Se intendiamo per normalità una condizione di vita in cui ciò che avviene è regolare e consueto, ci spieghiamo la straordinaria capacità del genere umano di adeguarsi alle più grandi tragedie quando queste persistono nel tempo, in quanto ineliminabili circostanze con cui occorre fare i conti.

Un adeguamento passivo, però, diventa inesorabilmente rassegnazione. Un adeguamento attivo, invece, presuppone che quel segmento di umanità che vive una tragica normalità, operi in ogni modo e con tutte le sue forze – scientifiche, culturali, etiche, politiche – per superare tale situazione al fine di conquistare una migliore condizione esistenziale e sociale.

Ciò vale per la pandemia che, seppur non ancora debellata, è stata ed è contrastata con parziale ma importanti successi a livello globale con i vaccini.

Così non è ancora per una crisi economica che sta avendo e – si teme – avrà effetti dirompenti. Così non è per la guerra in corso: da quel maledetto 24 febbraio 2022, quando i tank russi hanno superato i confini dell’Ucraina, non è sostanzialmente avvenuto nulla che potesse condurre alla fine del conflitto.

Si è così imposta col sangue e con le bombe una nuova, disperata normalità, pagata finora con la infinita tragedia del popolo ucraino e col declino economico e sociale dell’intera Europa, dalla Russia ai popoli dell’Unione Europea. Non solo: qualsiasi tentativo di “ripudiare la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” (art. 11 della Costituzione) è stato demonizzato, criminalizzando chiunque si fosse permesso di esprimere un giudizio sulla drammatica vicenda in corso che non fosse perfettamente coincidente con le scelte del governo italiano e dell’insieme dell’Unione Europea.

Per questo qui ed ora la normalità è la guerra scatenata da Putin. Una guerra a cui l’Occidente ha risposto con una serie di scelte condivisibili o meno (spedizione di aiuti umanitari, invio di armamenti all’Ucraina, sanzioni progressivamente più dure, comportamenti e dichiarazioni). Ciò che è sempre mancato da parte dell’UE (ma anche delle Nazioni Unite) è un sia pur timido tentativo di proporre una via d’uscita alla tragedia in corso attraverso lo strumento della diplomazia.

In questo scenario né in Russia né nei Paesi UE è cresciuto un vero e potente movimento per la pace. Certo, nel nostro Paese si sono svolte centinaia di iniziative locali o trasversali di evocazione della fine del conflitto. Penso, fra le tante, alla Perugia-Assisi, oppure alle decine di manifestazioni cittadine nella seconda metà di ottobre. Ma è mancato fino ad oggi un grande movimento di massa, un vasto movimento di opinione, una spinta popolare chiara e distinta.

La manifestazione nazionale promossa per sabato 5 novembre a Roma è stata promossa da Europe for Peace e da un vastissimo cartello di associazioni fra cui l’Anpi. Essa è frutto dell’impegno straordinario, spesso sotto traccia, di una larghissima parte del mondo associazionistico e sindacale, laico e cattolico.

Il 5 novembre può diventare il punto di partenza di una fase nuova della lotta per la pace, costituendo altresì un precedente e una prova generale per altri Paesi dell’Unione Europea.

Questo è possibile perché la situazione, seppure in peggio, è cambiata: solo un cieco non si accorgerebbe che l’escalation bellica ha raggiunto livelli inediti, che le possibilità di un allargamento del conflitto direttamente sul teatro dell’Unione Europea sono pericolosamente aumentate, che è persino stato sdoganato il tabù del conflitto nucleare in quanto giudicato oggi come un rischio remoto ma possibile o addirittura come un prezzo dolorosissimo ma forse necessario da pagare nella dinamica del conflitto.

In questa nuova situazione non ci si può più dividere sulla misura delle responsabilità della guerra, sull’opportunità o meno dell’invio di armamenti, sulla natura dell’aggressione russa.

Ferma restando l’incancellabile responsabilità di tale aggressione, è il momento di unirsi per chiedere, tutte e tutti, che si giunga a un cessate il fuoco, che si apra una possibilità di trattativa, che si pongano le basi fondamentali per arrivare a una conferenza internazionale che sancisca i termini di una nuova coesistenza pacifica. Questo avevamo proposto al 17° Congresso nazionale dell’ANPI nel marzo di quest’anno; questo è stato dichiarato ad aprile dal Presidente della Repubblica auspicando “una nuova architettura delle relazioni internazionali, in Europa e nel mondo”: una Helsinki 2. E bene sarebbe che a tali richieste si aggiungesse l’imperativo di un disarmo nucleare mondiale.

Sono queste le ragioni per cui intendiamo impegnare tutta la nostra associazione, gli iscritti, gli attivisti, i dirigenti, le donne, gli uomini, tutte le generazioni che fanno dell’ANPI uno specchio vivente della storia recente del nostro Paese, a partecipare alla manifestazione di Roma. Nella stessa misura invitiamo le antifasciste e gli antifascisti.

Siamo fra quelli che rifiutano la nuova normalità della guerra e che intendono operare assieme per ricostruire la coesistenza pacifica come regola fondamentale della convivenza umana.

Siamo fra quelli che vogliono l’Europa veramente unita e democratica, alleata ai Paesi occidentali e amica di tutti i popoli, a partire dal pensiero dei confinati a Ventotene dal fascismo, Spinelli, Rossi, Colorni.

Siamo fra quelli che ripudiano, sempre e comunque, l’uso dell’arma atomica perché non si sono ancora dissolte, dai muri di Hiroshima e Nagasaki, le ombre delle donne e degli uomini vaporizzati.

Siamo fra quelli che rispettano pienamente le alleanze militari, ma pensano che non ci sia europeismo senza autonomia.

Siamo fra quelli che vogliono ricostruire l’Italia, rilanciare il sistema imprenditoriale, contrastare la mostruosa crescita delle diseguaglianze sociali, combattere le tante ingiustizie sociali, operare perché ci sia lavoro, dignità e rispetto per le persone sapendo che tutto ciò è impossibile se c’è la guerra.

Siamo fra quelli che vogliono unire, perché davanti agli ostacoli del mondo attuale se si è divisi si perde e perché l’unità ci è stata insegnata dalle partigiane e dai partigiani.

Siamo una parte di un grande popolo: il popolo della Costituzione.

Siamo l’ANPI.

Gianfranco Pagliarulo, presidente nazionale Anpi