Guido Tavagnacco, “I partigiani reggono la Costituzione”

Il convegno di Marzabotto ci ha consentito una visione d’assieme sui fermenti teorici germogliati durante il Ventennio (ma anche successivamente, nei venti mesi dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945), che hanno portato poi, assieme a quel complesso fenomeno storico chiamato Resistenza, alla scrittura della Carta costituzionale. Si sono ripercorse le tracce dei pensieri politici del tempo, con particolare riferimento al pensiero comunista, al pensiero socialista, al pensiero azionista, al pensiero cattolico. L’autonomia di ciascuno di questi punti di vista non può far velo a una certa reciproca osmosi, ad una contaminazione di fatto avvenuta nel tempo. In qualche modo mi sovviene il famoso aforisma di George Bernard Show che suona più o meno così: “Se tu hai una mela, e io ho una mela, e ce le scambiamo, allora tu ed io abbiamo sempre una mela ciascuno. Ma se tu hai un’idea, ed io ho un’idea, e ce le scambiamo, allora abbiamo entrambi due idee”.

Di questa ricchezza di idee conviene essere eredi, come abbiamo fatto a Marzabotto, in un tempo in cui navighiamo “come nave senza nocchiere in gran tempesta”, e cerchiamo, con improba fatica e spesso con bussole inattendibili, di scorgere all’orizzonte un approdo, un qualche spicchio di terraferma. Il che, fuor di metafora, vuol dire semplicemente che è tanto più necessario il dialogo virtuale fra culture politiche democratiche, quanto più si sente l’esigenza che tali culture, ciascuna mantenendo la propria autonomia, comunque si riversino in un unico fiume che non si limiti al contrasto ad ogni fascismo e oscurantismo, ma porti al comune riconoscimento che la via maestra, meglio, l’unica via per uscire dallo stallo democratico in cui si trova il Paese è l’attuazione piena della Costituzione. In altre parole: ritorno al futuro.

È infatti per alcuni aspetti bizzarra l’intera vicenda costituzionale: un testo che disegnava la società e lo Stato del futuro, che si è solo in parte realizzato e che, negli ultimi decenni, è stato progressivamente contrastato per i suoi aspetti istituzionali (vedi i ripetuti tentativi di modifica strutturale – ultime la riforma varata dal governo Berlusconi e bocciata nel 2006, poi la “riforma Renzi” sconfitta nel 2016, infine la riduzione del numero di parlamentari, confermata dal referendum del 2020) e semplicemente rimosso per tanta parte dei suoi aspetti sociali. Basti pensare – in linea generale – all’articolo 1 (“fondata sul lavoro”), all’articolo 4, al Titolo III (“Rapporti economici”).

Dunque il convegno di Marzabotto ci è servito per “ripassare” i fondamentali, il che era necessario. Ma non sufficiente. È bene ora aprire una riflessione sul presente, a partire da quei fondamentali che, sintetizzati, erano un impasto di valori: democrazia, lavoro, libertà, eguaglianza, solidarietà, pace. Ma, attenzione: tale impasto non è scomponibile. Se uno o più dei suoi termini viene meno, l’intera impalcatura costituzione frana. Se, per fare un esempio, si enfatizza il valore della libertà ma si trascura quello dell’eguaglianza, e/o quello della pace (e ovviamente se si fa l’inverso) si mette di fatto in discussione l’intero sistema.

Il presidente nazionale Anpi, Gianfranco Pagliarulo (Imagoeconomica, Clemente Marmorino)

La democrazia liberale

Ora, consideriamo che da qualche decennio – più o meno dalla caduta del Muro – nel lessico dei media e della politica è cambiato qualcosa: alla parola “democrazia” si aggiunge quasi sempre l’aggettivo “liberale”, come per indicare che la sua unica forma possibile sia questa, tant’è vero che, di converso, si parla di “democrazie illiberali”, per denunciare forme di governo e di Stato che hanno depresso o abbandonato il nesso fra democrazia e libertà.

L’aggettivo “liberale” non sottolinea semplicemente l’enfasi sulla parola “libertà”, cosa di per sé ovviamente essenziale, ma propone un modello politico, giuridico ed economico preciso, con una lunga, importante, ed anche controversa storia. Un modello, appunto. Fra i tanti possibili. Eppure la Costituzione non disegna un modello di democrazia liberale tout-court, pur comprendendolo. Essa assume infatti il principio ineliminabile della divisione dei poteri, che ha un’antica origine nel pensiero di Locke e di Montesquieu, declina compiutamente i diritti di libertà, ma va oltre, e propone, nella sostanza, una sorta di democrazia sociale. Basti pensare al secondo comma dell’articolo 3. In sostanza la Costituzione è comprensiva della cultura liberale incorporandone il meglio, ma con aggiunte e condizionamenti che ne consentono il superamento virtuoso.

La torsione verso l’enfasi della “democrazia liberale” ha un sottotesto, un non detto, per cui si presuppone che questa sia la forma più alta possibile di democrazia, forse un punto d’arrivo, che ricorda l’illusione ottica del politologo Francis Fukuyama, il quale nel 1992, poco più di due anni dopo la caduta del Muro (sic!), immaginò che la direzione della storia universale dell’umanità avesse raggiunto il suo apice con le democrazie liberali, e parlò di conseguenza di “fine della storia”.

Eppure storicamente abbiamo assistito, in particolare dalla crisi dei mutui Suprime (2007/2008), al rapido declino del sistema economico chiamato liberismo, che è alla base di tutte le “democrazie liberali” del tempo presente: un sistema economico che, nel più generale contesto della globalizzazione capitalistica, ha consentito e determinato l’esplosione delle diseguaglianze fra i popoli e nei popoli.

È ragionevole pensare che questa sia una delle radici (forse la radice) della crisi attuale delle democrazie europee (appunto, liberali), legata al contestuale smarrimento della capacità di rappresentanza delle istituzioni. Prendiamo il caso della Francia. L’aumento del prezzo del carburante, l’innalzamento dell’età pensionabile, l’assassinio di un ragazzo da parte di un poliziotto hanno scatenato in tre diversi momenti degli ultimi anni altrettante vere e proprie sollevazioni popolari con scontri, violenze, saccheggi, durissime repressioni, ed hanno coinvolto milioni di cittadini d’oltralpe. Il modello semipresidenzialista francese ha clamorosamente fallito dal punto di vista della rappresentanza e della lotta contro le diseguaglianze (penso alle banlieues, ma non solo). È interessante notare che il modello francese sembra essere uno dei punti di riferimento della proposta presidenzialista del governo, tesa anche – secondo la Meloni – a ricostruire il rapporto fra elettori ed eletti, meglio, fra governanti e governati, tramite l’elezione diretta del presidente.

Senso di impotenza e percezione di irrilevanza sociale

La situazione deprimente del caso italiano si potrebbe racchiudere nell’oramai altissima e incontrollabile astensione elettorale; ma a ben vedere le spie della crisi democratica sono molteplici, e si manifestano nel senso di impotenza, nella diffusissima percezione di irrilevanza sociale, in particolare fra le giovani generazioni che vivono per di più la condizione lavorativa del precariato, che a sua volta si trasforma in un senso di provvisorietà, in un vivere giorno per giorno senza alcuna certezza.

Questa è la radice, il brodo di coltura delle destre radicali e dei gruppi neofascisti, in Francia come in Italia. Nel nostro Paese parte della rabbia sociale si era incanalata negli anni scorsi verso il voto ai 5 Stelle; l’iniziale successo elettorale si è dimostrato – quanto meno parzialmente – una bolla, plasticamente rappresentata dal caso per così dire antropologico di Luigi Di Maio e della sua fulminante conversione all’establishment. Certo, i 5 Stelle, pur consistentemente ridotti dal punto di vista elettorale, sono successivamente approdati ad un campo pienamente democratico. Ma parte importante dell’elettorato è stato conquistato dalle destre, in particolare, com’è noto, da Fratelli d’Italia. Ed è significativa la penetrazione nelle periferie di associazioni, organizzazioni e gruppi di natura esplicitamente neofascista e neonazista.

A Tor bella Monaca o in altra periferia

Qui c’è un punto che va dichiarato: mettiamoci nei panni di una famiglia che vive in periferia, per esempio Tor Bella Monaca o Corviale a Roma; ed estendiamo il caso a tutte le periferie territoriali, sociali e culturali. Chi le rappresenta? Immaginiamo che il reddito sia esiguo, che i trasporti pubblici siano inefficienti, che la raccolta dei rifiuti non funzioni, che in questa piazza o in quel quartiere si spacci, in sostanza che il degrado sia la condizione permanente della vita quotidiana. Mettiamoci nei panni dei residenti in quel quartiere e chiediamoci dal loro punto di vista se e come vivono la democrazia. Avremmo ovviamente risposte sconcertanti e allarmanti. Nel migliore dei casi sarà: “Di che cosa stiamo parlando?”.

Le parole chiave della Resistenza e della Costituzione – democrazia, lavoro, libertà, eguaglianza, solidarietà, pace – in gran parte suoneranno come moneta falsa, come un linguaggio esterno, proprio del centro città, concretamente incomprensibile. Estendiamo il disagio al tradizionale mondo del lavoro operaio, magari a tempo indeterminato, ma che si vede il salario taglieggiato dall’inflazione, una sanità pubblica mal funzionante a fronte di una sanità privata irraggiungibile per i suoi costi, un peggioramento delle condizioni di lavoro; estendiamolo ancora ai ceti medi declassati dal susseguirsi e sovrapporsi di crisi: i Subprime, la pandemia, gli effetti delle sanzioni e delle controsanzioni per la guerra. Consideriamo le particolari condizioni di tanta parte del popolo del Mezzogiorno, la cui distanza dal centro e dal nord è negli anni progressivamente aumentata. Non sto qua a riferire i dati sui nuovi e vecchi poveri.

Pensiamo ora al nostro osservatorio ordinario, al punto di vista dalla stragrande maggioranza dei politici, dei media, più in generale dei “gruppi dirigenti”. Questo punto di vista, rispetto alla periferia del Paese, appare estraneo, esterno, è al massimo una petizione di principio, una invocazione che propone di “andare nelle periferie”. Ma non basta quel punto di vista nelle periferie, occorrerebbe invece il punto di vista delle periferie. Solo questo approccio può rompere un circuito sterile ed autoreferenziale e ci può consentire una specifica declinazione delle parole chiave della Resistenza e della Costituzione; democrazia: come far contare chi non ha voce e non ha volto; lavoro: come conquistare per chi lavora una retribuzione dignitosa, un superamento del precariato, un welfare sufficiente; libertà: come realizzare le “libertà da” e cioè dal bisogno, dalla disoccupazione, dalla marginalità, dalla criminalità; eguaglianza: come contrastare i crescenti differenziali economici, culturali, sociali, civili; solidarietà: come ricostruire un tessuto connettivo fra ceti medi, medio bassi, ceti poveri, ceti più poveri; pace: come operare contro la guerra, che in ogni momento, in ogni circostanza, in ogni vittoria, in ogni sconfitta è sempre pagata dai ceti popolari.

Ma nel rapporto con i ceti popolari disagiati questo richiede – appunto – un capovolgimento totale del punto di vista, e questo è possibile solo a condizione di assumere la Costituzione come guida e base di un progetto di trasformazione che, in questa misura, da un lato mette al centro il valore della persona e dall’altro mette in discussione il dogma liberista. Tutto ciò mi pare necessario, a partire dai dati della realtà, quando – cioè – una parte significativa dei socialmente invisibili e una forte componente operaia tradizionale vota per l’estrema destra.

Questo non vuol dire affatto  diminuire la soglia d’attenzione verso quel complesso ed eterogeneo mondo definito delle classi medie. Anzi, occorrerebbe armonizzare entrambe le narrazioni, schematicamente rivolte ai ceti non garantiti e ai ceti garantiti, con una attenzione a quella vastissima fascia di “popolazione di mezzo”. Lo stesso pensiero critico è effettivamente tale se riesce a rivolgersi alla grande maggioranza del popolo, non limitandosi né ad una cerchia ristretta di iniziati, né a quelli che Paul Ginzborg chiamava con una felice definizione i “ceti medi riflessivi”, pur essenziali in qualsiasi prospettiva di rinnovamento democratico del Paese.

La “visione generale e nazionale” oggi

So bene le enormi difficoltà di questa operazione, causate specialmente dal fatto che non esiste oggi una rappresentanza organizzata della parte più disagiata della popolazione, se si esclude il movimento sindacale, che pure copre solo alcune zone del vasto territorio del disagio sociale e che dà oggi segnali di preoccupante divisione. Eppure solo questa operazione ci può consentire di avere una vera visione generale e nazionale del Paese. Essa infatti per definizione non è più tale se esclude parti fondamentali del popolo o, peggio ancora, si riduce al deserto dei Tartari del ristretto circuito dei media o di una élite politica/sociale/culturale che ha perso la connessione sentimentale con la popolazione e perciò il rapporto con la realtà.

È possibile, in questa prospettiva, una larga unità, una moderna unità antifascista? Ragionevolmente sì; penso per esempio al mondo degli scout, di Libera, delle grandi associazioni, degli stessi sindacati, di tutti coloro, cioè, che condividono l’urgenza di una relazione feconda con “le periferie” e che sono – tutti – alla ricerca di una via per costruire tale relazione. Ed aggiungo la sensibilità di una parte fondamentale della chiesa cattolica, a cominciare da Papa Francesco, e ancora l’attenzione delle visioni del mondo di origine comunista e socialista, lo stimolo delle culture liberaldemocratiche che non hanno perso gli orizzonti disegnati da Norberto Bobbio.

Se è vero, come si è detto durante il convegno di Marzabotto, che la democrazia progressiva è un processo, una contrastata espugnazione di trincee e casematte sempre più avanzate, un faticosissimo progredire civile, sociale, culturale, politico, una lunga “rivoluzione costituzionale”, se è vero che tale processo richiede un continuo passaggio in avanti nei rapporti di forza, tutto ciò è impossibile, inattuabile, irrealizzabile se non si conquista la grande maggioranza del popolo nella sua concretezza quotidiana e non in una sua astratta rappresentazione. Questo richiede un radicale cambio di sguardo. Mettere al centro la persona non può limitarsi ad una dichiarazione d’intenti o, peggio, ad una astrazione filosofica. A ben vedere, è la nuova frontiera dell’antifascismo e della democrazia.