Il subcontinente latinoamericano è in preda a fortissime convulsioni politiche. Alla base di tutto vi é una profonda rottura del tessuto democratico che si aggiunge (per conseguenza e non per causa) ad una insostenibilità delle politiche economiche e sociali. Le proteste, sebbene generate da situazioni diverse, hanno un comune denominatore: l’esaurimento della spinta propulsiva del liberismo monetarista che, nel suo svilupparsi, ha mostrato tutta la sua rudezza dottrinaria e ha determinato indici di povertà e diseguaglianze incompatibili con la tenuta democratica delle società. Emerge il suo limite intrinseco, la sua inapplicabilità a lungo termine su larga scala. Si certifica la crisi strutturale di un modello economico e politico venduto come il migliore possibile, generatore unico di ricchezza e stabilità; “un’oasi” come la definì il Presidente cileno Sebastian Piñera. A ben vedere, però, la ricchezza é per pochi, la fame per molti e la stabilità la si mantiene con le armi.
Il modello cui Piñera fa riferimento è quello monetarista, ma proprio quel modello è ora fortemente in crisi, in Cile come in tutta l’America Latina. Su questa crisi si è impantanata l’operazione di reconquista del continente da parte degli Stati Uniti. Obiettivo? Riportare nell’orbita statunitense l’America Latina, le sue ricchezze e il ruolo geopolitico di un continente che affaccia su due oceani, giacimento di fossili e minerali tra i primi al mondo, situato nella più grande biosfera e maggiore riserva d’acqua del pianeta.
Ma non solo di economia si tratta: c’è la dimensione ideologica di ultradestra dell’Amministrazione Trump, che ricorda costantemente la sua battaglia contro i Paesi socialisti (Cuba, Venezuela, Nicaragua) perché vede nello scalpo dei Paesi socialisti latinoamericani la sua vendetta storica, ma lo scontro si misura anche sull’asse geopolitico generale. Indipendenti dal Washington consensus, sviluppavano la cooperazione Sud-Sud, programmavano politiche unitarie per il continente e posizioni comuni nei fori internazionali. A questo si deve aggiungere la crescente penetrazione commerciale e militare di Russia, Cina e Iran, il voto diverso nelle assisi internazionali e il sostegno attivo ai BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica). Un “socialismo del terzo millennio” che non poteva andar bene agli USA che, sin dal primo Obama, vollero rivolgere di nuovo lo sguardo a Sud per riprendersi ciò che ritengono spetti loro, secondo la tristemente nota dottrina Monroe, recentemente rivendicata dal Segretario di Stato degli Stati Uniti, Mike Pompeo. Decisero dunque di rimettere al centro della loro politica estera l’America Latina, dove scaricano le loro eccedenze ed estraggono la ricchezza che serve non solo al mantenimento del ruolo di superpotenza ma anche alla loro stessa sopravvivenza, dato che l’America Latina produce tutto quello che gli USA non hanno ma che consumano in grande quantità. Colpi di Stato militari e parlamentari, cospirazioni politiche e giudiziarie, destabilizzazione dei governi e sanzioni, blocchi economici e campagne mediatiche, sono stati gli strumenti di volta in volta utilizzati per ridisegnare i rapporti di forza nel continente. Questa strategia è alla base delle convulsioni drammatiche che vive oggi il subcontinente latinoamericano.
Perché aldilà del differendo politico, quella porzione di America Latina che si vuole riportare con la forza nell’alveo degli Stati Uniti, nel corso degli ultimi 15 anni ha rappresentato un subcontinente in controtendenza sul piano della crescita economica. Mentre il declino del sistema finanziario trascinava i Paesi occidentali in una crisi profonda, oscillando tra crescita zero e recessione, il Pil dei Paesi latinoamericani cresceva con medie altissime, che sfiorava in Nicaragua e Bolivia il 5 % annuo. Alcuni esempi? In 11 anni di governo sandinista del comandante Daniel Ortega, il Nicaragua è passato dal penultimo al secondo posto continentale per crescita economica. Completamente gratuite sanità e istruzione, elettrificato il 98 % del Paese con il 61 % dell’energia derivante da fonti rinnovabili. Ridotti di oltre la metà gli indici di povertà relativa e assoluta, triplicata l’occupazione, pensioni a 60 anni e pagate con soli 20 anni di contributi. Costruiti 21 ospedali, 160 asili nido, asfaltati 3.500 kilometri di strade; costruite e regalate alla popolazione più umile 51.000 case, distribuiti più di un milione di pasti gratuiti nelle scuole pubbliche. Il Nicaragua è al quinto posto nel mondo per il Gender gap (il rapporto che mostra ampiezza e portata del divario di genere in tutto il mondo, ndr) e la bilancia commerciale dello Stato è in attivo.
In Bolivia si sono raggiunti risultati simili. Fino al 2005 era il Paese più povero della regione. Nei 14 anni del governo di Evo Morales è divenuta leader della crescita economica sudamericana con una media del 4,9 % negli ultimi sei anni e con una inflazione che il Fondo monetario internazionale stima in un 2 % per il 2019. La crescita ha avuto origine nella nazionalizzazione dei settori strategici, rinegoziando i contratti con le multinazionali del ramo estrattivo che tenevano per loro l’82% dei proventi delle risorse e pagavano allo stato boliviano il 18%. Invertiti completamente i parametri, con il controllo dello Stato sugli idrocarburi e l’elettricità, principali esportazioni boliviane all’estero, i proventi hanno finanziato gli investimenti pubblici e le politiche sociali.
Un modello di economia mista, che prevede l’intervento dello Stato (sia come regolatore che imprenditore) che quello dei privati che concorrono alla generazione del Pil, che è stato quadruplicato: dai 9,5 miliardi di dollari nel 2005 ai 40 del 2018. Ridotta della metà la povertà estrema: 38,2 nel 2005, 15,2 nel 2018. Secondo la Fao, la denutrizione è passata dal 30 al 19 %. Le disuguaglianze si sono ridotte e la disoccupazione dall’8,1 è scesa al mentre la speranza di vita è passata dai 64 ai 73 anni. Tra gli interventi a sostegno dell’economia familiare, vanno segnalati il bonus agli studenti, quello alle donne in gravidanza e quello agli anziani. Le politiche ridistributive hanno generato una spirale virtuosa: maggiore occupazione, crescita dei salari e sostegno alle piccole imprese artigianali a carattere familiare (che forniscono il 60 % dell’occupazione) hanno determinato l’innalzamento della domanda interna. Di questo trend di crescita ne ha beneficiato anche il settore informale, che non è più immerso nella povertà e ha creato ulteriore impiego.
Tutt’altro scenario nei Paesi satelliti di Washington, dove sono precipitati gli indici di sviluppo socioeconomico, riportando in emersione denutrizione, analfabetismo, mortalità infantile e fenomeni epidemiologici come dettagli di un generale, brusco impoverimento dei rispettivi Paesi. La Colombia da alcuni giorni è teatro di scioperi generali con durissimi incidenti di piazza costati già 18 morti. L’acuirsi delle diseguaglianze ha reso labile il terreno della mediazione politica sui conflitti sociali: stando ai rapporti Fao la Colombia – che ha milioni di rifugiati in Venezuela e non al contrario come si racconta – è ormai un Paese con oltre il 14% della popolazione che si nutre di avanzi, quando riesce a trovarli. L’assassinio degli oppositori ha indotto al ritorno alla guerriglia le formazioni che avevano deposto le armi e lo strapotere dei paramilitari altera nel profondo il quadro politico.
L’Argentina, che ha visto il declino sottolineato con una disoccupazione record e la perdita del 75% del valore monetario del peso in soli 4 anni, ha conosciuto la sua prima carestia; non per caso l’elettorato ha votato a sinistra.
Il Perù è immerso in una crisi politica sullo sfondo di uno scontro virulento tra poteri dello Stato che pare non trovare soluzione.
Il Cile è avvolto nelle fiamme della protesta popolare contro il sistema pinochettista, una miscela di repressione e turbo liberismo; 25 morti (la triste conta è provvisoria, di qualche giorno fa) e 22.000 arresti sono ad oggi il tremendo bilancio di uno scontro tra un governo sordo alle istanze riformatrici e i giovani a loro volta sordi alle mediazioni della politica.
L’Ecuador è scosso nelle fondamenta dalla ribellione contro un presidente che ha fatto del tradimento la moneta della sua carriera politica, indicando nel suo corpo elettorale che lo ha eletto il principale nemico e proponendosi come l’uomo delle multinazionali e del governo statunitense.
Il Brasile, potenza economica e politica fino al governo di Dijlma, è attraversato da una crisi sociale durissima e una scarsa credibilità politica. Il suo presidente viene ritenuto un problema dagli stessi militari che lo hanno insediato nel Planalto e l’uscita di Lula dal carcere ha virtualmente aperto il conto alla rovescia.
Haiti è in preda ad una rivolta sociale violenta, che è costata 36 morti e centinaia di feriti, oltre a mille arrestati, senza che la crisi sociale che ha generato la rivolta trovi sbocco.
In Honduras, dopo gli scioperi e la repressione del 2018, la mobilitazione sindacale e studentesca ha trovato nella richiesta di dimissioni del governo un terreno unificante e il Presidente è sotto inchiesta per traffici illeciti.
Guayana, Guatemala, Panama e persino l’insignificante Costa Rica hanno dovuto piegare con una brutale repressione le proteste sociali che hanno attraversato i rispettivi paesi nell’ultimo anno. E poi il colpo di Stato in Bolivia, realizzato con l’apporto diretto della Osa (Organizzazione degli Stati Americani) e degli Stati Uniti e concretizzato dall’oligarchia locale. Brogli elettorali mai esistiti, come ora ammettono senza imbarazzo, nomina a presidente di una signora legata al narcotraffico colombiana ed esponente di un partito del 5% dei voti. Ha giurato sulla Bibbia dichiarando odio per gli indigeni, ha minacciato i giornalisti ed espulso testate internazionali dal Paese mentre rompeva le relazioni diplomatiche con il Venezuela e dichiarava l’impunità per militari e polizia. 32 morti e 2800 feriti il bilancio fino ad ora di questa “democrazia” nazievangelica.
Le violente repressioni in corso denunciano anche la crisi politica di un sistema che sembra rifiutare le regole del gioco democratico. Si rifiutano verdetti elettorali, si mina in radice la legittimità del voto, ovvero l’essenza dei diritti politici, svelando così l’ideologia autoritaria di sistemi che vantano invece orientamento democratico e liberale. Nella difesa a qualunque costo di un modello necessario al mantenimento della leadership economica, politica e militare statunitense, il sistema entra in rotta di collisione anche con la democrazia formale. Si ripropone il ricorso ai militari da parte di un capitalismo messo all’angolo dalla sua stessa crisi. Una vecchia storia. Una sporca storia.
Fabrizio Casari, giornalista professionista, esperto dell’area latinoamericana e caraibica, già capo redattore Esteri di Liberazione
Pubblicato lunedì 2 Dicembre 2019
Stampato il 05/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/il-quotidiano/un-continente-ad-alta-tensione/