in polverosi cassetti legislativi mortificando i germogli e le energie positive delle nuove generazioni.

Le piazze di questi giorni, con tante e tanti giovani sono piene di sgomento, di dolore, di rabbia ma anche di tante solitudini, quelle che alla fine non ti salvano se diventi una minaccia perché metti in discussione quel potere stratificato in secoli di patriarcato pagato con la vita da Giulia come da Saman.

Si dice che la colpa è di amori malati, di possessività morbose, di gelosie, avidità, vigliaccherie, disturbi mentali; un penoso quanto torbido elenco di patologie da frastuono mediatico utili solo a mascherare ipocrite responsabilità e ritardi che l’aggravamento delle pene e i codici rossi non possono sanare se mancano adeguati strumenti di supporto alle donne vittime di maltrattamenti e violenze e soprattutto se non si agisce sulle condizioni di contesto, sul modello culturale e sociale della disuguaglianza di genere in cui sono stratificate discriminazioni e disparità.

Un modello patriarcale, autoritario, gerarchico e censitario, che va nominato per quello che ha rappresentato nella storia e per quello che è, perché la violenza di genere è connaturata a tale modello.

Per abbatterlo e per affermare pari diritti e pari dignità è fondamentale rimuovere gli ostacoli e le barriere che hanno impedito fino a oggi la piena attuazione dei principi contenuti nella nostra Carta costituzionale, una Costituzione di libertà e di diritti, a partire dal suo articolo 3 che vuole pari dignità per tutti e una Repubblica impegnata a rimuoverne gli ostacoli di ordine economico e sociale.

Ma la crescita delle povertà non riguarda solo le condizioni economiche. Riguarda il decadimento educativo e di linguaggio, il decadimento culturale e di costume.

Le risposte necessarie non possono essere lasciate in carico alle sole scuole e alle singole famiglie mentre parallelamente e contestualmente i messaggi sociali, la comunicazione, il mercato, l’intelligenza artificiale continuano a veicolare immagini, ruoli che riproducono subalterni e dannosi stereotipi di genere.

La nostra storia, la nostra etica umanitaria, insegnano che non si possono fare compromessi quando si tratta di difendere la libertà e lo stato di diritto.

Per questo, Partigiani e Partigiane sempre, continueremo a impegnarci e lavorare per cambiare una società muta e indifferente in una comunità di ascolto e accoglienza, che investa sul valore sociale e sul rispetto della dignità delle persone.

Tamara Ferretti, responsabile Coordinamento nazionale Donne Anpi, componente Segreteria nazionale Anpi