Questa terra è la mia terra, una vittoria a metà
di Carlo Ghezzi
Nell’autunno di settanta anni fa, era il 1950, Parlamento italiano e Assemblea regionale siciliana vararono alcuni provvedimenti legislativi dando il via a una riforma agraria che, pur dal carattere piuttosto limitato, tuttavia recepiva alcune delle istanze di un grandioso movimento di lotta per la terra. Sviluppatosi dal 1944, ne aveva posto le basi, scuotendo nel profondo l’intero Mezzogiorno.
Le battaglie dei braccianti e dei contadini contro il feudo e per l’utilizzo delle terre incolte erano già state al centro delle imponenti lotte dei Fasci Siciliani della fine del XIX secolo: dopo la Comune di Parigi, avevano rappresentato la più grande iniziativa delle forze di progresso in Europa, ma vennero duramente represse dal governo Crispi e dalla mafia.
Quel partecipato movimento di lotta chiedeva scelte economiche e di sviluppo innovative, regole chiare per la conduzione dei fondi concordate tra le parti sociali e, soprattutto occasioni di lavoro. Le mobilitazioni ferocemente decapitate dalla repressione del gendarme, da pesantissime condanne inflitte ai suoi capi e dalla emigrazione forzata verso altre terre di moltissimi militanti, riesplosero in Sicilia dopo la caduta del fascismo. Si creò un grande movimento di massa che, magistralmente guidato dalla Cgil, dal Pci e dal Psi, praticò l’occupazione delle terre incolte e gli scioperi alla rovescia.
I decreti promulgati nell’ottobre 1944 dal ministro dell’agricoltura Fausto Gullo prevedevano la distribuzione dei terreni incolti dandoli in affitto a cooperative di contadini e segnarono un primo parziale approdo di quelle mobilitazioni.
Subito dopo la Liberazione, la lotta nelle campagne si estese ad altre regioni del Meridione scontrandosi sempre con l’intransigenza degli agrari, con le forze politiche che li sostenevano e con settori degli apparati dello Stato: l’obiettivo perseguito era contenere e ridimensionare l’azione delle forze del lavoro e del movimento democratico e progressista.
Molto sangue venne fatto scorrere in numerose località del Sud ed emblematicamente la strage di Portella della Ginestra del Primo maggio 1947 ne rappresentò la pagina più tragica. L’eccidio avvenne dopo il grande risultato elettorale ottenuto dal Blocco del Popolo nelle elezioni regionali siciliane: il bandito Salvatore Giuliano, al soldo degli agrari e della mafia, uccise 11 manifestanti e ne ferì altri 27.
Nel maggio 1947 la rottura dei governi di unità antifascista promossa da De Gasperi e l’avanzare della guerra fredda appesantirono ulteriormente il quadro generale e le stragi proletarie si moltiplicarono.
Il dopoguerra contò l’assassinio di oltre 30 sindacalisti in Sicilia, ordito dagli agrari e dalla mafia, per i quali mai nessuno sarebbe stato condannato e punito.
Si ebbero altresì le stragi di Celano in Abruzzo, di Melissa in Calabria, di Montescaglioso in Basilicata, di Torremaggiore in Puglia; nel 1949 diversi lavoratori furono uccisi nella Valle Padana nel corso delle battaglie sindacali per la conquista del contratto nazionale di lavoro.
La crudezza di tali avvenimenti scosse l’opinione pubblica italiana e internazionale e infine il rinnovo del contratto nazionale dei braccianti venne sottoscritto. Il governo venne spinto a varare una riforma agraria che, se per un verso divideva alcune terre incolte e le consegnava ai contadini atavicamente affamati di terra, tuttavia spezzettava eccessivamente la dimensione delle singole proprietà, impedendo così un reale decollo dell’economia delle campagne e dell’intera agricoltura italiana, mentre il settore si espandeva su vasta scala in Europa e nel mondo.
Ma, nonostante avessero conseguito dei risultati solo parziali, quelle lotte fornirono un determinante contributo delle forze del lavoro alla modernizzazione del nostro sistema produttivo, formarono tantissimi militanti e selezionarono classi dirigenti, scrivendo pagine importanti nella storia d’Italia.
Ottavio Terranova, descrivendo brillantemente in forma romanzata il percorso storico che ha segnato le vite di Giuseppe Italiano e di Giovanni e le loro lotte per la democrazia e per il lavoro, ricorda le numerose iniziative e il corteo del Primo Maggio del 1997 che, per celebrare il 50° anniversario della strage del 1947, si snodò da Piana degli Albanesi al Sasso di Barbato che troneggia alla Portella della Ginestra.
Alle iniziative che si organizzarono in quei giorni e alla testa del corteo, insieme ad altri segretari nazionali del sindacato, con i famigliari delle vittime dell’eccidio e le autorità siciliane, c’era anche chi scrive. Ho conosciuto Terranova proprio in quelle circostanze e oggi ci troviamo a continuare insieme la nostra militanza nell’Anpi.
Carlo Ghezzi, vicepresidente vicario Anpi nazionale
L’uomo delle vigne
di Ottavio Terravova
Tutti gli eventi appena accennati nel racconto fanno parte della storia che i lavoratori della terra hanno scritto con le loro lotte e che gli storici hanno approfondito con varie pubblicazioni (OT).
Ai contadini siciliani restava poco o nulla dopo un anno di lavoro; qualche volta solo la paglia.
Ai braccianti, pur lavorando dall’alba al tramonto, era negato ogni elementare diritto e in molti lasciarono i loro paesi in cerca di miglior fortuna.
Sui loro cartelli vi era scritto: “ La terra a chi la lavora”. Presto essi capirono che non bastava averla conquistata attraverso la riforma agraria. Per lavorarla e trasformarla, occorreva trovare i mezzi che non possedevano e tanta, tanta acqua per irrigarla.
Lottarono ancora mobilitandosi con la guida del sindacato e dei partiti comunista e socialista per vincere quest’ulteriore battaglia, creando i consensi necessari anche in altri partiti e nella società civile.
Giuseppe Italiano instancabilmente impegnato in queste lotte, si ricordò che i contadini già durante il movimento dei Fasci Siciliani, avevano sperimentato le prime forme di cooperazione in Sicilia, e tra innumerevoli difficoltà lavorò per realizzarle.
Grazie a queste gloriose lotte che coinvolsero tutto il Mezzogiorno d’Italia, maturò una gran voglia di libertà d’autonomia e di democrazia in Sicilia, contribuendo a creare le condizioni unitarie per liberare la regione dalla secolare sudditanza, dal sottosviluppo e dalla mafia, così come Pio La Torre ci ha indicato con il suo estremo sacrificio.
Nel bar della piazza del paese, Giuseppe e Giovanni ascoltavano i loro compaesani raccontare con dovizia di particolari le sofferenze vissute in guerra.
I due amici appena diciottenni, entrambi figli di contadini, grazie alla loro giovane età, erano rimasti in famiglia durante quegli anni terribili.
Per curiosità e per giovanile incoscienza, si recavano spesso sul promontorio che univa i due paesi, per assistere agli scontri tra la contraerea tedesca e gli aerei degli alleati che giungevano spesso dal mare.
Il suono delle campane aveva appena annunciato la firma dell’armistizio e la gente dei paesi della valle si riversò lungo le strade per festeggiare l’evento, sperando in una pace duratura.
Le mamme pregarono a lungo anche al seguito dei santi portati a spalla, per il ritorno dei loro cari dal fronte o dalla prigionia.
Ora, dissero i due giovani, possiamo sperare in un futuro migliore anche per noi.
Troverai una ragazza anche tu, bella come la mia Maria, con il sorriso solare e dall’odore della nostra terra e dei nostri frutti, esclamò scherzosamente Giovanni, rivolto verso l’amico.
Quel giorno il sole pareva non tramontare mai.
Il profumo di zagara aleggiava nell’aria e i variopinti prati, che la natura e la mano dell’uomo avevano ancora una volta voluto regalare ai propri figli, incoraggiarono Giuseppe e Giovanni a più frequenti incontri con gli altri giovani del circondario.
Le elezioni del giugno 1946 avevano dato la vittoria alla repubblica sulla monarchia e Giuseppe e Giovanni festeggiarono fino a notte con quanti si erano impegnati a far votare in piena libertà.
Nei loro cuori maturava una gran voglia di giustizia, di sapere, di conoscere e gli avvenimenti che si susseguivano li rendevano partecipi ed entusiasti.
Cantarono urlando ”bandiera rossa” e altri inni partigiani, commentarono con gioia la nascita del primo governo d’unità nazionale con Togliatti, Nenni e i protagonisti di tutti i partiti che avevano preso parte alla resistenza italiana.
Con questo nuovo governo, ci sarà finalmente lo sviluppo nei nostri paesi, gli agrari saranno costretti a nuovi patti di lavoro, i braccianti e quanti lavorano la terra non saranno più sotto la minaccia del campiere e dei mafiosi; con i nuovi decreti emanati dal compagno ministro comunista Gullo, aggiunse Giuseppe, avremo riconosciuto anche il diritto ad una più equa ripartizione dei prodotti e all’assegnazione delle terre incolte e mal coltivate.
“Poveri illusi! – esclamò don Coppola Storta, sbucato improvvisamente da una stradina laterale – Ricordativi figghi beddi, lu patruni è sempre lu patruni, quali terre, quale democrazia volete? Quale libertà state aspittannu?”. E mentre agitava animosamente il mazzo di grosse chiavi sui suoi stivali di cuoio: “la roba è di chi la tiene …. e chi la tiene ha sempre comandato e comanderà! Mettetevelo bene in testa, siete soltanto delle teste pazze, io parlo per il vostro bene, non fatevi trascinare, non montatevi la testa, ricordatevelo sempre!”. Poi, ripetendosi più volte, sparì nel buio della notte insieme ai due cani che costantemente lo seguivano al tintinnio delle sue chiavi.
I due ragazzi e i loro amici sapevano benissimo che il campiere parlava per conto dei suoi padroni e dei mafiosi, che nei paesi della valle Jato, storicamente avevano sempre esercitato un potere malavitoso e incontrastato.
Delle sue minacce Giuseppe e Giovanni, non se ne preoccuparono.
Giuseppe era considerato dai suoi amici, grazie alla sua intraprendenza, il loro capo naturale, ed egli li invitava spesso a casa dei genitori nella parte alta di San Cipirello. Da mamma Giuseppa e papà Carmelo i ragazzi erano accolti con simpatia e la casa di Giuseppe divenne il luogo dei primi incontri anche con i dirigenti politici e sindacali che giungevano dalla città.
La collaborazione tra gli abitanti di San Cipirello e quelli di San Giuseppe Jato non era sempre facile, sebbene i due paesi ricadessero in un territorio confinante e le case dei due centri, per la loro vicinanza, non si capiva in quale dei due comuni ricadessero.
I loro bisogni erano uguali a quelli dell’ampio territorio, che l’incuria dei governanti e gli eventi bellici avevano reso ancora più drammatici.
Giuseppe capì che era giunto il momento di una grande iniziativa di lotta e d’unità ascoltando il comizio di Girolamo Li Causi.
Il comizio creò entusiasmo e tantissime attese tra i tanti lavoratori giunti dai vari comuni del circondario.
Li Causi, parlò a lungo dei problemi dei contadini, dei giovani, delle famiglie e soprattutto delle mamme che, per la loro fatica, disse, giungevano a sera sfinite con le caviglie gonfie nei loro alti letti.
Egli parlava, a chi lo ascoltava, di poesia, anche se non era poeta, paragonava le braccia dei contadini ai rami del vecchio albero d’ulivo, alternandosi spesso dall’italiano al dialetto siciliano, con passione ed esempi di vita vissuta. Le sue parole toccarono il cuore di chi lo ascoltava, quasi con venerazione.
La Federterra con la Federbraccianti si erano riorganizzate e attraverso i propri dirigenti, avevano tradotto in lotta concreta i primi obiettivi, contrastati subito dalle dichiarate posizioni dei grandi proprietari terrieri, dalle organizzazioni di destra e dalla mafia agraria.
Tra una riunione e l’altra, i ragazzi trovavano anche il tempo per portare le serenate sotto le finestre delle fanciulle che amavano.
Quella notte Maria, udito il canto del suo Giovanni, aprì lentamente la vecchia e rumorosa persiana della sua stanza, quasi accarezzandola per non svegliare i genitori. Si mostrò al suo ragazzo avvolta nello scialle di seta colorato che il fidanzato le aveva regalato per il compleanno.
Il canto e la musica di Giovanni aveva infastidito qualcuno e sui ragazzi giunse un enorme secchio d’acqua che sopportarono allegramente, grazie alla mite temperatura della notte illuminata da una splendida luna.
Giuseppe in quei giorni, lavorava come bracciante agricolo alla raccolta del cotone nel feudo “Percianotta”.
I bimbi ancora assonnati, seguivano spesso le mamme nei campi durante il lavoro.
Qualche volta le donne trovavano posto sui carri che componevano la carovana e non di rado durante il percorso per raggiungere il feudo, i muli s’imbizzarrivano e mamme e bimbi cadevano giù, quasi sempre, tutto finiva con tanta paura e con tantissime risate.
Il sole andava per altri orizzonti e i canti dei “iurnatari”, tornavano a riecheggiare lungo la valle, fino a raggiungere le case dei loro cari.
Le bianche tovaglie ricoprivano i tavoli attorno ai quali da lì a poco si sarebbero riunite le famiglie per consumare le saporitissime minestre di fresche verdure che qualcuno aveva amorevolmente raccolto dai prati, contribuendo così ad alleviare la fatica della pesante giornata di lavoro appena trascorsa.
Quell’anno i mosti avevano dato del buon vino e il fiasco di vino, girava velocemente tra le mani dei commensali portando allegria nell’attesa di una possibile nuova giornata di lavoro.
Alla Sicilia era stata riconosciuta l’autonomia regionale e la campagna elettorale vide i contadini e i braccianti siciliani, impegnati nella prima competizione democratica dopo il fascismo.
La lista del Blocco del Popolo con l’immagine di Garibaldi, che comprendeva tutta la sinistra siciliana, ottenne un gran successo di voti.
Tutta la valle poteva finalmente ritornare a festeggiare il primo maggio a Portella della Ginestra, luogo simbolo delle manifestazioni dei Fasci Siciliani, vietato ai lavoratori durante il ventennio fascista.
A Portella, vi si recavano i contadini per ascoltare le parole del medico socialista di Piana degli Albanesi, ”Nicola Barbato”.
Anche Barbato, aveva chiesto l’assegnazione delle terre per i contadini, ma il fascismo per bloccarne il movimento, fece in Sicilia tante vittime e ne incarcerò i suoi capi.
La fine della guerra e tutte le successive contraddizioni che aveva fatto emergere, favorì la nascita del banditismo di Salvatore Giuliano che qualcuno chiamava “il re di Montelepre”.
Al bandito non mancarono alleanze con la mafia, il mondo agrario e la peggiore politica che lavorava per fare diventare la Sicilia, isola satellite degli Stati Uniti d’America.
In questo quadro di contraddizioni e di falsi obiettivi per la Sicilia, Giuliano fu nominato colonnello dell’EVIS, movimento che intratteneva rapporti con parte degli Alleati.
I contadini a Palermo, manifestavano assieme agli operai dei Cantieri Navali, dell’OMSA, dell’Aeronautica Sicula, agli zolfatari, alle donne delle varie piccole aziende di trasformazione e con i braccianti del settore agrumario della Conca d’Oro.
Il movimento contadino era riuscito a realizzare con i giovani intellettuali e con parte dell’opinione pubblica, una concreta unità per sconfiggere il vecchio edificio feudale.
A contrastare quanto veniva rivendicato dai contadini, vi erano però, uomini come Lucio Tasca convinto difensore con mafia e agrari, del latifondo e dei vecchi patti agrari. Egli grazie ai suoi buoni rapporti con la mafia che in quel periodo contava di più in Sicilia, don Calò Vizzini di Villalba e Genco Russo di Mussumeli, venne nominato dagli americani, sindaco di Palermo.
Queste grandi lotte e l’unità che attorno ad esse, anche con alterne vicende si riuscì a realizzare, diede al movimento sindacale e a tutta la sinistra, nuovo impulso e presto le lotte contadine si estesero in tutto il Meridione e nel resto del Paese.
Con la vittoria della Repubblica e il successivo risultato elettorale in Sicilia a favore della sinistra, con i grandi movimenti contadini e l’alleanza tra le forze autonomistiche, si era determinato un gran movimento politico di rinnovamento che aveva creato entusiasmo e tante attese nei siciliani.
In questo quadro di mobilitazione e d’entusiasmo il primo maggio del 1947 furono organizzate ovunque feste di popolo con parole d’ordine a lettere cubitali scritte sui tanti cartelli; era rivendicato innanzi tutto, un reale cambiamento politico della regione.
Quel primo maggio a Portella della Ginestra, luogo simbolo di tutte queste lotte, i cittadini di tutta la valle, con le famiglie e i bimbi portati a spalla, si erano riuniti per festeggiare e rivendicare un nuovo futuro.
I banditi comandati dal colonnello Salvatore Giuliano in combutta con mafia agraria e con forze oscure dello Stato, appena ebbe inizio il comizio del dirigente comunista di San Giuseppe Jato, spararono senza nessuna pietà sulla folla riunita a festa. Furono undici i morti e tanti i feriti, tra loro anche donne e bambini.
Subito dopo la strage, Girolamo Li Causi, con coraggio e determinazione, indicò alla Costituente alcuni nomi di mandanti e esecutori.
Questa prima strage di Stato, aprì un periodo terribile nella vita della Repubblica Italiana, proprio perché era maturata all’indomani dell’importante risultato elettorale della sinistra in Sicilia e del grande movimento di unità che si andava realizzando e perché il governo e i maggiori rappresentanti dello Stato, l’ispettore di Pubblica sicurezza e i più alti gradi della magistratura, utilizzavano la mafia come braccio dello Stato, dopo avere utilizzato il banditismo.
L’Italia intera protestò per tanto sangue versato dagli innocenti, i bimbi che non videro mai più la luce, furono elevati ad angeli del cielo che sovrasta la valle e i loro genitori martiri ed eroi per il riscatto della Sicilia.
I morti a Portella della Ginestra sarebbero potuti essere ancor di più se anche Giuseppe, con l’aiuto del suo amico e compagno Giovanni, non fossero riusciti a trascinare durante la sparatoria diversi bimbi lungo un canalone a ridosso della montagna Pizzuta e del monte Kumeta, salvandoli da sicura morte.
Giovanni saprà, solo dopo qualche giorno, che il padre della sua ragazza scampato alla strage, aveva deciso di raggiungere con tutta la famiglia, i parenti, al nord Italia.
Anche Giovanni dopo avere partecipato ai successivi eventi, comunicherà all’amico che andrà via per sposare la fidanzata.
Giuseppe decide di non mollare e moltiplicherà il suo impegno intestandosi le lotte per la ripartizione dei prodotti per l’occupazione e l’assegnazione delle terre e per sconfiggere mafia e latifondo agrario.
L’esperienza che il movimento contadino aveva fatto con le prime occupazioni delle terre, diede nuovo impulso e nuovo contenuto alle lotte in tutta la regione.
Ora oltre a ritornare ad occupare le terre, i contadini procedevano alla semina del loro grano sui feudi che occupavano.
Unitamente ad altri Comuni della provincia, i contadini di San Giuseppe Jato, San Cipirello e di tutta la zona, erano fortemente impegnati in questo nuovo tipo di lotta, ma la polizia e i carabinieri per impedirne l’ulteriore sviluppo, avevano provveduto, notte tempo, ad arrestare quasi tutti i dirigenti sindacali locali, così come avevano già fatto in molti altri centri rurali della regione.
Malgrado tale repressione voluta da agrari e governo, i contadini si ritrovarono numerosissimi di buon mattino per completare la semina nel feudo Pernice.
Fuori del paese, trovarono interi squadroni di poliziotti e carabinieri che non esitarono a caricarli con brutalità. Molti furono pestati a sangue dai carabinieri a cavallo.
La stessa mattina, tanti di loro, con la minaccia delle armi vennero trascinati, come fossero dei pericolosi banditi, sui diversi camion già pronti e trasferiti alle carceri di Palermo.
I contadini e i loro dirigenti dopo avere scontato un periodo di galera, ripresero con maggiore impegno e nella forma già sperimentata l’occupazione e la semina, fino ad obbligare il governo a procedere all’assegnazione delle terre.
Fu un grande risultato, e grazie a queste gloriose lotte e alle iniziative parlamentari di tutta la sinistra, riuscirono ad ottenere attraverso il voto del Parlamento regionale siciliano, condizioni più favorevoli rispetto a quelle previste dalla legge nazionale.
Il ministro Scelba aveva definito la legge di riforma agraria una trappola e la Democrazia cristiana tentava di far passare nel Paese la “legge truffa”.
Grazie anche a queste grandi lotte si sviluppò in tutto il Mezzogiorno d’Italia un grande movimento unitario che ebbe un ruolo determinante per la definitiva bocciatura della brutta legge elettorale sostenuta dal governo in carica.
Intanto Giuseppe, moltiplicava le sue iniziative anche a favore dei lavoratori degli altri comuni, e la Federbraccianti provinciale, fortemente impegnata alla conquista di migliori condizioni contrattuali e per il riconoscimento anche a favore dei braccianti di tutti i diritti sociali di cui godevano gli altri lavoratori, lo volle con Pippo Amato e Rocco Lo Verde, alla guida del sindacato provinciale.
Per Giuseppe questo nuovo impegno fu un’utile esperienza, ma, egli a Palermo non vi rimase a lungo; perché voleva stare accanto ai suoi contadini e alla gente del suo paese.
La sua crescita sindacale sarà presto anche crescita politica con il partito comunista che rappresenterà in tutte le istituzioni, fino ad essere eletto lui, bracciante e contadino autodidatta, sindaco del suo paese.
Appena eletto, egli instaura con i suoi concittadini un rapporto di fattiva collaborazione, le porte del Municipio vengono finalmente aperte alle esigenze del paese e delle scuole. In breve tempo con la sua giunta si realizza un centro di assistenza medica d’urgenza, si affrontano con impegno ed entusiasmo corale, i temi connessi allo sviluppo economico e all’asse viario, alla carenza d’acqua per le case e le campagne, allo sviluppo urbano nel rispetto della legge.
Con la sua amministrazione ha inizio il coinvolgimento della società civile e delle scuole nella lotta per la legalità.
Egli è attento e partecipe alle ricerche nell’importante sito archeologico di Monte Jato, che l’università di Zurigo conduce con il prof. Hans Peter Isler; impegna gli agricoltori e gli artigiani del paese con i loro attrezzi, nel lavoro di recupero di tante ricchezze archeologiche portando alla luce due bellissime cariatidi.
Il sindaco Giuseppe Italiano, comprese subito che per potere mantenere tutta questa meravigliosa ricchezza storica era necessario creare un museo.
Convinse la Soprintendenza ai monumenti e in breve tempo il museo civico fu inaugurato e divenne meta turistica di rilevante valore.
Finalmente, anche nella sua vita, giunge una donna meravigliosa impegnata sul suo stesso fronte, che decide di amarlo per quello che Giuseppe è stato ed è ancora – nemico della mafia e del malaffare – così fortemente, da subirne da essa minacce e attentati, per impaurirlo e farlo desistere dal suo impegno e dalle sue lotte.
Alcuni anni dopo, saranno gli stessi mafiosi a confessare durante un processo presso il tribunale di Palermo, che Giuseppe Italiano aveva subito quegli attentati perché era stato il loro grande nemico.
Con la sua donna egli condivise bellissimi anni d’amore e d’impegno, ma un destino ingrato dopo un terribile male, tolse a lei la vita e a lui ogni speranza d’affetto e di conforto.
Ora a Giuseppe restava soltanto l’impegno per la gente che non aveva mai abbandonato e per la sua cantina sociale che qualche anno prima aveva creato con pochi soci e pochissimi soldi, per farla diventare negli anni sempre più numerosa e solida.
Aveva dovuto spiegare ai contadini, che nel frattempo erano diventati i proprietari delle terre un tempo incolte o lasciate al pascolo, che quelle terre erano fortemente vocate a produrre del buon vino.
Fu così che le colline della valle si trasformarono in rigogliosi vigneti e ora i soci coltivatori che avevano messo insieme speranze e illusioni, ascoltato le parole giuste e gli argomenti validi dei soci fondatori, potevano portare essi stessi le uve nella loro cantina, traendone fonte di vita per quasi novecento famiglie.
Avevano sostituito i carri con i motori gommati e la loro cantina diventava ogni giorno sempre più importante e un validissimo esempio per tutta la cooperazione regionale.
Giuseppe cominciava a sentire il peso del suo instancabile impegno e degli anni che inesorabilmente avanzavano; ma ancora per i soci, nel suo ruolo di presidente, rappresentava una certezza di continuità e di ulteriore sviluppo, anche se egli non aveva trascurato di impegnare attorno al suo lavoro, promettenti giovani dirigenti.
Dal quel tragico primo maggio 1947, erano ormai trascorsi ben cinquant’anni e l’Italia del lavoro e della sinistra, non aveva mai smesso in occasione del primo maggio di ogni anno, di riunire a Portella della Ginestra, i lavoratori e i cittadini Italiani.
In questo luogo sacro, il tempo aveva trasformato anche i sassi, sui quali erano stati adagiati i corpi dei poveri martiri, in bellissimi monumenti. Su alcuni di essi erano state scolpiti i nomi dei caduti e le calde parole che il poeta Ignazio Buttitta subito dopo la strage volle dedicarvi, accanto al grande sasso di Nicola Barbato.
Anche oggi Giuseppe come ogni anno è a Portella con i suoi compagni, la sua gente e le tante rosse bandiere.
Quel giorno, il corteo partì dalla casa del popolo di Piana degli Albanesi, con la Cgil, la Cisl, la Uil, i segretari nazionali, le autorità e i tanti rappresentanti dei Comuni di ogni parte d’Italia.
La partecipazione del Procuratore della Repubblica di Palermo Giancarlo Caselli, segnò la fine di una giustizia di parte che aveva a lungo condannato solo i contadini, i lavoratori e i dirigenti sindacali del movimento, tralasciando di trovare le responsabilità di mafia e politica che, come a Portella della Ginestra, si erano resi responsabili dell’assassinio di ben 52 dirigenti sindacali e politici in Sicilia.
Tra le regioni giunte per partecipare a questo evento, vi sono anche i vessilli dei numerosi Comuni e tantissime bandiere di ogni colore.
Una rossa e grande bandiera della Cgil è sorretta da Giovanni, il suo compagno di tante lotte, che Giuseppe non aveva più rivisto per ben cinquant’anni.
Tra i due uomini non una sola parola, ma un profondo e infinito abbraccio bagnato da lacrime di gioia per un ritorno tanto atteso.
Più tardi insieme, ripercorreranno i luoghi delle loro avventure giovanili, ove ritroveranno ricordi e profumi mai dimenticati.
Giuseppe decide di far vedere tutto quello che è cambiato nel suo paese in questo mezzo secolo; mostra con orgoglio al suo amico la cantina da lui creata, il museo civico nato durante la sua amministrazione con i reperti del monte Jato – il monte che sovrasta San Cipirello e San Giuseppe Jato – le due enorme cariatide, simbolo emergente dell’antica Jato e poi le vigne, tante vigne.
Mostra con orgoglio ogni cosa come fossero tutte sue creature; egli spiega che tutto ciò è stato possibile, per averci creduto e per essere riusciti a strappare dalle mani degli agrari e dei campieri, quanto apparteneva ai lavoratori della terra, di questa, meravigliosa terra che egli ogni mattina dall’alto del suo paese, continua a proteggere anche se solo con l’amore dei suoi occhi.
Appesa al centro della sua stanza vi è la targa che i soci della cantina gli hanno voluto dedicare con la fine della sua presidenza dove vi è scritto: “Quando tutto era più difficile per i contadini e per i coltivatori della valle Jato, Giuseppe Italiano creò le condizioni per lo sviluppo associativo nel settore vitivinicolo e per noi un futuro più dignitoso ed umano. Eternamente grati”.
Giuseppe Italiano, un uomo forte e un bracciante coraggioso, impegnato in cento e più battaglie, racconta ancora, soffre, e si commuove per i tanti suoi sogni che non ha potuto vedere realizzati e mentre con la mano raccoglie una lacrima sfuggita al suo orgoglio contadino, prima di staccarsi da Giovanni, ne indica ancora una volta le vigne e la sua cantina, sussurrando a se stesso: ”Forse anche così abbiamo realizzato un po’ di socialismo”.
Ottavio Terranova, coordinatore Anpi Sicilia, vicepresidente Anpi nazionale
Pubblicato martedì 17 Novembre 2020
Stampato il 16/10/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/idee/il-racconto/luomo-delle-vigne/