A quasi un anno di distanza, si può azzardare un primo bilancio dello stato di attuazione del progetto illustrato dai maîtres à penser di Fratelli d’Italia in occasione degli ultimi Stati generali della cultura di destra. Gli elementi di valutazione disponibili sono ancora parziali o d’incerta interpretazione, ma un aspetto risalta in tutta evidenza: l’intento del partito della Meloni non è quello di smantellare la presunta egemonia culturale della sinistra a vantaggio di un ritrovato pluralismo, bensì quello instaurare una primazia non priva di tentazioni assolutistiche.
In questi mesi si è infatti venuta progressivamente palesando la tendenza a tacitare ogni forma di dissenso con le armi dell’intimidazione (non soltanto verbale: talvolta si ricorre al manganello) e della scomunica: lo dimostrano, per limitarsi a pochi esempi, gli attacchi a giornalisti e organi d’informazione che osano criticare l’operato della Presidente del Consiglio e le scelte della maggioranza di governo, le censure alla conduzione “permissiva” del Festival di Sanremo e alle scomode frasi pronunciate sul palco dell’Ariston da alcuni cantanti.
Altro che libero confronto delle opinioni! L’impressione è che si voglia instaurare una sorta di “pensiero unico”, e che per raggiungere questo obiettivo – non vigendo uno Stato di polizia – si punti al diretto controllo del sistema radio-televisivo pubblico (informazione innanzitutto, ma anche spettacolo e intrattenimento), o almeno di una sua parte cospicua (ai giornali di area provvedono le “veline” di Fazzolari), e di importanti istituzioni culturali.
Ed è stupefacente osservare come il disegno di FdI, funzionale alla volontà di consolidare l’influenza del partito nella società e di aumentarne il peso nello stesso centro-destra, si sviluppi senza incontrare ostacoli da parte degli alleati di governo: la Lega guarda altrove, vittima com’è del suo congenito plebeismo, mentre Forza Italia, suggestionata dalla fede del suo fondatore nella videocrazia, fa affidamento (sbagliando) sul supporto delle emittenti di proprietà della famiglia Berlusconi.
In questo quadro, non si comprende l’insistenza – da parte non soltanto del think tank meloniano, ma anche di organi di stampa non collocabili sul versante sovranista – nel rubricare sotto la nozione gramsciana di «egemonia culturale» l’assoggettamento di enti, istituti, servizi pubblici a interessi di partito.
Nei Quaderni del carcere, Gramsci sostiene (si perdoni la sommarietà della parafrasi) che una classe o un gruppo sociale acquisiscono una posizione egemonica nella cultura del proprio Paese allorché i loro intellettuali “organici” elaborano una visione del mondo, una concezione dell’uomo e della vita, una tavola di valori capaci di guadagnare il «consenso attivo» – cioè partecipe e ottenuto con i mezzi della persuasione, non della coercizione – del ceto dei colti e, attraverso la sua mediazione, di vasti settori della collettività nazionale, generando un nuovo senso comune (secondo il teorico e dirigente politico comunista, nella storia dell’Italia contemporanea la borghesia era riuscita nell’impresa in due sole occasioni: con il cattolicesimo liberale durante l’età risorgimentale, e con il neoidealismo nel primo quindicennio del secolo scorso).
Con tutta la buona volontà, è impossibile riconoscere una vocazione egemonica (nel senso gramsciano) alla molecolare occupazione di rilevanti porzioni dell’industria culturale da parte di FdI. Non è insediando ai posti di comando persone selezionate secondo criteri di fedeltà o – quanto meno – di sicura affidabilità, ma spesso sprovviste di adeguate competenze (alla faccia della conclamata meritocrazia), che si ottiene la convinta adesione di masse di intellettuali; la logica della consorteria incentiva tutt’al più l’opportunismo e il servilismo.
Eppure, se avessero sfogliato con attenzione l’album di famiglia, i postfascisti vi avrebbero trovato esempi illuminanti di un diverso modo di intendere l’organizzazione della cultura e il rapporto fra politica e intellettuali. Giovanni Gentile chiamò i più autorevoli studiosi a contribuire alla compilazione delle voci dell’Enciclopedia italiana (di cui fu promotore e direttore), senza pretendere da loro professioni di obbedienza al regime; e Giuseppe Bottai (sebbene spinto dagli eventi – si era alla vigilia dell’entrata dell’Italia nella seconda guerra mondiale – e guidato da un astuto calcolo di convenienza) sollecitò la collaborazione alla rivista «Primato» della parte migliore delle giovani leve intellettuali, quand’anche in odore di eresia.
Ma – con il dovuto rispetto – la statura di Gentile e di Bottai è incomparabile a quella di Sangiuliano e di Mollicone. Né, per altro verso, si può ragionevolmente scommettere sulla forza d’attrazione di una cultura che mette insieme alla rinfusa Marinetti e Tolkien, Evola e Maurras, D’Annunzio e Drieu de la Rochelle, Prezzolini e Jünger, e che per darsi una patente di nobiltà deve ascrivere al suo albero genealogico addirittura Dante e Manzoni.
Parimenti la vecchia triade di Dio, Patria e Famiglia, in cui si pretende di condensare l’idea di società e la scala di valori propugnate dai reazionari di ogni risma (e non soltanto a casa nostra), potrà avere effetto su quanti cercano nel passato un rifugio dall’angoscia del presente e un viatico contro la paura del futuro, ma poco vale a fronte del processo di secolarizzazione che investe l’Occidente. Oggi l’unica vera egemonia culturale è esercitata dalla trinità di consumismo, edonismo e narcisismo, di cui a suo tempo si fece apostolo Silvio Berlusconi e che è figlia del dominio planetario del capitalismo finanziario: a lei soltanto riesce di forgiare gli stili di vita, la mentalità, l’immaginario, le aspirazioni di decine di milioni di donne e di uomini.
Di ciò si rendono conto almeno i più avvertiti fra i “consiglieri del principe”; e infatti il loro gran parlare di egemonia culturale è un polverone sollevato per nascondere obiettivi di più modesta portata, ma comunque allarmanti. A giudicare dalle postazioni che FdI ha scelto di presidiare, sembra di capire che un primo obiettivo consista nella riscoperta e nella rivalutazione di personalità e di movimenti artistici che sarebbero stati dimenticati o discriminati a causa del loro orientamento ideologico in contrasto con il mainstream liberal-democratico e marxista, e che attesterebbero l’importanza e la vitalità della cultura di destra nel nostro Paese.
Parallelamente, si mette in cantiere la realizzazione di film e di serial televisivi finalizzati non solo e non tanto a propagandare gli ideali e i valori cari al nazional-populismo (operazione la cui riuscita dipende da molti fattori: per esempio, l’efficacia espressiva del messaggio e la sua sintonia con le curiosità, la sensibilità e i gusti del pubblico), quanto soprattutto a proporre una lettura distorta e strumentale di alcune vicende (emblematico è il caso delle foibe) da un lato, e dall’altro a riscrivere la storia dell’Italia contemporanea secondo una linea di continuità che si snoda dal Risorgimento ai giorni nostri, con lo scopo di normalizzare il fascismo (le cui uniche colpe, a sentire i revisionisti, andrebbero individuate nelle leggi razziali e nella partecipazione alla guerra a fianco della Germania di Hitler), e dunque – seppure indirettamente – a legittimarlo.
L’obiettivo primario e manifesto di FdI sta però nell’asservimento dell’informazione radio-televisiva, cui si impone di magnificare i risultati conseguiti dall’esecutivo in carica, di esaltare la figura e le doti della Presidente del Consiglio, ma ancor più di fornire una rappresentazione edulcorata della realtà, nascondendo o minimizzando problemi e difficoltà oppure, laddove l’evidenza non lo consenta, attribuendone la responsabilità ad altri (di volta in volta l’Europa, i precedenti governi, l’opposizione parlamentare, la burocrazia, ecc.).
È un trucco illusionistico, d’accordo, ma funziona (Berlusconi insegna): perché viviamo nell’epoca della post-realtà, in cui gli avvenimenti sono tutt’uno col racconto che se ne fa, le immagini acquistano lo statuto dell’oggettività, e perché troppi mancano dell’abito critico necessario a smascherare le manipolazioni. Sarebbe dunque un errore sottovalutare la pericolosità di questo uso fazioso dell’informazione, ma sarebbe ugualmente un errore ritenere che non vi siano gli strumenti per contrastarne gli effetti: gli anticorpi della democrazia sono robusti ed estesi, il pluralismo mostra di resistere validamente ai tentativi di omologazione (ne è segno eloquente la flessione dell’audience registrata dai telegiornali e – più in generale – dai programmi messi in onda dalle reti dell’emittente pubblica).
A proposito di pluralismo, un contributo decisivo alla sua tenuta e al suo rafforzamento può e deve venire dall’associazionismo democratico: a esso spetta il comito di mobilitarsi in primo luogo a tutela del diritto di ciascuno a manifestare liberamente le proprie opinioni, e poi di moltiplicare le sedi e le occasioni d’incontro e di dialogo con i cittadini, soprattutto con i giovani, di favorire la riflessione sullo stato di cose presente e sulle prospettive, di accrescere la condivisione dei principi e dei valori della Costituzione repubblicana, di chiamare a raccolta tutte le energie disponibili a diffondere la conoscenza storica, a promuovere una varia gamma di attività culturali sperimentando contenuti originali e linguaggi innovativi.
L’impresa di certo non è facile, ma neppure impossibile: l’Anpi vi si misura da tempo, ed è risoluta a proseguire l’impegno con sempre maggiore costanza e intensità.
Ferdinando Pappalardo, vicepresidente nazionale Anpi
Pubblicato domenica 17 Marzo 2024
Stampato il 10/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/idee/editoriali/egemonia-culturale-fdi-e-lassalto-alla-diligenza/