
Assemblea costituente, 17 aprile 1947. Nella seduta pomeridiana prosegue la discussione generale del Titolo secondo della Parte prima del progetto di Costituzione. Si dibatte dei rapporti etico-sociali, in particolare del tema della tutela della famiglia e dei figli.

Si chiede il deputato Cevolotto: «Cura che siano adempiuti tali compiti? E come? Se i genitori non possono adempierli, evidentemente dovrà farlo la Repubblica. E allora, anche a prescindere dalla lettera e dal tono del testo, il primo capoverso dell’articolo 23 richiama involontariamente la politica demografica del fascismo, uno dei più grossi errori del regime, di cui portiamo anche adesso le conseguenze. Perché non è affatto vero che “il numero è potenza”. […] Chi ha redatto gli articoli probabilmente non intendeva tornare alla politica demografica, all’obbligo di fare figlioli che il fascismo avrebbe voluto fare rispettare collocando i carabinieri ai lati del talamo… per impedire le reticenze».

L’intervento di Cevolotto suggerisce una grande attenzione alle parole, perché alle parole si associano i contenuti. E l’utilizzo dell’ironia finale accende la curiosità di saperne di più. Sono tre i motivi di interesse per approfondire il tema. Il primo conferma che la nostra Costituzione è intrisa di antifascismo, non solo nella formulazione degli articoli finali, ma proprio perché quelle formulazioni a tal punto la volontà di uscire definitivamente dalla dittatura da evitarne anche il minimo riferimento, seppur involontario. Il secondo: non è necessario che appaia la parola antifascismo per capire quanto la nostra Costituzione è la risposta ai crimini commessi. Il terzo motivo è legato alla necessità di conoscere il fascismo in ogni aspetto per confutare la comune e superficiale vulgata del “ha fatto anche cose buone”.

Cevolotto, dunque, fa riferimento, dissacrandola, alla politica demografica del fascismo. Politica che avrebbe dovuto rendere l’Italia una potenza agricola, industriale e militare grazie al numero dei propri cittadini, anzi… dei sudditi. Il fascismo lanciò una campagna con l’obiettivo di incrementare la popolazione italiana fino a 60 milioni di abitanti (quanti sono oggi), definendo la procreazione un argomento “di interesse squisitamente collettivo e nazionale”.

La tassa sul celibato fu istituita con il Regio decreto n° 124 del 13 febbraio 1927 e interessava gli uomini non sposati di età compresa tra i 25 e i 65 anni. Consisteva in un contributo fisso, variabile a seconda dell’età: partiva da 70 lire per le fasce più giovani, tra i 25 e i 35 anni, salendo poi a 100 lire fino ai 50 anni, per poi abbassarsi oltre quella soglia anagrafica a 50 lire. Dopo i 66 anni si veniva esentati. L’ammontare da versare venne aumentato due volte, nell’aprile 1934 e nel marzo 1937, con una aliquota aggiuntiva calcolata sul reddito del contribuente.

L’importo era devoluto all’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, l’Onmi. Lo scopo dell’imposta era favorire i matrimoni e di conseguenza incrementare il numero delle nascite. Rimanevano esenti dal pagamento dell’oneroso tributo soltanto gli stranieri, i grandi invalidi di guerra, i sacerdoti, gli interdetti e i militari soggetti a ferme speciali. Provvedimento iscritto alle politiche di espansione perseguite dal governo fascista, la tassa sul celibato sarà abolita dal Governo Badoglio il 27 luglio 1943.

Ancora dal discorso dell’Ascensione: “Esistono nel Paese 5.700 istituzioni che si occupano della maternità e dell’infanzia, ma non hanno denaro sufficiente. Di qui la tassa sui celibi, alla quale forse in un lontano domani potrebbe fare seguito la tassa sui matrimoni infecondi. Questa tassa dà dai 40 ai 50 milioni; ma voi credete realmente che io abbia voluto questa tassa soltanto a questo scopo? Ho approfittato di questa tassa per dare una frustata demografica alla Nazione. Questo vi può sorprendere; qualcuno di voi può dire: ‘Ma come, ce n’era bisogno?’ Ce n’è bisogno. Qualche inintelligente dice: ‘Siamo in troppi’. Gli intelligenti rispondono: ‘Siamo in pochi’. Affermo che, dato non fondamentale, ma pregiudiziale della potenza politica e quindi economica e morale delle Nazioni, è la loro potenza demografica”.

Per favorire l’ambizioso programma dell’Onmi, si prevede che in ogni Comune sorgano un consultorio materno e un ambulatorio ostetrico in cui recarsi regolarmente per visite e controlli. Ogni ambulatorio “ostetrico” deve essere dotato di: sala di osservazione, dormitorio, sala parto e operatoria. Si pensa anche all’assistenza materna, e si promuove l’istituzione di asili nido per bambini fino al terzo anno d’età, anche in prossimità delle fabbriche dove lavorano le madri, o laddove sia possibile all’interno degli stabilimenti stessi, insieme alla camera di allattamento. Ci fu consenso alle nuove iniziative assistenziali? La popolazione poteva usufruire di un sostegno, i figli potevano sperare in una condizione di vita migliore rispetto a quella dei genitori. A fronte del silenzio forzato da parte delle opposizioni, annullate per legge, indubbiamente quelle politiche crearono consenso: convinto, silenzioso, o forzato.

Nel 1933 entrano ufficialmente nei ranghi dell’Onmi esponenti del Pnf provenienti dalle organizzazioni sanitarie dei fasci. In questa trasformazione, è significativa la presenza di molte donne iscritte alla Federazione dei fasci femminili. La loro presenza è necessaria nell’Opera nazionale maternità e infanzia, occupandosi l’ente assistenziale di donne e questioni femminili. Il Pnf dispone inoltre che, qualora il padre non sia già sposato, vengano uniti in matrimonio i genitori del bambino. L’Onmi viene impiegata per incoraggiare e rafforzare non soltanto le unioni legittime ma anche il valore della famiglia come nucleo sociale, in cui l’uomo ricopre il ruolo di guida e protettore.

Durante le ore del doposcuola (dell’Opera nazionale balilla parleremo nel prossimo articolo), alle bambine veniva insegnato a cucire, diventare “donna italiana” dedita al marito e ai figli (tanti figli, si auspicava) e alla casa. A scuola si studiavano le storie delle eroiche madri italiane: Cornelia, madre dei Gracchi; Adelaide Cairoli, la madre degli eroi risorgimentali; Rosa Guitoni, mamma di Garibaldi; e, naturalmente Rosa Maltoni, madre di Mussolini.
C’è di più. Il regime iniziò a riservare alle donne italiane un compito preciso: partorire figli, i futuri soldati della nazione. La propaganda cominciò a esaltare le buone madri contro la “corruzione della donna moderna” e a definire il ruolo che le donne avrebbero dovuto ricoprire nella società. La maternità venne ridotta all’atto fisico di produrre bambini e la funzione procreativa delle donne finì per condizionare ogni aspetto del loro essere sociale: escluse dalla politica, ogni loro partecipazione alla sfera pubblica (volontariato, impegno nella cultura, nel riconoscimento dei diritti nei luoghi di lavoro…) venne subordinata al dovere principale di dare figli alla nazione. Se nel lungo periodo le norme assistenziali per la maternità introdotte dal regime, anche tramite l’Onmi, miravano all’incremento demografico, nel breve si rivelarono un eccezionale strumento di consolidamento e normalizzazione del regime.
Furono infatti un’arma efficacissima per la definizione di una scala gerarchica e patriarcale nei rapporti tra i sessi sconvolta dal Primo conflitto mondiale, e contro l’emancipazione femminile. Non miravano ad assicurare benefici alle donne come esseri umani, quanto ad assisterle solo nel compimento del loro dovere di far figli. Il destino delle donne divenne quello di essere madri, e il loro successo si misurava nel numero delle nascite. Non a caso, le madri prolifiche e le famiglie numerose venivano fotografate ed esaltate sui giornali quali esempi per le altre donne. Il pubblico riconoscimento, quindi, divenne la ricompensa per la procreazione e per il servizio reso alla nazione. L’Onmi fu uno dei tanti mezzi con cui il regime esercitò il potere, condizionando la vita e il futuro degli italiani, relegando, in particolare le donne, a un destino disegnato e segnato a priori. Tra l’altro, deciso da soli uomini, nei ministeri, in parlamento, in tutti i ruoli di spicco nell’organizzazione del partito…
Conclusione
Il Giornale Luce del 28 dicembre 1938, mostra all’Italia le 95 coppie “prolifiche” che invitate a palazzo Venezia ricevono da Mussolini premi economici:
In quell’anno esce il brano “Ma le gambe”, cantato da Enzo Aita e dalle inconfondibili sorelle del Trio Lescano:
Motivo e testi brillanti, trasgressivi, sbarazzini e impertinenti per l’epoca, “Ma le gambe” inneggia alla donna e alla sua fisicità, a ritmo di fox-swing l’Italia balla e canta la donna attraverso gli occhi maliziosi degli uomini. Chissà se le mamme con più di sette figli, costrette a occuparsi del marito e della casa, avevano il tempo di canticchiare il brano. Radio e grammofoni non si trovano nelle stalle o nelle fabbriche, erano riservati alle case dei pochi benestanti che potevano permetterseli.
Da ina parte canzone spensierata, allieta chi non ha problemi economici e può giocare sulla fisicità della donna; dall’altra parte illude chi lavora in ristrettezze e povertà e non può concedersi neppure di fermarsi a pensare. Metafora di un’Italia che canticchia, mentre il totalitario modo di costruire e obbligare al consenso non è solo strumento ma metodo. E l’Onmi ne è la conferma.
Paolo Papotti, componente della Segreteria nazionale Anpi, responsabile Formazione
Bibliografia
- MEF, dipartimento delle Finanze;
- Storia Illustrata, n. 265, dicembre 1979;
- Bettini, Stato e assistenza sociale in Italia. L’Opera Nazionale Maternità e Infanzia 1925-1975;
- De Grazia, Essere madri in Le donne nel regime fascista.
Pubblicato giovedì 2 Dicembre 2021
Stampato il 10/12/2023 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/idee/formazione/promemoria-13-le-buone-opere-del-fascismo-lonmi/