Quando durante la più importante iniziativa del principale partito d’opposizione si offende il Presidente della Repubblica, si insulta Gad Lerner arrivando a dirgli “tu non sei italiano, sei ebreo” (piena solidarietà nei suoi confronti), si aggredisce un giornalista, si copre di contumelie (non di critiche) il presidente del Consiglio e l’intero governo, si esibisce come un trofeo una povera bambina strumentalizzando in modo nauseante le gravi vicende di Bibbiano, quando succede tutto questo, vuol dire che c’è un attacco frontale all’impalcatura istituzionale, giuridica e morale del Paese. Se si aggiunge che a capo di questo partito c’è chi sino al mese scorso ricopriva, sia pur in modo per così dire eccentrico, l’incarico di ministro dell’Interno, c’è davvero da preoccuparsi.

Assieme, questa vicenda davvero squallida conferma che ci troviamo in una situazione unica nella storia del dopoguerra e avvalora l’opportunità di dar vita ad un nuovo governo che escluda autori, registi e comprimari della sceneggiata di Pontida. Quando mai in Italia destre illiberali e dalla chiara vocazione acostituzionale si sono trovate ad un passo dal potere? Quando mai un ministro dell’Interno aveva invocato i pieni poteri? Quando mai si era creato un rapporto così stretto, sinergico, fra forze parlamentari di estrema destra – Lega e Fratelli d’Italia – ed organizzazioni esplicitamente neofasciste? L’unica circostanza, del tutto diversa, in cui nel dopoguerra era al governo un uomo che colludeva con la destra neofascista fu l’avventura di Tambroni. Com’era ovvio l’Anpi intervenne, scese in piazza, contrastò le scelte dell’allora presidente del Consiglio e dopo una lunga e drammatica estate questi si dimise.

La vicenda di Tambroni, quando l’Anpi diede vita ad una vera e propria mobilitazione nazionale, smentisce chi, in buona fede o in modo malizioso, sostiene che l’Anpi dovrebbe essere assente nelle più importanti e decisive vicende politiche del Paese. Vuol dire che non ha capito che l’Anpi non è un’associazione di tempo libero, ma è l’associazione dei partigiani, cioè di coloro che in prima fila e sulla propria pelle lottarono per un’Italia libera, liberata e democratica.

Non siamo un partito, non sosteniamo un partito, non siamo sostenuti da un partito. Ma guai a noi se davanti alla particolarissima situazione in cui si trova il Paese, l’Anpi apparisse neutrale o silente. Davanti ad un pericolo reale e ravvicinato per le sorti della democrazia italiana, l’Anpi ha il dovere di scegliere. Certo, salvaguardando la sua autonomia e non lesinando critiche e opinioni difformi. Ma sapendo che l’altra parte è quella della tentazione dei pieni poteri.

Ed inoltre da sempre l’Anpi giudica i governi da quello che fanno, nel bene o nel male. Conte ha fatto bene a riferire alle Camere sulla crisi ribadendo il carattere parlamentare della democrazia italiana e restituendo così il ruolo centrale che spetta all’istituzione che dovrebbe rappresentare tutto il Paese e che troppe volte negli ultimi anni è stata messa in sott’ordine in base all’assunto ideologico della prevalenza della governabilità sulla rappresentanza, con il risultato di umiliare la rappresentanza e di non riuscire a garantire la governabilità.

Per le stesse ragioni esprimiamo un parere sul programma che ha luci ed ombre.

Ci preoccupa l’assenza di qualsiasi riferimento alla lotta ai fascismi ed agli autoritarismi; non condividiamo questa specifica riforma costituzionale relativa alla diminuzione del numero dei parlamentari, non perché riteniamo tale numero intoccabile, ma perché ci pare una riduzione così pesante da mettere seriamente a rischio la rappresentatività dei parlamentari, e perché la motivazione – il risparmio di una cifra fra l’altro assai modesta – rinvia ad una cultura politica superficiale, che in sostanza contrasta l’idea della democrazia rappresentativa; una nuova legge elettorale può raddrizzare alcune delle storture causate da tale riforma, ma ciò non cambierebbe la sostanza del provvedimento che renderebbe più difficile l’efficacia stessa dei lavori parlamentari; analogamente non ci piacciono le proposte – pur diverse fra di loro – di autonomia differenziata, perché in ogni caso si allargherebbe il già patologico differenziale fra sud e nord del Paese. Tanto meno ci convincono le voci di aprire una nuova fase costituente, quando ancora parte significativa della Costituzione è lettera morta. Ed infine non è ancora chiaro il destino dei decreti sicurezza, che andrebbero cancellati perché riducono a questioni di ordine pubblico sia i temi dell’emigrazione sia i temi della libera manifestazione del pensiero e perciò rivelano una natura autoritaria, lontanissima dallo spirito costituente.

Ma non si possono nascondere, quanto meno nell’esposizione del programma di governo, diversi lati positivi: i costanti riferimenti costituzionali, il tema della lotta alle diseguaglianze, l’obiettivo della parità di genere nelle retribuzioni e del salario minimo garantito nella contrattazione, coinvolgendo così i sindacati, lo scenario di priorità di politica industriale di innovazione, made in Italy, turismo, creatività e cultura, la politica fiscale del “pagare tutti, pagare meno” con uno specifico riferimento al cuneo fiscale e ai lavoratori, la lotta senza quartiere (vedremo in concreto) all’evasione, le questioni della scuola e della formazione, i temi della tutela ambientale, il pieno “ritorno” delle dinamiche italiane nelle dinamiche dell’Unione Europea, senza fare sconti. Infatti il primo risultato ottenuto è la soluzione positiva del caso della nave Ocean Wiking con lo sbarco dei migranti e la distribuzione in vari Paesi del continente.

Che fare? Non ignoriamo i guasti avvenuti negli ultimi anni: da un lato un popolo che vive in gran parte in ansia, incitato ad una sorta di stato d’emergenza permanente, con una costante paura e rancore, con un drammatico imbarbarimento del dibattito pubblico e di parte significativa della vita sociale, dall’altro un popolo legato ai valori della democrazia, della solidarietà e delle tradizioni di civiltà, che ha manifestato nelle forme più diverse la difesa di quei principi.

Perciò continua la nostra battaglia: sulla memoria (va avanti il lavoro avviato da Gad Lerner di raccolta delle interviste ai partigiani viventi), e contro fascismi, nazismi e razzismi. Guai ad abbassare la guardia! Guai a pensare che, con l’insediamento del nuovo governo, siano svaniti i pericoli che corre il nostro Paese. Pontida ce lo insegna. Dobbiamo sempre più dar voce alla parte migliore del nostro popolo, quella delle magliette rosse, dell’accoglienza, dell’eguaglianza, della solidarietà, dell’antifascismo. Dobbiamo intensificare senza alcun pregiudizio verso nessuno il nostro lavoro di estensione del fronte di forze sociali, culturali, politiche, ideali che si contrappone a qualsiasi deriva illiberale, sia questa guidata da improbabili capitani o da chiunque. Dobbiamo dar vita a campagne di iniziative e di formazione contro ogni deriva xenofoba, autoritaria, plebiscitaria. A ben vedere, questo ci hanno insegnato le partigiane e i partigiani: che si rimane sempre all’erta, giovani e anziani, donne e uomini, cittadini di ogni paese. La Resistenza a difesa delle libertà non è finita il 25 aprile 1945, perché non finisce mai. E lo strumento principale è la partecipazione popolare. L’Anpi anche per questa ragione va rafforzata, cogliendo i frutti del grande lavoro che in un anno e mezzo hanno svolto gli iscritti e i gruppi dirigenti locali; perciò per la seconda metà di ottobre abbiamo promosso due giornate straordinarie di tesseramento 2019, rinviando la chiusura del tesseramento al 31 dicembre, che diverrà la data permanente di conclusione del tesseramento annuale.

La tessera dell’Anpi è la tessera degli antifascisti di ieri e di oggi. Per questo vorrei che entrassero nella nostra associazione tanti ragazzi. Per dirla con Nuto Revelli, «i giovani devono conoscere la società in cui vivono. Guai se i giovani di oggi dovessero crescere nell’ignoranza, come eravamo cresciuti noi della “generazione del Littorio”. Oggi la libertà li aiuta, li protegge. La libertà è un bene immenso, senza la libertà non si vive, si vegeta».